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Tag: Afghanistan

Le popolazioni dell’Afghanistan stanno subendo sistematiche violazioni dei diritti umani perpetrate dai talebani

Global Centre for the Responsibility to Protect, Rawa, 7 aprile 2025

I talebani hanno intensificato le restrizioni ai diritti e alle libertà, prendendo di mira in particolare le donne, la società civile e la stampa

CONTESTO

Da quando le forze talebane hanno di fatto rovesciato il governo afghano nell’agosto 2021, i talebani e vari gruppi armati, tra cui il cosiddetto Stato islamico dell’Iraq e del Levante-Khorasan (ISIL-K), hanno commesso violazioni e abusi dei diritti umani diffusi e sistematici in tutto il Paese.

Le autorità talebane de facto hanno implementato politiche e pratiche restrittive che negano a donne e ragazze i loro diritti umani, perpetuando forme estreme di discriminazione di genere e violando palesemente la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (CEDAW). Dall’agosto 2021 sono stati emanati oltre 100 editti, regolamenti e decreti repressivi radicali che prendono di mira donne e ragazze, limitandone gravemente la libertà di movimento, la libertà di opinione e di espressione, le opportunità di lavoro, la rappresentanza politica e pubblica e l’accesso all’istruzione e all’assistenza sanitaria. Nell’agosto 2024 i talebani hanno attuato le cosiddette leggi “vizio e virtù”, che mirano a sradicare le donne dalla vita pubblica, anche imponendo loro di coprirsi completamente il volto e vietando loro di parlare o essere ascoltate in pubblico. Gli editti attuati nel 2024 hanno ripristinato la lapidazione pubblica e la fustigazione a morte delle donne per presunto adulterio, tra le altre violazioni dell’ideologia talebana. La Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA) ha documentato arresti e detenzioni arbitrarie di donne e ragazze a causa della presunta inosservanza del “codice di abbigliamento islamico” imposto.

Secondo il Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan e il Gruppo di Lavoro sulla Discriminazione contro le Donne e le Ragazze, i Talebani potrebbero perpetrare persecuzioni di genere e apartheid di genere, poiché sembrano governare attraverso una discriminazione sistematica con l’intento di sottomettere donne e ragazze a un dominio totale. Secondo l’UNAMA, le donne afghane temono arresti e punizioni ogni volta che viene annunciato un nuovo editto a causa delle crescenti molestie da parte della polizia. Secondo quanto riferito, donne e ragazze sono state costrette a salire a bordo di veicoli della polizia e sottoposte a maltrattamenti. Le donne e le ragazze sciite Hazara sono state colpite in modo sproporzionato. Anche attiviste per i diritti delle donne e sostenitrici della parità di genere hanno subito uccisioni mirate, sparizioni forzate, detenzioni in isolamento, aggressioni e molestie.

L’UNAMA ha inoltre documentato prove di esecuzioni extragiudiziali, arresti e detenzioni arbitrarie, detenzione in isolamento, torture e maltrattamenti commessi dai talebani nei confronti di operatori dei media, difensori dei diritti umani e individui affiliati al precedente governo, tra gli altri gruppi specifici.

Nel frattempo, individui appartenenti a minoranze etniche e religiose sono spesso presi di mira dai Talebani, dall’ISIL-K e da altri. Membri di queste comunità sono stati arrestati arbitrariamente, torturati, giustiziati sommariamente e costretti alla fuga. L’ISIL-K rivendica frequentemente attacchi contro gli Hazara sciiti, altri musulmani sciiti, musulmani sufi, sikh e altre minoranze, nonché contro luoghi di culto. Il Relatore Speciale delle Nazioni Unite ha riferito che questi attacchi sembrano essere di natura sistematica e riflettono elementi di una politica organizzativa, probabilmente assimilabili a crimini contro l’umanità.

La popolazione afghana sta attraversando una grave crisi umanitaria, aggravata dall’impatto delle sanzioni e dal congelamento dei beni statali. Nel dicembre 2021, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato la Risoluzione 2615, che consente l’afflusso di aiuti umanitari in Afghanistan senza violare le sanzioni ONU contro i talebani, in vigore dal 2011.

I Talebani hanno detenuto di fatto il potere in Afghanistan dal 1996 al 2001, prima di essere rovesciati da una coalizione di forze militari della NATO. Durante due decenni di insurrezione contro il governo afghano riconosciuto a livello internazionale, i Talebani hanno perpetrato probabili crimini contro l’umanità e crimini di guerra, mentre le forze di sicurezza afghane e i membri dell’esercito statunitense e della Central Intelligence Agency hanno a loro volta commesso probabili crimini di guerra. Nel marzo 2020, la Corte penale internazionale (CPI) ha avviato un’indagine sulle presunte atrocità commesse a partire dal luglio 2002, concentrandosi sui crimini commessi dai Talebani e dall’ISIL-K.

SVILUPPI RECENTI

Il 23 gennaio, il Procuratore Capo della CPI ha depositato richieste di mandato d’arresto per i leader talebani Haibatullah Akhundzada e Abdul Hakim Haqqani per il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere, segnando la prima accusa di questo tipo presentata dalla Corte. Nel settembre 2024, Australia, Canada, Germania e Paesi Bassi hanno annunciato l’avvio di un procedimento legale contro l’Afghanistan presso la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) per violazioni della CEDAW.

I talebani hanno intensificato le restrizioni ai diritti e alle libertà, prendendo di mira in particolare le donne, la società civile e la stampa. Entro la fine del 2024, i talebani hanno annunciato l’intenzione di revocare le licenze alle ONG che impiegano donne afghane, di vietare le finestre che si affacciano su aree in cui le donne lavorano o si riuniscono e di chiudere 12 organi di stampa.

I cittadini afghani in Pakistan, inclusi rifugiati, migranti regolari e irregolari, nonché coloro che attendono il reinsediamento, affrontano rischi crescenti di rimpatrio forzato nell’ambito di un nuovo piano in più fasi del governo pakistano. Decine di migliaia di rifugiati in attesa di reinsediamento in paesi terzi a Islamabad e Rawalpindi devono trasferirsi entro il 31 marzo, pena l’espulsione.

