Globalist, 30 dicembre 2022, di Umberto De Giovannangeli
L'Afghanistan in mano a un regime oscurantista, misogino. L'Afghanistan talebano dove per le donne che rivendicano autonomia, dignita, diritto allo studio e al lavoro, non c'è posto
Globalist, 30 dicembre 2022, di Umberto De Giovannangeli
L'Afghanistan in mano a un regime oscurantista, misogino. L'Afghanistan talebano dove per le donne che rivendicano autonomia, dignita, diritto allo studio e al lavoro, non c'è posto
A cura di Cisda, 30 dicembre 2022
La storia della relazione tra CISDA e RAWA è il racconto di una militanza che si è nutrita di viaggi e di incontri. Il Covid prima e il ritorno del regime talebano poi avevano costretto e relegato gli incontri ad una dimensione virtuale che si è felicemente interrotta lo scorso settembre quando Maryam Rawi, rappresentante di RAWA, è riuscita a raggiungere l’Italia.
ilmanifesto.it Chiara Cruciati, 30 dicembre 2022
ROJAVA. Non solo curdi: dal 2012 il modello del confederalismo democratico ha coinvolto le tante comunità etniche e religiose del nord-est del paese. Arabi, turkmeni, siriaci, circassi, ezidi, armeni: «Siamo un popolo unico»
Quanti nomi ha Minbic? Gli arabi la chiamano Manbij, i circassi Mumbuj, i siriaci Mabbuh. Sono i curdi a chiamarla Minbic, ma la città è la stessa. Due millenni di storia, dicono; duemila anni che lo Stato islamico tra il gennaio 2014 e l’agosto 2016 era riuscito a occultare dietro la farsa crudele e sanguinaria di un’identità unica: araba e sunnita. Eppure in quella comunità della Siria del nord-est, a meno di quaranta chilometri dal confine con la Turchia, vivono persone diverse.
Diverse etnie e diverse confessioni che nell’agosto di sei anni fa tornarono a colorare – letteralmente – la città liberata dal giogo islamista: l’ingresso delle Forze della Siria democratica (Sdf) segnò la fine dell’occupazione dell’Isis, insieme alle donne che in strada si sfilarono di dosso le lunghe vesti nere che le coprivano da capo a piedi. Sotto quel velo, le singole identità erano state annullate.
Il Dolomiti, 28 dicembre 2022, di Francesca Cristoforetti
Dopo aver negato alle donne di frequentare l'università, ora viene vietato loro di lavorare per le organizzazioni non governative. La testimonianza: "Tante mi hanno detto: 'Non è il momento di piangere, dobbiamo combattere'". Il giornalista e regista Wahidi: "I docenti universitari hanno dato le dimissioni in sostegno alle proteste"
Il manifesto - 27 dicembre 2022, di Chiara Cruciati
A tre giorni dall'attacco, la storia del centro "Ahmet Kaya" e delle tre vittime. L'attentatore William K., in custodia, inizia a parlare. E la Turchia convoca l’ambasciatore francese: «Fate propaganda al Pkk»
«La nostra vendetta sarà la rivoluzione delle donne». Recitava così lo striscione che ieri apriva il lungo corteo della comunità curda in una fredda Parigi di pieno inverno.
Erano a migliaia a tre giorni dall’attentato che ha tolto la vita a tre membri del centro culturale «Ahmet Kaya», nel decimo arrondissement della capitale francese.
HANNO MARCIATO tra le bandiere delle unità curde Ypg e Ypj della Siria del nord-est, quelle viola del movimento delle donne e le foto delle tre vittime, insieme a quelle delle tre donne che il 9 gennaio 2013 furono giustiziate con un colpo alla testa nella stessa zona, la co-fondatrice del Pkk Sakine Cansiz, la membra del Knk Fidan Dogan e la componente del Movimento giovanile curdo Leyla Saylemez.
