Christian Elia MicroMega on line 28 febbraio 2017
Sono passati più di quindici anni da quando ha avuto inizio la missione militare in Afghanistan e oggi il paese non solo non è sicuro ma rischia di diventare l’ennesimo campo da gioco delle mire di Daesh e della lotta intestina tra al-Qaeda e il Califfato.
Eppure a preoccupare i governi europei sembrano essere solo i rifugiati che premono ai confini della Fortezza Europa. Pericolo per scongiurare il quale l’Unione europea il 2 ottobre scorso ha siglato un accordo – il Joint Way Forward – col governo di Kabul. Dall’esodo perpetuo agli attentati che insanguinano quotidianamente le strade passando per le divisioni interne dei talebani, ritratto di un paese a pezzi.
Il 7 ottobre 2001 una pioggia di fuoco si è riversata sull’Afghanistan. Molte delle persone colpite, non avevano la benché minima idea che l’11 settembre precedente un devastante attentato aveva massacrato 3mila civili negli Stati Uniti d’America. Oggi, dopo più di quindici anni, quel che resta di una missione militare, che per non essere vendetta avrebbe dovuto essere capace di diventare civile, è un paese a pezzi, che assiste attonito a un disastro che si mangia il futuro.
Il futuro di ragazzi come Mohammed, o Rahmatullah. Neanche trentenni, sono tra le vittime dell’ennesimo attacco a Kabul. Questa volta è toccato all’American University. L’ospedale di Emergency di Kabul apre le sue porte per l’ennesima mass casualty. Arrivano in ambulanze, in taxi, con macchine di amici.
Mohammed si è buttato da un balcone per sfuggire agli assalitori. “Stavo facendo lezione, poi abbiamo iniziato a sentire gli spari, le urla. Abbiamo cercato riparo ovunque, ma alcune porte non si aprivano per la pressione dei corpi. Non ho avuto scelta, mi son buttato dal balcone. Mi sono fratturato gamba e bacino, ma sono vivo. E tornerò a studiare.
Questo è un attacco al futuro di questo paese, ma bisogna resistere”, dice, trovando il coraggio per un sorriso. A Rahmatullah è andata peggio: tre pallottole. Lo staff di Emergency gli salva la vita, con un filo di voce racconta che ha poche speranze. “La situazione è fuori controllo ormai. La guerra è ovunque. Quando c’erano i talebani, per assurdo, il conflitto era solo in una zona circoscritta. Alla classe dirigente non importa, non riescono a difendere neanche la capitale. Dividendo sempre di più il paese, secondo gli interessi settari. Se tutto questo non cambia, non potremo mai avere una vita”, racconta mentre si trova in terapia intensiva.
Un altro attacco, un altro bagno di sangue, sotto gli occhi dei dirigibili di sicurezza e degli elicotteri che riempiono di impotenza il cielo di Kabul. “I nostri pazienti sono quasi tutti civili. Donne, bambini, non combattenti. Arrivano da tutto il paese, persone di 90 anni come bambini di pochi mesi. Alcuni neanche nati. Lo ricordo ancora, un feto di sette mesi, trapassato da una pallottola che aveva colpito sua madre. Una vittima di guerra, prima ancora di nascere”. Hedayat è un chirurgo di guerra, da anni al lavoro nell’ospedale di Emergency a Kabul, dove si è formato in ore e ore di sala operatoria, accanto a chirurghi internazionali prima e ora formando a sua volta colleghi afgani.
“Va sempre peggio, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Avevo qualche speranza all’inizio, pensavo che dopo un periodo difficile le cose avrebbero potuto cambiare. Non è accaduto e di speranze non ne ho più. È come guardare il sole che, lentamente, svanisce, in un tramonto che annuncia sempre più oscurità”. Le sue parole trovano conferma in quelle non meno amare del suo collega, Antonio Rainone. “Dopo quindici anni di guerra, con tutte le risorse che sono state investite in questo paese, la situazione è peggiorata. Una guerra che sembra nessuno possa vincere. A Kabul la situazione è sempre più deteriorata, anche in quella che sembrava una zona sicura del paese, spiega Rainone.
"Gli attentati suicidi in città sono costanti, mentre in tutto il resto del paese la situazione degenera, lo riscontriamo dai pazienti che arrivano da altre province. E cambiano anche le ferite, sempre più complicate, con ordigni artigianali carichi di ogni tipologia di oggetto”. Alla violenza militare, si è aggiunta anche una forma di criminalità comune che nella società afgana non ha precedenti. Rapimenti lampo, anche per una manciata di dollari, faide tra bande locali, violenze crescenti in un paese sempre più inondato di armi.
Nell’assenza di una qualsiasi strategia globale della comunità internazionale, che per anni ha ignorato la necessità di aprire un tavolo di colloqui al quale non si sarebbe potuto ignorare la componente talebana l’unico elemento che sembra preoccupare i governi europei sono i rifugiati che premono ai confini della Fortezza Europa, in cerca di scampo.
“Questi accordi sono stati conclusi a porte chiuse e discussi senza coinvolgere la società civile, senza tener conto della sicurezza delle persone e della situazione sul campo. È un precedente preoccupante per l’Europa. L’idea di rispedire donne e bambini in un paese in guerra è insensata”, ha dichiarato Imogen Sudbery, dell’International Rescue Committee (1).
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