ANALISI

La distorsione dei principi religiosi da parte dei Talebani per giustificare politiche discriminatorie e persecutorie, unitamente a misure che ridefiniscono i confini della pratica religiosa accettabile per la popolazione più ampia, rappresenta un grave rischio di ulteriori crimini contro l’umanità. Gli sforzi dei Talebani per escludere donne e ragazze dalle sfere sociali, economiche e politiche, compresa la discriminazione di genere e la violenza istituzionalizzata su larga scala contro di loro, equivalgono probabilmente a persecuzione di genere, un crimine contro l’umanità. Le continue restrizioni alle libertà fondamentali e l’impunità per violazioni e abusi passati e in corso creano un ambiente favorevole a violazioni più gravi del diritto internazionale e a ulteriori crimini atroci contro donne e ragazze.

I Talebani prendono spesso di mira giornalisti, funzionari pubblici, difensori dei diritti umani e persone affiliate al precedente governo, con violazioni che sembrano perpetrate su base diffusa e sistematica. Gli attacchi mirati sono in gran parte ignorati a causa della repressione talebana dei media indipendenti e della chiusura dello spazio civico. Attualmente non esistono organismi nazionali indipendenti che documentino le violazioni dei diritti umani a causa dello smantellamento di istituzioni chiave, tra cui la Commissione indipendente afghana per i diritti umani e l’Ufficio del Procuratore generale. I Talebani hanno inoltre vietato l’accesso al Paese al Relatore speciale.

VALUTAZIONE DEL RISCHIO

Decenni di violazioni del diritto internazionale e di impunità per tali crimini.

Discriminazione di genere istituzionalizzata, sistematica e su larga scala da parte delle autorità de facto dei talebani nei confronti di donne e ragazze.

Attacchi mirati, diffusi e sistematici, perpetrati dall’ISIL-K e dai talebani contro le minoranze etniche e religiose.

Mancanza di media indipendenti e repressione della società civile e dei difensori dei diritti umani.

Debolezza delle strutture statali nel proteggere le popolazioni vulnerabili e riluttanza delle autorità de facto a rispettare gli obblighi di diritto internazionale.

AZIONE NECESSARIA

In quanto autorità di fatto, i Talebani sono vincolati dagli obblighi internazionali in materia di diritti umani, codificati nei trattati di cui l’Afghanistan è parte, tra cui la CEDAW. Devono rispettare tali obblighi, anche ponendo fine alle violazioni e agli abusi perpetrati dai loro funzionari e garantendo la pari protezione e promozione dei diritti umani a tutte le persone in Afghanistan, indipendentemente da genere, origine etnica, credo religioso o affiliazione politica. I Talebani dovrebbero consentire alla comunità internazionale di fornire assistenza per adempiere a tali obblighi. Qualsiasi sforzo volto alla normalizzazione delle relazioni con i Talebani deve essere subordinato al rispetto dei diritti umani e dei diritti delle donne, in linea con il diritto internazionale.

I Talebani devono indagare sui modelli di violazione dei diritti umani e adottare misure per prevenirli in futuro, anche assicurando i responsabili alle loro responsabilità. Devono revocare le restrizioni e consentire al Relatore Speciale un accesso sicuro e senza restrizioni in Afghanistan. I Talebani dovrebbero collaborare pienamente con l’UNAMA e l’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani.

La comunità internazionale dovrebbe continuare a perseguire la giustizia per i probabili crimini atroci commessi in Afghanistan, indipendentemente dalla posizione, dalla nazionalità o dall’affiliazione del presunto autore. La comunità internazionale dovrebbe cooperare e fornire supporto alla CPI e alla Corte Internazionale di Giustizia. Tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite dovrebbero garantire che il Servizio per i Diritti Umani dell’UNAMA disponga di risorse sufficienti per svolgere appieno il suo mandato. Gli Stati confinanti devono rispettare il principio di non respingimento.

Negazione delle donne, glorificazione della povertà e idealizzazione della vita rurale nel sermone del Mullah Hibatullah

Younus Negah, Zan Times, 7 aprile 2025
Durante il mese di Ramadan e l’Eid che segue, le discussioni su fame e povertà si intensificano. Religiosi e politici offrono conforto ai poveri mentre predicano ai ricchi. Parlano di come la fame purifichi l’anima e rafforzi la fede, e incoraggiano i benestanti a fare l’elemosina e a mostrare compassione.

Eppure, in questo mese, raramente i mullah dal pulpito – o i leader politici nelle società musulmane – parlano di equa distribuzione delle risorse, lotta allo sfruttamento o sforzi concreti per ridurre la povertà. Piuttosto, il messaggio dominante accetta la disuguaglianza come volontà di Dio

Nella retorica dei mullah, la povertà non ha alcuna connotazione negativa. Al contrario, è rappresentata come un vantaggio spirituale. Il termine faqir (povero) è spesso usato in modo intercambiabile con “mistico”.

Nell’Emirato dei Talebani – un’alleanza di mullah, sottoproletari, contrabbandieri e uomini d’affari – la povertà viene apertamente elogiata e il governo si dissocia da qualsiasi responsabilità per la sicurezza alimentare della popolazione. I leader talebani hanno ripetutamente affermato di non aver preso il potere per portare prosperità o benessere, spiegando che le persone devono chiedere a Dio il loro sostentamento di base e insistendo sul fatto che la quota di ciascuno è stata scritta all’alba dei tempi sulla tavola divina e che è dovere dei poveri essere pazienti e grati.

Eppure proprio questi mullah, personaggi di basso profilo e  contrabbandieri non contano su Dio per il proprio sostentamento. Invece, mettono le mani nelle tasche sia di chi ha fame, sia di chi non ce l’ha in tutto l’Afghanistan, estorcendo elemosine e tasse a venditori ambulanti, contadini, negozianti e commercianti. Pianificano il loro arricchimento, combattono e persino uccidono per ottenere quei fondi.

La competizione per la distribuzione del bilancio nazionale, i profitti derivanti dalle entrate minerarie, il controllo di redditizi uffici doganali e fiscali e l’accesso agli aiuti esteri palesi e occulti hanno portato potenti fazioni talebane, in particolare i campi del Mullah Hibatullah e della rete Haqqani, sull’orlo del conflitto aperto.