Anche stavolta a cadere sotto colpi di armi da fuoco sono state persone che alla causa del proprio popolo avevano donato anni di vita: Emine Kara (nome di battaglia Evîn Goyî), membra del consiglio esecutivo del Kck, l’Unione delle Comunità del Kurdistan, ed ex combattente delle Ypj in Rojava; il musicista Sirin Aydın, noto come Mîr Perwer, fuggito dalla Turchia dopo una condanna a 20 anni con l’accusa di appartenenza a organizzazione terroristica; e Abdurrahman Kızıl, attivista di 60 anni, da tanti considerato una delle memorie viventi del centro.
Un altro duro colpo alla poca libertà che ancora avevano le donne in Afghanistan
L'ultimo schiaffo talebano ai diritti delle donne, che non possono nemmeno più lavorare nelle ong, ha scatenato un putiferio di reazioni critiche che il regime stenta a soffocare, con manifestazioni andate in scena addirittura nella città simbolo dei fondamentalisti islamici afghani, Kandahar.
Il Post, 25 dicembre 2022
Era uno dei pochi settori in cui potevano farlo, e ora le ong stanno considerando di lasciare il paese
Sabato il regime dei talebani, che dall’agosto 2021 governa l’Afghanistan, ha annunciato che le donne afghane non potranno più lavorare per le organizzazioni non governative, sia locali che internazionali. Il motivo, secondo una circolare pubblicata dal ministero dell’Economia, è che ci sarebbero state «gravi lamentele» sul fatto che il personale femminile che lavora nelle ong non indossa regolarmente il velo islamico.
Il Manifesto - 24 dicembre 2022 - di Giuliana Sgrena
AFGHANISTAN. Intervista a Samia Walid dell’associazione femminista Rawa: «Ci reprimono con prigione e tortura, ci vietano scuola e lavoro. Il non riconoscimento internazionale del governo islamista di Kabul è la richiesta della maggioranza degli afghani: lo consideriamo un gruppo terrorista»
Le donne afghane non sono disposte ad accettare l’ultima decisione oscurantista del regime dei taleban, la chiusura delle università.
«L’educazione è un nostro diritto», hanno urlato decine di studentesse riunite ieri davanti all’università di Kabul. «Il gruppo medioevale e misogino dei taleban ha paura dell’educazione delle donne, ma il popolo afghano non è ignorante e si solleverà contro questa banda terrorista e brutale imposta dalla Nato e dagli Usa», sostengono le donne di Rawa (Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan), impegnate da decenni nella difesa dei diritti delle donne afghane.
Una nuova sfida dei taleban anche a quei paesi che condizionavano il riconoscimento dell’emirato alla formazione di un governo «inclusivo» e all’apertura delle scuole. Una possibilità ormai superata dagli eventi, chiediamo a Samia Walid di Rawa.
«I taleban sono un gruppo terrorista che non può dare al popolo afghano un governo accettabile. I governi occidentali parlano solo di governo inclusivo, ma cosa significa? Includere nel governo altri gruppi jihadisti? Si tratterebbe comunque di un governo che non riconosce i diritti delle donne e i diritti umani, quindi non deve essere riconosciuto».
Dawn, 23 dicembre 2022, di Aasim Sajjad Akhtar*
Sono passati 14 mesi da quando l'Afghanistan è stato consegnato ai Talebani dalla forza militare più temibile che il mondo abbia mai conosciuto, l'esercito statunitense. Per quasi tutto questo tempo abbiamo sentito dire che il regime di Kabul è nettamente diverso da quello che governava negli anni Novanta, disposto e capace di conformarsi a norme di condotta liberali.
Il governo del Pakistan, ovviamente, ha propagandato le virtù dei Talebani 2.0 più di chiunque altro. Washington non lo ammetterà mai pubblicamente, ma ha acconsentito alla graduale normalizzazione del regime talebano.
Pertanto, le lacrime di coccodrillo versate dai funzionari pakistani e statunitensi in seguito alle recenti notizie secondo cui Kabul sta vietando alle donne l'istruzione universitaria sono ciniche nel migliore dei casi e spregevoli nel peggiore.
