C’è un altro fronte di scontro tra russi e americani in Asia. Un fronte nascosto e dimenticato ma dove la guerra infuria con continuità e, per numero di decessi, più di prima. È il fronte afgano, la porta che dal Medioriente e dall’Asia centrale arriva al subcontinente indiano. Un fronte di guerra che l’anno scorso ha contato 11mila vittime civili e dove si sta assistendo a un’escalation dei bombardamenti americani nel Sud e alla possibilità che Trump, in campagna elettorale favorevole al ritiro, aumenti le truppe nel Paese. Come anche il governo di Ashraf Ghani gli chiede.
L’Afghanistan fu terreno di scontro durante il «Grande Gioco» tra Impero zarista e Inghilterra nell’800 e divenne il confine guerreggiato durante la Guerra Fredda quando l’Urss invase l’Afghanistan e gli Usa armarono, con sauditi e pachistani, l’armata mujaheddin: i primi «combattenti della fede» manovrati anche dall’Occidente come da lì a poco sarebbe avvenuto anche per la guerra in Bosnia.
I sovietici lasciarono l’Afghanistan con le ossa rotte nel 1989, dopo 10 anni e migliaia di morti, poco prima che la Perestrojka desse il colpo di grazia all’Unione delle Repubbliche socialiste. L’Afghanistan fu il detonatore di una crisi profonda e la carta che Washington aveva giocato, assieme a molte altre, per combattere i comunisti nel mondo. Poi fu la volta degli americani. Dopo l’attacco alle Torri gemelle del 2001, prima gli Stati uniti e poi la Nato (quindi ancora gli Usa), presero il controllo del Paese per far presto i conti con le tribù afgane adesso col turbante nero dei talebani.
Mosca intanto si era ritirata dalla scena, alle prese con la ricomposizione di un impero ormai spezzettato. Se aveva perso l’Afghanistan, Mosca stava soprattutto perdendo influenza in Asia centrale e nel Caucaso dove, oltre alla protesta islamista, c’era da far i conti con la perdita di giacimenti di gas e petrolio, cotone, minerali.