La misericordia dei ricchi e la preghiera dei poveri

Il peso della povertà della gente ha oscurato la gioia dell’Eid, persino durante il sermone del Mullah Hibatullah. Ha parlato a lungo ai poveri che si erano riuniti all’Eidgah per ascoltarlo e, attraverso loro, alla stragrande maggioranza degli affamati, di cui esige l’obbedienza incondizionata. Il suo messaggio era incentrato sulla virtù della preghiera e della pazienza tra i poveri.

Il mullah Hibatullah ha affermato che lo stesso Dio che ha creato le Sue creature provvede anche a loro, e che i poveri non dovrebbero lamentarsi o incolpare nessuno per la loro povertà. “Tizio e Caio non possono farci niente”, ha detto. Ma i “tizio e caio” a cui si riferisce sono proprio coloro che riscuotono le tasse religiose (usher) e i contributi economici dalla gente, mentre negano loro libertà, istruzione e lavoro. Se qualcuno non paga puntualmente l’usher o ritarda a dare da mangiare ai mullah e ai loro alleati, andrà incontro a una punizione severa, che non sarà rimandata al Giorno del giudizio.

Mullah Hibatullah ha sottolineato che sia la fame che l’abbondanza sono prove di Dio. I ricchi dovrebbero essere grati per ciò che hanno, e i poveri dovrebbero essere grati per la loro mancanza di sostentamento. Secondo lui, il rapporto tra musulmani ricchi e poveri dovrebbe basarsi sulla misericordia e sulla preghiera, come definito dalla legge islamica, : “I ricchi devono mostrare compassione verso i bisognosi e i poveri dovrebbero pregare per i ricchi ed essere contenti della loro condizione”.

Nella sua visione del mondo, la ricchezza è solo un dono divino. Nessuno può incrementarla o diminuirla, perché il sostentamento di ognuno è scritto nel suo destino. Ai suoi occhi, furto, saccheggio, sfruttamento, contrabbando e appropriazione indebita non sono le cause della povertà diffusa o dell’estrema concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. “Dio ha ordinato ogni cosa all’inizio dei tempi”, afferma.

Predicava che i poveri dovessero rimanere in silenzio e che fosse religiosamente illegittimo per loro protestare per la propria condizione. “Quando un bambino viene concepito nel grembo materno”, diceva, “Dio comanda all’angelo di scrivere il suo destino: se sarà ricco o povero, quanto sostentamento avrà e con quali mezzi lo guadagnerà”.

A suo avviso, i poveri non hanno il diritto di chiedersi perché altri ottengano la loro ricchezza attraverso furto, contrabbando, saccheggio o violenza – perché l’angelo, per ordine di Dio, lo ha scritto così fin dall’inizio. I poveri non dovrebbero chiedere al Mullah Hibatullah perché le sue spese d’ufficio nel secondo trimestre dell’ultimo anno fiscale siano ammontate a due miliardi di afghani – quasi il 6% dell’intero bilancio operativo del suo Emirato. Né dovrebbero chiedersi perché, sotto il suo governo, oltre l’80% della popolazione – secondo alcune stime, 28 milioni di persone – soffra di fame e abbia urgente bisogno di aiuti.

Secondo il Mullah Hibatullah, i poveri dell’Afghanistan devono unirsi ai comandanti talebani, ai sottoproletari loro alleati, ai contrabbandieri e ai saccheggiatori perché si trovano ad affrontare nemici ancora più grandi.

Jinn e umani: i nemici dei musulmani

Il giorno in cui il Mullah Hibatullah ha tenuto il suo sermone all’Eidgah di Kandahar, sui media è circolato un breve video. Mostrava diverse donne che gridavano aiuto mentre sedevano a terra lungo il sentiero che portava all’Eidgah.

Nell’Emirato dei Talebani, le donne sono trattate come jinn, esseri soprannaturali che devono esistere ma rimanere invisibili. Ci si aspetta che le donne siano presenti, obbedienti e fedeli, ma invisibili. Non devono essere viste pregare nelle moschee o partecipare alla vita religiosa pubblica come fanno gli uomini.

Per i talebani, le donne – come i jinn – possono essere buone o cattive. Eppure, che siano considerate buone o cattive, ci si aspetta comunque che rimangano nascoste. Proprio come Dio ha creato i jinn e li ha tenuti nascosti agli occhi umani, comandando loro di agire in amicizia o inimicizia nell’ombra, anche le donne devono vivere lontane dagli occhi degli uomini.

Nel sermone dell’Eid del Mullah Hibatullah, la presenza dei jinn era più evidente di quella delle donne. Invitò i credenti, poveri e ricchi, a unirsi, avvertendo che “tra i jinn e gli umani i nemici ” dei musulmani sono in agguato . Secondo lui, “le forze sataniche – sia jinn che umane” – sono unite e diffondono la discordia e la cospirazione nei paesi islamici.

Pertanto, ha esortato i musulmani a superare le loro divisioni personali e sociali e a prendere coscienza della minaccia. Povertà, disoccupazione, mancanza di istruzione e ingiustizie: queste, a suo avviso, non sono le vere preoccupazioni dei musulmani afghani, insistendo sulla necessità di forgiare l’unità contro i “jinn satanici e le forze umane”, minacce che superano tutte le altre.

Gli abitanti del villaggio sono amici, gli abitanti della città sono nemici

Negli ultimi quattro anni, il mullah Hibatullah non ha fatto alcuno sforzo per nascondere la sua ostilità verso la città e la vita urbana. Considera Kabul un covo di demoni – un luogo di peccato e corruzione – e ha fondato il suo Emirato a Kandahar, dove dominano costumi e codici rurali.

Sebbene nei suoi sermoni nomini jinn, diavoli, infedeli e occidentali come nemici, la lama dei suoi decreti e delle sue sentenze disumane si è abbattuta quasi esclusivamente sugli abitanti delle città. Lui e i suoi alleati hanno lavorato sistematicamente per trasformare le città afghane in villaggi.

Nel suo sermone per l’Eid, ha descritto la democrazia come “ignoranza velenosa” che è stata infine sradicata grazie ai “mujaheddin in prima linea” e alla “gente comune delle campagne”.