Anche qui in Pakistan, le evidenti contraddizioni della politica ufficiale nei confronti dei Talebani vengono messe sempre più a nudo. L'audacia con cui il Tehreek-i-Taliban Pakistan (TTP) ha catturato degli ostaggi a Bannu (https://www.dawn.com/news/1727347) sembra un caso di déjà vu dei primi anni 2000.
RAWA NEWS 21 dicembre 2022
Il ministero dell'Istruzione superiore emette un ordine indefinito tre mesi dopo che migliaia di persone hanno sostenuto gli esami di ammissione.
I governanti talebani dell'Afghanistan hanno ordinato un divieto a tempo indeterminato dell'istruzione universitaria per le donne del paese, ha affermato il ministero dell'istruzione superiore in una lettera inviata a tutte le università governative e private.
"Siete tutti informati di attuare il citato ordine di sospensione dell'istruzione delle donne fino a nuovo avviso", si legge nella lettera firmata dal ministro dell'istruzione superiore, Neda Mohammad Nadeem. Il portavoce del ministero, Ziaullah Hashimi, che ha twittato la lettera, ha confermato l'ordine in un messaggio di testo ad Agence France-Presse.
"Le mie studentesse sono sconvolte e non so come consolarle", ha detto Meena, 52 anni, docente in Afghanistan che ha usato uno pseudonimo per paura di ritorsioni.
Proprio oggi è arrivata una bruttissima notizia dall’Afghanistan il paese di cui ormai non si parla quasi più ma esiste. Il ministero dell’Istruzione afghano ha escluso per decreto le donne dalle Università sia pubbliche che private. Quindi dobbiamo continuare a sostenere i progetti per lo studio delle bambine e delle ragazze
Corriere della Sera 7, di Marta Serafini, 20 dicembre 2022
Nel Paese mediorientale, dove la popolazione femminile rischia di perdere tutto, alcune organizzazioni si stanno muovendo per il diritto all’educazione delle bambine. Noi possiamo sostenerle e onorare così le promesse di 1 anno e mezzo fa
Ma non dall’Anpi e dalla rete che opera con l’associazione dei partigiani. Sono attiviste, giornaliste, poliziotte, studentesse, arrivate fortunosamente in Italia lo scorso anno dopo il ritiro delle truppe Usa dal Paese. Farsi ascoltare è la loro missione dichiarata
Tea Sisto, Patria Indipendente n.116
Parwin ha 26 anni, è un’attivista dei diritti delle donne e oppositrice al governo dei talebani. «Sono nata in un Paese – racconta – in cui essere donne è un reato. Il governo talebano è criminale. Ci hanno tolto diritti e libertà. Oggi una bambina di tredici anni, se considerata bella, viene data in sposa a un capo talebano. Se i genitori rifiutano, vengono uccisi. Le donne non possono uscire se non accompagnate da un uomo di famiglia e coperte dalla testa ai piedi. Oggi – sottolinea Parwin – si parla solo della guerra in Ucraina e delle battaglie in Iran, siamo solidali con le proteste ma la tragedia afghana è coperta dal silenzio. Eppure nella nostra terra le donne vengono perseguitate, violentate e uccise. Io stessa ho dovuto cambiare Paese per non essere uccisa. Noi rifugiate siamo preoccupate per le nostre famiglie rimaste in Afghanistan, per le nostre sorelle che non sono riuscite a fuggire come noi. Chiediamo al resto del mondo di essere la loro voce».
Fatima, giornalista di 27 anni. «Lavoravo a Kabul – spiega – ma con il ritorno al potere dei talebani era ormai impossibile pubblicare qualsiasi cosa, scrivere la verità, raccontare l’orrore. Ma i giornalisti da noi sono in pericolo, devono nascondersi. Gli hanno tolto telefono, pc e penne. Ecco cosa sta accadendo oggi. La democrazia è morta, la povertà dilaga. Le donne sono sotto continue minacce. Il mondo – aggiunge – non sa o sa poco, e comunque preferisce non vedere. Ciò che chiediamo con forza è il non riconoscimento da parte di tutti gli Stati del governo talebano».