Ha dichiarato: “Se la jihad dovesse essere divisa, metà andrebbe ai combattenti nelle trincee e l’altra metà agli abitanti dei villaggi”. Secondo lui, gli abitanti dei villaggi hanno sostenuto la guerra contro le città e la democrazia offrendo le loro case, il cibo e persino i loro figli ai mujaheddin.

Ha poi continuato avvertendo che “gli infedeli e i sostenitori della democrazia” stanno cercando di trasformare ancora una volta l’Afghanistan in un campo di battaglia in fiamme, mirando a dividere “la gente comune” (il suo termine per i poveri abitanti dei villaggi) dall’Emirato.

Hibatullah Akhundzada, rivolgendosi alle comunità povere e rurali, ha detto: “Siete tutti sudditi dell’Emirato… e se mi vedete come vostro Imam… Unitevi… Obbedite ai miei ordini… La società ritroverà l’ordine”. E se non lo farete, “alla fine sarete coinvolti in guerre”.

Prestare attenzione a questi dettagli, come la formulazione di discorsi apparentemente ripetitivi, è essenziale per comprendere le posizioni del Mullah Hibatullah e di altri leader talebani e comprendere la situazione attuale del Paese. I Talebani presentano innumerevoli difetti, tra cui dipendenze straniere e radicati pregiudizi etnici e tribali, ma la caratteristica distintiva del gruppo è la sua arretratezza rurale.
I Talebani sono religiosi, rurali e sottoproletari che combattono contro la libertà, la democrazia, l’istruzione, la presenza sociale delle donne e tutti gli altri componenti della vita civile e democratica.

Younus Negah è un ricercatore e scrittore afghano attualmente in esilio in Turchia.

L’UNAMA avverte: i talebani stanno rimodellando il sistema educativo afghano in stile madrasa

8AM Media, 11 aprile 2025

La Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA) ha pubblicato un rapporto completo che descrive in dettaglio gli impatti di vasta portata della legge talebana “Propagazione della Virtù e Prevenzione del Vizio”. Il rapporto, pubblicato giovedì 10 aprile, è il risultato di sei mesi di monitoraggio imparziale e osservazione sul campo quotidiana in tutto il Paese. Secondo l’UNAMA, dall’inizio dell’applicazione della legge, i talebani hanno intrapreso sforzi sempre più strutturati e organizzati per attuarla a livello nazionale.

Il rapporto rivela che comitati provinciali per l’applicazione della legge sono stati istituiti in 28 province afghane, con circa 3.300 agenti di polizia morale nominati e dotati di poteri speciali per far rispettare la legge. L’UNAMA ha sottolineato che l’attuazione della legge ha avuto ampie ripercussioni sociali ed economiche sia per gli uomini che per le donne, con effetti notevoli sulla vita pubblica, tra cui occupazione, sanità, istruzione e libertà di stampa.

L’UNAMA ha avvertito che le conseguenze dirette e indirette della legge sulla virtù e il vizio hanno ulteriormente aggravato l’attuale crisi economica in Afghanistan. Inoltre, la legge ha ostacolato la capacità delle agenzie delle Nazioni Unite e delle organizzazioni non governative, sia locali che internazionali, di fornire aiuti e servizi alle popolazioni vulnerabili. Il rapporto ha inoltre documentato violazioni delle libertà personali e private, in particolare negli spazi pubblici e nelle attività economiche.

Uno dei risultati più preoccupanti del rapporto è la trasformazione del sistema di istruzione pubblica del Paese in un modello religioso basato sulle madrase. Secondo l’UNAMA, questo cambiamento è stato accompagnato dalla graduale sostituzione di funzionari pubblici istruiti con studiosi religiosi filo-talebani nei ministeri. Allo stesso tempo, le minoranze etniche e religiose vengono sistematicamente escluse dalle strutture di potere e dalle opportunità economiche.

Il rapporto evidenzia inoltre che i Talebani hanno concentrato i loro sforzi di applicazione della legge nelle province settentrionali dell’Afghanistan, dove si ritiene che l’opposizione alla legge sia più probabile. I risultati dell’UNAMA indicano una tendenza più ampia al radicamento ideologico da parte dei Talebani, con implicazioni a lungo termine per la governance, l’istruzione e la società civile dell’Afghanistan.

Afghanistan, due donne queer rischiano la morte dopo un tentativo di fuga verso l’Europa

gay.it Francesca Di Feo  1 aprile 2025

Di Maryam e Maeve si sono perse le tracce dal 20 marzo, giorno del loro arresto da parte dei talebani. Liberarle è una corsa contro il tempo.

Un biglietto aereo, l’illusione di un passaggio verso l’altrove, e poi il silenzio. Lo scorso 20 marzo, Maryam Ravish e Maeve Alcina Pieescu sono state fermate all’aeroporto internazionale di Kabul mentre tentavano di lasciare l’Afghanistan. Erano pronte a fuggire verso l’Iran, prima tappa di una rotta clandestina che le avrebbe condotte, forse, in un Paese europeo. Una destinazione che significava, semplicemente, poter vivere.

Maryam, lesbica, diciannove anni, e Maeve, ventitré, donna transgender, erano entrambe attiviste della rete sotterranea Roshaniya, nata per offrire rifugio alla comunità LGBTQIA+ afghana. I loro sogni si sono infranti sulla pista dell’aeroporto, dove gli agenti dell’intelligence talebana le hanno fermate, perquisite, arrestate. Da allora non si hanno più notizie certe. E mentre la comunità internazionale osserva con una colpevole prudenza, il tempo corre: le due giovani rischiano la pena di morte.

Quello che sta accadendo a Maryam e Maeve è l’ennesimo, tragico epilogo per chi, in Afghanistan, appartiene a una minoranza di genere o sessuale, dove vivere come persona queer significa sopravvivere ogni giorno a un sistema che trasforma l’identità in crimine, il desiderio in reato, la libertà in eresia.

Ed è proprio nell’invisibilità forzata che si consuma una delle più profonde violazioni dei diritti umani del nostro tempo: nessuna legge protegge chi ama fuori dalle norme, e la Sharia – interpretata secondo i canoni del fondamentalismo talebano – legittima lapidazioni, torture e sparizioni.

Afghanistan, dove sono Maryam e Maeve?