Kamela, 25 anni, è un’altra attivista fuggita grazie ai corridoi umanitari. «Solo manifestare per i nostri diritti mette a rischio la vita – denuncia –. Le ragazze non possono andare a scuola e nemmeno lavorare. Restano chiuse in casa se non hanno un uomo a cui accompagnarsi. Noi siamo la loro voce disperata. Penso ai miei genitori che sono in pericolo, ma credo pure che dobbiamo far conoscere al mondo ciò che ancora accade nel nostro Paese. Per questo sono qui e mi espongo. Lo devo al mio popolo».
Zarifa è la più adulta del gruppo, ha 43 anni ed è poliziotta, dodici anni di servizio alle spalle. «Ero orgogliosa del mio lavoro – afferma –. Avrei voluto continuare a fare questo mestiere per tutta la vita. Ma oggi le donne non possono più lavorare. Tanto meno i talebani possono tollerare donne poliziotte. Se penso alle mie colleghe rimaste in Afghanistan, mi assale la paura per loro. So che stanno facendo lo sciopero della fame. Il mio Paese non è più un posto sicuro per nessuna donna. Se la situazione cambiasse, vi tornei subito. Ora è impossibile, continuerò qui la mia battaglia, assieme a voi se ci aiuterete».
Nabila, 29 anni, studentessa, ricorda che il 15 agosto del 2021 è stato il giorno più nero per le donne e per l’intera popolazione afghana. «Ci hanno lasciate sole, senza alcuna umanità e solidarietà internazionale. Ci hanno dimenticate in pochi giorni». Stessa disperazione, accompagnata sempre e anche da una forza d’animo senza limiti e da un coraggio da vendere, anche per Hawagul, un’altra studentessa, che di anni ne ha 24.
Sono sei le nostre sorelle afghane ospiti a Lecce in altrettante famiglie dallo scorso mese di luglio. Arrivate in Italia dopo essersi rifugiate in Pakistan attraverso un corridoio umanitario che le ha portate in salvo. Da allora girano nelle scuole del Salento e dell’intera Puglia. E testimoniano. A Brindisi sono state ascoltate da tante donne e tanti uomini, in rispettoso e attento silenzio, nella gremita sala intitolata a Gino Strada di Palazzo Nervegna. Farsi ascoltare è la loro missione dichiarata.
L’incontro è stato organizzato dalla sezione Anpi “Vincenzo Gigante” di Brindisi, da Io donna, dall’Auser e dal Coordinamento donne Spi-Cgil, in collaborazione con la Commissione pari opportunità del Comune di Brindisi, perché è sacrosanto cucire una rete di protezione e di ascolto di queste sorelle che hanno trasformato la vulnerabilità e la marginalità silente a cui le ha relegate un governo fondamentalista, misogino, violento e assassino, in una forza enorme, in una volontà di reagire e di combattere sia nel loro Paese che fuori dai confini. Portano e continueranno a portare la loro testimonianza, come le ragazze afghane accolte dalla Casa internazionale delle donne di Roma, al pari delle connazionali che hanno trovato rifugio in altre città d’Italia.
«Sono ragazze speciali – dice Anna Caputo, presidente Arci Solidarietà Lecce –. Ho chiesto a una di loro prima di un evento pubblico: non hai paura per la tua famiglia in Afghanistan? Qualcuno deve pure rischiare, ha risposto. Nel Paese hanno subìto violenze continue. Lì molte donne vengono lapidate all’insaputa del resto del mondo. O semplicemente scompaiono. Ma queste sei ragazze sono arrabbiate – continua Caputo – non hanno avuto qui la stessa modalità di gestione istituzionale dell’accoglienza delle donne ucraine. Tant’è che abbiamo dovuto ricorrere alla generosità e all’ospitalità di altrettante famiglie di Lecce. Una solidarietà privata, per così dire. Quella afghana è la tragedia più dimenticata e oscurata del mondo. Lo dicono loro e hanno ragione. È semplicemente la verità».
Le donne afghane lottano contro il regime talebano per la democrazia, la laicità, l’autodeterminazione di tutto il loro popolo, per i diritti delle donne e delle persone Lgbtq, la protezione delle minoranze, le violazioni dei diritti umani, il fondamentalismo islamico, le formazioni terroristiche.
Chiedono il monitoraggio sul rispetto dei diritti umani oggi calpestati. La protesta delle donne nelle strade viene repressa con la violenza, le attiviste vengono arrestate se non uccise. Molte sono costrette ad agire
“L’Afghanistan – abbiamo scritto nella presentazione dell’evento a Brindisi – è un Paese distrutto da oltre 40 anni di guerre che ha visto l’avvicendarsi della guerra sovietico-afghana (1979-1989), di quella civile afghana (1992-1996), del regime talebano (1996-2001), della guerra e dell’occupazione delle truppe Usa/Nato (2001-2021) e nell’agosto dello scorso anno, del ritorno dei talebani con l’accordo delle forze occidentali in ritiro. Il popolo afghano è ridotto alla fame, attanagliato dallo stallo dell’economia, dalla disoccupazione, privato dell’assistenza medica, colpito dalla repressione del regime talebano”.
Le organizzazioni promotrici brindisine si sono attivate sin dal settembre 2021 con iniziative di solidarietà e sostegno alla lotta delle donne afghane, a fianco del Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) e delle organizzazioni partner afghane, tra le quali Rawa (storica associazione afghana delle donne) e Hawca (Humanitarian Assistance for the Women and Children of Afghanistan), con la raccolta fondi destinati al progetto “Vite Preziose” per fornire assistenza alle donne vittime di violenza domestica e sociale in Afghanistan.
Le iniziative proseguono. Ma queste giovani donne, cadute nella trappola dei talebani ancora una volta, vogliono soprattutto essere ascoltate.
E noi, donne italiane, che pure dobbiamo continuare a reagire contro una violenza di genere dai numeri a due cifre (82 le vittime di femminicidio nel 2022, secondo le stime ufficiali) e far sentire ancora più forte la nostra voce impedendo qualsiasi intento di cancellare quel poco di giustizia sociale rimasta, difendendo libertà, autodeterminazione e i diritti conquistati, resteremo accanto alle nostre sorelle afghane. Non saranno sole. E non lo saranno le sorelle iraniane vittime della ferocia di Stato.
Come si è concluso l’incontro di Brindisi con le giovani attiviste afghane? Nel modo più spontaneo, quello di donne che sentono di essere sorelle nella stessa famiglia allargata a tutto il pianeta, quando si combatte per i diritti: omaggi simbolici, sorrisi, abbracci commossi, vicinanza, promesse che saranno mantenute. Perché ci siamo e ci saremo anche in futuro, le une per le altre. Sempre.
Tea Sisto è la presidente dell’Anpi Brindisi
“ L'emancipazione femminile è possibile solo se andiamo alle radici dell'oppressione delle donne”
Kobra Sultani, New Politics Inverno 2022
Presentazione alla Conferenza sul femminismo marxista 2021, Panel sulle lotte delle donne del Medio Oriente e del Nord Africa, il movimento Me Too e le loro sfide al femminismo marxista
Sono Kobra Sultani dall'Afghanistan, un paese che la comunità internazionale ha dichiarato essere il posto peggiore per le donne. Sono felice di far parte di questo incontro oggi.
Sotto i Talebani, le ragazze non possono ricevere un'istruzione superiore alla quinta elementare. Non hanno il diritto di lavorare negli uffici, né di impegnarsi in attività sportive o culturali. Non possono uscire di casa senza un parente maschio. L'hijab o burqa obbligatorio ci è stato imposto e persino il colore del burqa è scelto dai talebani. Queste regole oppressive vengono imposte alle donne in un momento in cui la popolazione è in stato di shock e soffre di una povertà inimmaginabile. Le famiglie che hanno venduto le loro proprietà e i loro mezzi di sostentamento per un pasto, ricorrono alla vendita dei loro figli, per lo più bambine. Le donne che hanno perso il marito a causa della pandemia di Covid-19, della guerra o degli attacchi terroristici dei gruppi jihadisti islamici, e che sono diventate l'unica fonte di sostentamento della famiglia, si trovano ad affrontare molteplici problemi.