Secondo quanto ricostruito dalla rete Roshaniya e dalla Peter Tatchell Foundation, Maryam e Maeve si erano presentate all’aeroporto accompagnate da Parwen Hussaini, ventenne e compagna di Maryam, anche lei attivista. Solo Parwen è riuscita a salire sul volo diretto a Teheran. Le altre due, bloccate a un controllo, sono state costrette a consegnare i telefoni.

È bastata la presenza di contenuti legati alla comunità LGBTQIA+ – foto, chat, contatti – per far scattare l’arresto. Le testimonianze raccolte raccontano di percosse, umiliazioni e minacce. Da allora, il silenzio.

Parwen ha diffuso un video in farsi in cui racconta il dramma vissuto. Parla di famiglie ostili, minacce, e soprattutto della totale incertezza sulla sorte delle sue compagne. “Non abbiamo notizie da Maryam, quindi non sappiamo in che situazione si trovino ora. È possibile che siano state messe in isolamento e che vengano lapidate a morte — c’è la possibilità che ricevano una condanna a morte”.

Anche la sorella di Maeve, Susan Battaglia, residente negli Stati Uniti, ha lanciato un appello pubblico: durante l’interrogatorio, la sorella avrebbe dichiarato di non credere più nella religione islamica. Un gesto che, in un Paese dove l’apostasia è punita con l’esecuzione, rischia di trasformarsi in una condanna irreversibile.

Maryam, dal canto suo, era già stata costretta dalla famiglia a un matrimonio eterosessuale. Il suo tentativo di fuga rappresentava un atto di autodeterminazione e di amore: voleva costruire una vita con Parwen, sposarsi in Europa, lontano da un contesto che le aveva negate come figlia, come donna, come persona.

Per questo, oggi, Roshaniya chiede con forza che la comunità internazionale esca dall’ambiguità diplomatica e agisca. “Chiediamo a tutte le organizzazioni per i diritti umani (in particolare Human Rights Watch e Amnesty International) e alle organizzazioni LGBTQ+ (in particolare OutRight International, ILGA Asia, Stonewall, Rainbow Railroad e Human Rights Campaign) di aiutarci a diffondere la notizia dell’arresto di Maryam e Maeve e a fare pressione sul regime talebano affinché rilasci queste due coraggiose attiviste afghane per i diritti umani LGBTQ+” afferma il fondatore dell’organizzazione, Nemat Sadat.

Afghanistan, la ferocia della norma

L’arresto di Maryam e Maeve non un rigurgito estemporaneo di fondamentalismo, ma la conseguenza diretta di un sistema teocratico che fa dell’annientamento delle soggettività queer una delle sue fondamenta. Con la riconquista dell’Afghanistan da parte dei talebani nell’agosto 2021, l’intera architettura dei diritti civili è crollata.

Ma non si tratta di una frattura improvvisa. La repressione delle diversità sessuali e di genere è radicata in decenni di ambiguità giuridica, violenza sociale e complicità politica. Se oggi la pena capitale per atti omosessuali è prevista e in alcuni casi applicata, è anche perché nessuna forza, né interna né esterna, ha mai lavorato seriamente per smantellare l’impalcatura culturale che la sostiene.

Il primo emirato talebano, tra il 1996 e il 2001, aveva già introdotto l’idea che la giustizia potesse passare per la lapidazione o l’impiccagione pubblica. Ma anche durante l’intervento occidentale, l’omosessualità non è mai stata depenalizzata. Le leggi sono rimaste vaghe, la violenza sistemica, l’omofobia strutturale. Le persone trans, in particolare, sono sempre rimaste fuori da ogni orizzonte normativo: invisibili per lo Stato, ipervisibili per la violenza familiare, religiosa e sociale.

Oggi, i rapporti di OutRight International, Human Rights Watch e Amnesty International parlano chiaro. Si moltiplicano le testimonianze di arresti arbitrari, sparizioni forzate, stupri correttivi, torture. Nel 2022, un giovane studente di medicina è stato ucciso a Kabul dopo essere stato accusato di omosessualità.

 

Parwen ha diffuso un video in farsi in cui racconta il dramma vissuto. Parla di famiglie ostili, minacce, e soprattutto della totale incertezza sulla sorte delle sue compagne. “Non abbiamo notizie da Maryam, quindi non sappiamo in che situazione si trovino ora. È possibile che siano state messe in isolamento e che vengano lapidate a morte — c’è la possibilità che ricevano una condanna a morte”.

Le persone trans vengono fermate in strada, costrette a subire trattamenti religiosi coercitivi, espulse dalla famiglia e dalla vita pubblica. E se un tempo almeno l’attenzione internazionale garantiva una fragile rete di protezione per i difensori dei diritti umani, oggi quella stessa attenzione si è spenta. L’Afghanistan non è più una priorità diplomatica. Le sue persone queer, ancora meno.

Eppure, qualcosa si muove. A gennaio 2025, la Corte Penale Internazionale ha chiesto l’emissione di mandati di cattura per due leader talebani, accusandoli di crimini contro l’umanità, anche per la persecuzione delle persone LGBTQIA+. È un segnale, ma ancora troppo timido.

Nel raccontare queste storie, è però fondamentale evitare la trappola narrativa di chi riduce l’Afghanistan a una caricatura di oscurantismo, un deserto morale in cui l’unica luce sarebbe stata portata dagli eserciti stranieri. Non è così.

Se la condizione della comunità LGBTQIA+ è oggi tragica, lo è anche perché le forze occidentali, per vent’anni, hanno spesso preferito sostenere governi corrotti, stipulare accordi con i signori della guerra, appaltare la sicurezza a milizie private, piuttosto che investire in un vero processo di democratizzazione libero e auto determinato che partisse dal basso. La retorica liberale, disancorata dalla realtà sociale, si è scontrata con una struttura tribale e patriarcale che nessuno ha davvero mai aiutato a decostruire.

Il ritiro del 2021 è stato solo l’epilogo di una strategia miope, priva di ascolto e responsabilità. E, nel frattempo, a Kabul, due giovani donne queer aspettano. Un segnale, una voce, un gesto politico che non arrivi tardi come sempre.

 

 

 

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Una lotta per mantenere viva la speranza: come resistono le donne afghane?