La Farnesina, mentre ricerca il dialogo e fa conferenze con personaggi politici compromessi con i signori della guerra e favorevoli al riconoscimento dei talebani, ignora le organizzazioni come Rawa che sono rimaste in Afghanistan e lavorano direttamente con e per il popolo oppresso dal governo talebano
Giuliano Battiston, il Manifesto, 14 dicembre 2022
Alla Farnesina, si parla di Afghanistan. Si è tenuta ieri pomeriggio nella sede del ministero degli Esteri il convegno «Women for Peace: the Afghan Challenge». Promosso dall’antenna italiana di Women in International Security (WIIS), ha visto alternarsi attiviste afghane e interlocutori della diplomazia e dell’associazionismo internazionale.
Tra i volti noti della società afghana era presente Fatima Gailani (figlia di Pir Sayed Ahmed Gailani, leader di uno dei partiti che hanno combattuto contro i sovietici negli anni Novanta), a lungo presidentessa della Mezzaluna rossa a Kabul. Poi negoziatrice con i Talebani negli incontri collaterali all’accordo di Doha firmato dai militanti islamisti con Washington nel febbraio 2020.
Per Gailani, il collasso della Repubblica islamica e il ritorno al potere dei Talebani nell’estate 2021 non sono stati una sconfitta militare, ma una «bancarotta politica», con responsabilità diffuse. Oggi, di fronte a una situazione «vicina alla catastrofe», servirebbe un «nuovo approccio, prudente», che non passi semplicemente per critiche e accuse ai Talebani, ma che sappia ricondurli dentro il percorso negoziale tracciato negli incontri internazionali. Come? Sfruttando la loro ambizione a veder riconosciuto l’Emirato islamico, chiedendogli di rispettare gli impegni assunti allora.
A giudicare dalla parabola sempre più autarchica dell’ultimo anno e mezzo, dalla capacità della componente più oltranzista dei Talebani di dettare la linea al governo,un’ipotesi molto complicata. Segue logiche diverse la diplomazia italiana, secondo l’ambasciatrice per l’Afghanistan Natalia Quintavalle, che dallo scorso settembre sostituisce Vittorio Sandalli. Per Quintavalle va «mantenuta la posizione del non riconoscimento» dell’Emirato, senza però rinunciareal dialogo con i Talebani.
Anche per l’inviato speciale dell’Unione europea Tomas Niklasson un dialogo serve, soprattutto «a evitare l’ulteriore isolamento del Paese, ma senza riconoscimento». Niklasson, abituato a metterci la faccia, ammette che la presenza diplomatica europea a Kabul, per quanto ridotta, «è politicamente rischiosa», ma anche utile «a controllare che l’assistenza umanitaria arrivi senza interferenze» ai bisognosi e a mettere in chiaro cosa ci si aspetta dai Talebani: «Inclusività, rispetto dei diritti».
I risultati, per ora, sono deludenti, commenta Mahbouba Seraj, nota esponente della società civile, attivista per i diritti delle donne, giornalista. Per la quale la priorità è «evitare la disintegrazione dell’Afghanistan», facile se si continua a giocare la chiave etnica.
Più difficile, fornire raccomandazioni concrete, elencare proposte, lamenta Nilofar Ayoubi, della rete Women’s Political Participation, che si chiede: «Non ho ancora capito se queste conferenze funzionino davvero, visto che le politiche repressive continuano». Due le sue richieste principali: «Trovare strumenti per costringere i Talebani a dare conto delle proprie azioni». E «riconoscere le donne afghane come attori politici. A partire da quelle che vivono nel Paese».
"La mia penna è l'ala di un uccello; ti dirà quei pensieri che non ci è permesso pensare, quei sogni che non ci è permesso sognare"
Lyse Doucet, Zarghuna Kargar, BBC News, 11 dicembre 2022
A volte, le voci delle donne afghane si alzano dalle strade di Kabul e di altre città in piccole, rumorose proteste. Spesso risuonano nei discorsi di donne ormai lontane, fuori dall'Afghanistan. Ma soprattutto, i loro pensieri vengono espressi solo in silenzio, in luoghi sicuri. Oppure marciscono nelle loro teste mentre cercano di conciliare le loro vite con le regole sempre più rigide del governo talebano. Limitano ciò che le donne indossano, dove lavorano, cosa possono fare o meno della loro vita.
Nei mesi prima del ritorno dei talebani, nell'agosto 2021, 18 scrittrici afghane hanno scritto storie di fantasia, tratte da vite reali, e pubblicate all'inizio di quest'anno nel libro My Pen is the Wing of a Bird. Molte donne afghane si sono sentite deluse e lasciate sole dalla comunità internazionale. Ma questi scrittori hanno usato le loro penne e i loro telefoni per confortarsi a vicenda e per riflettere sui problemi che ora devono affrontare milioni di donne e ragazze. Qui, due scrittrici di Kabul, pseudonimi Paranda e Sadaf, hanno condiviso i loro pensieri scritti in segreto.
"Una sciarpa rosa è un peccato?"
"Oggi mi sono svegliata con determinazione. Quando ho scelto i miei vestiti, ho deciso di indossare un velo rosa per combattere il velo nero che indosso tutti i giorni... è un peccato indossare un velo rosa?"
Paranda preferisce vestirsi di rosa, per sentirsi femminile. Ma ciò che le donne scelgono di indossare è ora un campo di battaglia. I severi editti talebani sulla modestia vengono applicati, spesso con la forza. In questa società tradizionale, le donne afgane non combattono contro il copricapo, alcune vogliono solo il diritto di scegliere. Lo vedi per strada, negli spazi pubblici. Una sciarpa rosa. Un taglio scintillante. Un po' di luce nel buio.
bbc.com Ali Hosseini 10 dicembre 2022
Il caso più famoso di esecuzione talebana basata sull '"ordine di punizione" è stata quella di una donna sul campo di calcio il 17 novembre 1999 a Kabul: l'esecuzione di Zharmina.
Zharmina era la stessa donna che sedeva sulla linea bianca dell'area di rigore del Ghazi Stadium di Kabul con indosso un burqa blu e uno dei talebani le si era avvicinato con un kalashnikov e le aveva sparato alla testa.
L'immagine di questa scena è stata ripubblicata molte volte negli ultimi tre decenni come "simbolo del trattamento riservato alle donne in Afghanistan". Ho parlato con quattro persone che quel giorno erano presenti sul campo di calcio. Due di loro sono donne della "Associazione rivoluzionaria delle donne afghane" nota come "Rawa". Ho parlato con la persona che ha girato il video di questa scena dell'esecuzione e ho parlato con l'altra che era seduta accanto a lei tra il pubblico, direttamente e per telefono.
Van Antonowicz, reporter del Daily Mirror, è stato uno dei primi e pochi reporter che hanno seguito la storia di Zharmina. Fonti hanno detto ad Antonowicz che Zharmina aveva ucciso "il marito violento". Sono passati più di 20 anni da quell'evento e ora è difficile verificarlo e non è possibile confermare o smentire con certezza le narrazioni.
Zharmina era stata in prigione per tre anni prima della sua esecuzione. Quando era stata portata in prigione, era accompagnato da due gemelli di un anno e una bambina. Secondo il giornalista del Daily Mirror, Zharmina pensava che portandosi i bambini in prigione poteva salvarla dal rischio di punizione e morte. Ma Zharmina si sbagliava; Quando i due gemelli furono svezzati, fu fissato il momento della sua esecuzione. Ma lei continuava a dire: "Non mi uccideranno. Chi si prenderà cura dei miei figli? Sono una madre. Non uccidono una madre".