Zahra Nader, Zan Times, 7 marzo 2025

L’11 febbraio ho partecipato a un evento di poesia organizzato da un gruppo di donne in Afghanistan. Sono stata invitata al loro incontro su Google Meet da un’organizzatrice che mi ha anche aggiunta al suo gruppo WhatsApp. L’incontro di poesia era programmato per iniziare alle 21:00 ora locale.

“A causa dell’interruzione di corrente e della lenta connessione a Internet, inizieremo alle 22:00. Sappiamo che la maggior parte di voi non ha elettricità”, ha scritto un organizzatrice sul gruppo WhatsApp, avvisando del ritardo le 368 partecipanti, tutte donne, la maggior parte delle quali vive in Afghanistan.

Alle 22:00 in Afghanistan, mi sono unita all’incontro online. Quella sera, c’erano circa 13 partecipanti, tra cui due organizzatrici, Hijrat e Tahera. Sebbene non si fossero mai incontrate di persona, avevano gestito il loro club del libro online su WhatsApp per tre anni.

Nuovi modi per resistere

Hijrat, che vive nel nord dell’Afghanistan, ha creato il club del libro WhatsApp per promuovere una cultura della lettura tra le giovani durante la pandemia di COVID-19. “È stato un modo per tenerle motivate ​​quando tutti i centri educativi erano in lockdown”, ha detto Hijrat, 23 anni, ex insegnante universitaria, in un’intervista telefonica. Ha pubblicato l’idea di formare un club del libro online sulla sua pagina Facebook e presto si sono iscritte 100 partecipanti, tra cui Tahera, l’altra organizzatrice di quella serata di poesia a febbraio. Dopo che i talebani hanno preso il potere e hanno gettato le donne in un ulteriore isolamento proibendo loro il diritto al lavoro e all’istruzione, le donne hanno deciso di concentrarsi sul mantenere viva la speranza tra le sue partecipanti, che ora sono 370.

Spostarsi online è un modo per le donne in Afghanistan di evitare scontri sempre più pericolosi con i talebani. È anche un modo per organizzarsi, incoraggiarsi a vicenda e resistere agli editti draconiani del regime. La maggior parte delle attiviste ha spostato le proprie organizzazioni online, comprese molte delle donne manifestanti con cui ho parlato negli ultimi 19 mesi. Tuttavia, anche Internet non è completamente sicuro. Alcune sono state costrette a chiudere i propri account sui social media dopo aver notato che la loro presenza online era sorvegliata o che i loro account erano stati hackerati .

Eppure, hanno trovato nuovi modi per resistere. Un mese dopo che i talebani hanno preso il potere, due sorelle si sono rivolte a Internet per far sentire la propria voce: hanno scritto e interpretato ballate di speranza e disperazione che sono diventate virali sui social media. Hanno persino indossato il burqa per mantenere anonima la propria identità. “Questa è la nostra lotta segreta”, mi ha detto una delle sorelle . “Anche da sotto il burqa, abbiamo il coraggio e il potere di far sentire la nostra voce”, ha detto l’altra sorella.

Finora, Hijrat e Tahera sono riuscite a mantenere la loro comunità online al sicuro. Nel loro gruppo WhatsApp, gestiscono un club del libro settimanale. I suggerimenti su quale libro leggere provengono da chiunque nel gruppo. Quindi, le organizzatrici selezionano una rosa di quattro titoli. Le partecipanti  decidono la selezione finale votando in un sondaggio online. La scorsa settimana, è stato selezionato “Three Daughters of Eve” di Elif Shafak, ottenendo 46 voti su 66.

Sebbene il gruppo WhatsApp sia solitamente chiuso alla chat, tranne che per le amministratrici, ogni giovedì viene attivata la funzione di chat per consentire a tutte di condividere i propri pensieri e le proprie critiche sul libro della settimana. Il gruppo è anche il luogo in cui condividono le loro parole scritte, esprimono i loro sentimenti riguardo alle opinioni altrui e, naturalmente, le loro poesie, oltre alla serata mensile di poesia.

Condividere una risata per resistere

“La nostra serata di poesia online è uno spazio in cui si incontrano donne provenienti da diverse parti dell’Afghanistan. Recitiamo poesie e condividiamo una risata per superare questa oscurità”, spiega Hijrat.

Quel sabato di febbraio, prima dell’inizio della serata di poesia, c’è stato un momento di confronto generale per verificare le condizioni di tutte le partecipanti. Una cosa era chiara: tutte erano felici di poter superare le interruzioni di corrente e le connessioni internet lente per partecipare all’incontro.

A turno, hanno recitato le loro poesie preferite, comprese alcune opere originali delle componenti del gruppo. Tra i brani in programma c’erano anche quelli di Simin Behbahani, la più famosa poetessa iraniana, e di Mehdi Akhavan-Salis. I temi delle loro opere hanno avuto un forte impatto sulle loro vite: esperienze di ingiustizia, appelli alla resistenza e desiderio di reagire.

Una partecipante, che non ha indicato la propria provincia, ha letto una poesia appena scritta da sua zia:

“Nella città della rabbia e dello spargimento di sangue, la vita continua! Non ce ne andiamo perché la nostra vita è qui! Anche se le chiudiamo la porta in faccia, essa è ancora dall’altra parte della porta!”.

“Non ti ho mai visto, ma amo la tua voce”, ha detto una delle partecipanti dopo che la lettrice ha terminato il suo turno. Oltre che per la poesia, erano lì per sostenersi a vicenda. Il messaggio che si sono scambiate dopo ogni citazione sembra essere il filo conduttore che le ha sostenute.

“Considerata la situazione, questa è l’unica cosa che possiamo fare ora. Siamo un gruppo di donne accomunate dalla passione per la letteratura e la poesia, quindi ci riuniamo e leggiamo”, ha detto Tahera, l’organizzatrice che vive a Kabul. “Questo è il nostro modo per evitare la disperazione”.

Alberto Cairo: “Il mio Afghanistan dimenticato”

Anna Spena, Vita, 19 marzo 2025

Il fisioterapista Alberto Cairo vive nel Paese dal 1990. Ha ridato braccia e gambe a 240mila mutilati. È stato il protagonista di uno degli incontri organizzato durante la fiera “Fa’ la cosa giusta!”. «È un Paese che mi ha fatto innamorare», racconta. «Mettere una protesi non è la parte più difficile del lavoro, reinventare la vita di qualcuno lo è. Ma ora ha la percezione che il mondo si sia stufato dell’Afghanistan»

Si è appena conclusa la ventunesima edizione di “Fa’ la cosa giusta!”, la fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili quest’anno organizzata nella nuova sede di Fiera Milano Rho, a ingresso libero per tutti. Tre giorni di dialoghi, confronti e approfondimenti per far crescere la fiducia – il filo rosso di questa edizione – e costruire un mondo più giusto e una società più coesa per tutti. 52.200 visitatori, 400 relatori, 400 relatori, 300 incontri e workshop per adulti e bambini.

Tra gli incontri, moderato dalla giornalista Laura Silvia Battaglia, anche quello con il fisioterapista Alberto Cairo, 73 anni. Dal 1990 vive stabilmente in Afghanistan. Per oltre 30 anni ha guidato i centri per la riabilitazione della Croce Rossa internazionale, assistendo oltre 200mila persone con disabilità vittime della guerra. Ha contribuito a sviluppare e migliorare i servizi di riabilitazione del Paese, e a offrire percorsi di studio, lavoro e sport per molti riabilitati.

Oggi abita in un quartiere popolare di Kabul, è ancora consulente per i programmi di reinserimento sociale della Croce Rossa e continua ad assistere i pazienti anche a domicilio. È stato testimone della guerra civile del 1992, della presa del potere da parte dei talebani, dell’invasione americana del 2001 fino alla ritirata del 2021 e del ritorno al governo dei talebani. È presidente della ong Nove, Caring Humans (presente in fiera), che dal 2013 opera in Afghanistan con diversi progetti, soprattutto per le donne e per le persone con disabilità.

“Un paese che mi ha fatto innamorare”

La scelta di vivere a Kabul «è una storia lunga», racconta. «Io sono laureato in legge e per un periodo della mia vita ho fatto l’avvocato, ma non ero contento. All’inizio la fisioterapia era un hobby, poi è diventata il mio mestiere. Volevo fare un’esperienza in Africa, solo una per capire se potevo essere utile con il mio lavoro. Sono stato due anni e mezzo a Juba, nel Sud Sudan. Mi sono innamorato del lavoro del fisioterapista in posti non facili, dove potevi fare la differenza. Una volta tornato ho contattato la Croce Rossa per iniziare a lavorare con loro, ero stato riassegnato all’Africa. Due settimane prima della partenza mi chiamano per dire “Non vai in Africa, ma in Afghanistan”. Sono partito nel 1990 e non sono più tornato».

Un Paese «che mi ha fatto innamorare. Io in Afghanistan ricevo molto di più di quello che do. Se facciamo un bilancio vinco io, non gli afghani purtroppo», dice. «Anche se ho visto e vedo ancora oggi cose bruttissime». Il lavoro di Cairo è passato attraverso tante fasi. «Quando sono arrivato nel 1990 facevo riabilitazione ai feriti di guerra, persone che avevano perso braccia e gambe. Ma io i feriti di guerra non li avevo mai visti prima. Mettere le protesi in Afghanistan non è difficile, la maggior parte delle persone che perde un arto è giovane, ha tutta la vita davanti. La strada del recupero è l’unica possibilità».

Quindi per Cairo la cura non è stata la parte più complicata: «le persone tornavano, ci dicevano “grazie per la protesi, grazie per quello che avete fatto. Ma adesso che ne sarà di me?” Insomma ci chiedevano un reinserimento sociale e inclusione. Devo ripeterlo: curare non è la parte più difficile, reinventare la vita di qualcuno lo è. Mettere insieme i pezzi di anima di cuore che si sono rotti con le mine antiuomo lo è. Ridare alle persone un ruolo dignitoso in società è molto più complesso perché bisogna tener conto delle aspirazioni di quella persona, della comunità in cui vive. Ci sono mille cose che devono essere messe insieme». E quindi «la scuola, i corsi di formazione, i micro prestiti, trovare un lavoro. Per dimostrare che questa cosa era possibile abbiamo cominciato a dare lavoro e a formare solo persone con disabilità.

Nei sette centri in cui lavoravo sono impiegate 850 persone, 800 hanno una disabilità. Medici, infermieri, addetti alle pulizie, guardiani. Questa cosa aiuta molto perché è un segno. Fa capire che la vita non finisce con la disabilità. L’Afghanistan poi è una barriera architettonica naturale: se non cammini, se non sei forte, la vita diventa particolarmente difficile».

 

Essenziale trasmettere positività

In questi anni per Cairo non sono mancati i momenti di scoraggiamento: «Però ho imparato», racconta, «anche quando vedi i pazienti che continuano ad arrivare e tu non sai da che parte cominciare, a pensare “questa persona adesso non ha le gambe, ma tra un mese o due camminerà di nuovo“. Pensare in maniera positiva e trasmettere questa positività è essenziale».

Nel 2010 l’incontro con dei ragazzi che gli hanno fatto una richiesta: «che all’inizio mi sembrava fuori posto», dice. «Mi chiesero “Perché non fate qualcosa per il nostro tempo libero?”. Ecco l’Afghanistan è un Paese difficilissimo, dove manca tutto. Pensare al tempo libero mi sembrava un lusso. I ragazzi chiedevano soprattutto di partecipare ad attività sportive. Organizzammo qualche partita di calcio, ma nel calcio bisogna saper correre e molti di quei ragazzi vivevano su una sedia a rotelle. Allora qualcuno suggerì la palla a canestro. Non ero ancora convinto ma poi ho capito che lo sport è un diritto, e dopo un lungo momento di cecità sono stati gli afghani stessi a risvegliarmi e mi sono deciso ad ascoltare quello che loro dicevano, quello che loro chiedevano. Vi assicuro che anche nel settore umanitario, molto spesso, pensiamo che le nostre opinioni, le nostre idee, siano quelle giuste, e invece no. Io a volte ci definisco “colonialisti umanitari”. Comunque, per fortuna, mi sono lasciato convincere e abbiamo iniziato con la pallacanestro in carrozzina. Ho visto in quei giovani una trasformazione fisica e psicologica incredibile».