Secondo una delle persone che erano presenti allo stadio quando Zharmina era stata condannata a morte, ha detto che i talebani di solito eseguivano le esecuzioni il venerdì, ma in via eccezionale tennero l'esecuzione di Zharmina il martedì. "Voice of Shariat", l'emittente radiofonica talebana degli anni Novanta, aveva annunciato la sera prima quale sentenza sarebbe stata eseguita il giorno dopo allo stadio. Quel giorno, "circa 30.000 persone" si erano radunate nello stadio sportivo di Kabul, secondo Antonowicz e i suoi testimoni.
Valigiablu.it Roberta Aiello 8 dicembre 2022
Quando i talebani sono tornati al potere in Afghanistan, nell'agosto 2021, in pochi credevano che il gruppo fondamentalista si sarebbe comportato in maniera diversa rispetto al passato. Molti ci avevano sperato ma le aspettative sono state disattese.
I sei anni in cui avevano governato il paese – dal 1996 al 2001 – erano stati caratterizzati da massicce violazioni dei diritti umani, fustigazioni di piazza, limitazioni alla partecipazione delle donne alla vita pubblica.
Quando hanno ripreso il controllo dell'Afghanistan, nell'estate dello scorso anno, gli analisti hanno auspicato che fossero finalmente diventati “politicamente maturi”.
Le parole avevano, infatti, acceso un barlume di speranza. All'indomani della conquista del paese i comandanti talebani avevano rilasciato alcune dichiarazioni che lasciavano intendere che avevano fatto tesoro degli errori passati.
A quasi un anno e mezzo di distanza tutto è tornato al punto di partenza.
ultimavoce.it Marina Satta 1 dicembre 2022
In Afghanistan i Talebani hanno reintrodotto le punizioni corporali pubbliche per coloro che non rispettano la legge della Sharia. Quattordici persone sono state fustigate in un campo di calcio davanti a centinaia di spettatori.
Nella provincia orientale di Logar in Afghanistan , il 23 novembre scorso i Talebani hanno frustato pubblicamente 14 persone in uno stadio di calcio, tra queste vi erano anche 3 donne. I funzionari talebani hanno esortato gli abitanti della piccola città di Pul Alam ad assistere alle punizioni inflitte ai criminali morali, che hanno ricevuto dalle 21 alle 39 frustate tra urla e richieste di aiuto davanti a centinaia di persone. La punizione sarebbe avvenuta per aver commesso crimini come furti, rapina e adulterio. Ma dalle informazioni trapelate, sarebbero stati fustigati anche uomini accusati di accompagnare donne che indossano abiti colorati.
Una pratica brutale esposta pubblicamente, che ha il solo scopo di intimorire la popolazione per far sì che le persone rispettino la legge della Sharia. Altre 19 persone l’11 novembre sono state frustate ben 39 volte nella moschea di Talon davanti ai fedeli.
Enrico Campofreda dal suo Blog 2 dicembre 2022
I tanti che in Afghanistan ci sono rimasti - quei trentatré milioni e più che non agguantavano i voli di fine agosto 2021 successivi alla calata dei taliban su Kabul e sul potere, né transitavano nei corridoi umanitari organizzati in Occidente soprattutto per chi s’era esposto coi governi collaborazionisti e temeva per la propria incolumità - devono fare i conti col sostentamento quotidiano. I più fortunati che per attività proprie, commerciali e imprenditoriali d’una certa consistenza, o per rapporti di lavoro con le poche Ong tuttora presenti sul territorio si rivolgono alle filiali del denaro, raccontano le traversie per effettuare operazioni di prelevamento e versamento.
L'articolo illustra il disastro dei vent'anni di occupazione in Afghanistan e un interessante reportage di Fahim Abed (di Tehe Intercept) sull'evacuazione dei collaboratori afghani della CIA
Contropiano, 3 dicembre 2022, di Redazione Contropiano - Fahim Abed (The Intercept)
Ad inizio del settembre dello scorso anno, dopo poche settimane dalla conquista talebana di Kabul – avvenuta il 15 agosto – e la rovinosa fuga occidentale dal Paese, pubblicavamo un anticipazione del volume “The Afghanistan Papers” scritta da Nick Turse sul giornale d’inchiesta The Intercept.