Quando i talebani hanno ripreso il controllo del Governo i fondi della cooperazione destinati al Paese sono diminuiti. «La gente pensa che i fondi vadano ai talebani, ma invece no. Vanno alle organizzazioni. Ma da qui, dal Paese, la percezione è che il mondo si sia stufato dell’Afghanistan. Questa è una fase molto triste. Ci sono così tante guerre. Ucraina, Sudan, Gaza…Chiudete gli occhi, mettete un dito sopra la carta geografica e trovate una guerra. Credo ci sia anche una stanchezza proprio dei donatori».

Immaginare un Afghanistan senza Talebani è possibile

Zan Times, 8 marzo 2025

Il popolo afghano non è condannato a vivere sotto il dominio dei Talebani. Accettare che la mullahcrazia talebana sia un destino inevitabile significa negarne al popolo  l’umanità, la capacità e il diritto a determinare il proprio destino

Quest’anno ricorre la quarta Giornata internazionale della donna in cui i talebani hanno imprigionato donne e ragazze afghane all’interno delle loro case. Da quando i talebani sono emersi come gruppo armato islamico nel 1994, sono diventati famosi per le loro politiche anti-donne.

Durante il loro primo periodo al potere, dal 1996 al 2001, hanno vietato l’istruzione e il lavoro delle donne e hanno sguinzagliato per le strade la loro zelante polizia religiosa, colpendo le donne con cavi se non erano accompagnate da un mahram o se non aderivano al codice di abbigliamento regressivo imposto dai talebani: le donne erano costrette a indossare burqa avvolgenti e scarpe che non facevano rumore.

Una progressione scioccante

Dal loro ritorno al potere nel 2021, i Talebani hanno perseguito senza sosta le stesse politiche misogine volte a rendere le donne invisibili, facendole sparire dalla vita pubblica e imprigionandole nelle loro case. Nella prima settimana di ritorno al potere, hanno imposto il divieto di lavoro per le donne nel settore pubblico. Nel primo mese, hanno imposto il divieto di istruzione per le ragazze oltre la sesta classe. Dopo quattro mesi, hanno imposto alle donne di viaggiare esclusivamente in compagnia di un mahram o di un accompagnatore maschio. Ogni giorno i Talebani introducono un nuovo decreto, un nuovo divieto o un’altra nuova restrizione nei confronti delle donne.

Proprio quando pensavamo di aver visto tutto, nell’agosto 2024 i Talebani hanno introdotto un altro decreto scioccante: il divieto di far sentire la voce delle donne in pubblico. Hanno dichiarato che la voce delle donne è aurat, qualcosa da nascondere. Questo decreto criminalizza di fatto il diritto delle donne di parlare in pubblico o di parlare con estranei.

I Talebani sono ancora insoddisfatti. Ritengono che la sharia non sia ancora stata pienamente applicata nel Paese. Il loro leader, il Mullah Hibatullah, giura regolarmente di creare le condizioni per un sistema islamico puro e di far applicare la sharia in modo completo. Il sistema talebano della sharia è caratterizzato da punizioni corporali, esecuzioni pubbliche e fustigazioni. Nonostante abbiamo già assistito a diverse esecuzioni pubbliche e a migliaia di fustigazioni, i Talebani hanno promesso al mondo che una brutalità ancora maggiore è in arrivo: Hibatullah ha giurato che le donne saranno presto lapidate pubblicamente.

Il nucleo centrale della leadership talebana insiste nel voler stabilire la propria società ideale, delineata nella Legge sul vizio e la virtù, che non solo vieta la voce delle donne ma anche le immagini e i video. È evidente che i Talebani stanno incontrando difficoltà nell’attuare pienamente le loro politiche, dato che non riescono nemmeno a metterle in atto all’interno dei loro ranghi e delle loro strutture.

Esiste un’ala moderata?

Il mullah Hibatullah si oppone regolarmente alla richiesta di scattargli foto, non permette a nessuno di farlo, perché la Legge sul vizio e la virtù vieta di rappresentare gli esseri viventi. Eppure diversi ministri posano regolarmente per foto e video da utilizzare a scopi di propaganda online. Queste contraddizioni hanno alimentato la speculazione sull’esistenza di un’“ala moderata” all’interno dei Talebani, che rappresenterebbe una “migliore speranza di cambiamento”.

All’interno e all’esterno dell’Afghanistan circolano da sempre voci secondo cui, se questi elementi “moderati” all’interno dei Talebani riuscissero a prendere il comando, a modificare le proprie politiche e a formare un “governo inclusivo”, il loro emirato diventerebbe accettabile.

Questa convinzione deriva dal presupposto che il popolo afghano sia condannato a vivere sotto il dominio dei Talebani. Non riesce a immaginare uno scenario alternativo in cui la popolazione possa vivere in pace e in condizioni normali. Accettare che la mullahcrazia talebana sia il destino inevitabile del popolo afghano significa negarne l’umanità, la capacità e il diritto di determinare il proprio destino. Questa mancanza di speranza porta a un torpore intellettuale e a una sconfitta politica che prolungherà l’oppressione talebana.

Dobbiamo quindi valutare la capacità di resistenza del nostro popolo e apprezzare e rafforzare i modi dinamici e creativi che hanno usato per sfidare i Talebani e mantenere viva la speranza. Dobbiamo anche capire che, a prescindere dalle loro piccole differenze interne, i Talebani sono un movimento e un’ideologia uniti dal desiderio di instaurare una tirannia teocratica. Questa tirannia è progettata per negare alle donne la loro umanità, discriminare le minoranze etniche e fare guerra al popolo, alla scienza e all’istruzione moderna.

Il governo talebano si basa essenzialmente sull’esclusione della popolazione. La loro dottrina prevede una società in cui solo il leader supremo detta le politiche pubbliche e sociali, mentre la popolazione rimane in silenzio e sottomessa. Tale impostazione è dunque in contrasto con gli interessi fondamentali della popolazione del Paese.

Nel celebrare la Giornata internazionale della donna di quest’anno dobbiamo riconoscere che i valori progressisti e democratici sono sotto attacco in tutto il mondo. Misoginia, transfobia, razzismo e fascismo sono in aumento. È importante ricordare a noi stessi che se non saremo vigili sui nostri diritti e sul nostro diritto di governarci da soli, ci saranno sempre forze pronte a toglierceli.

Pertanto, se il popolo afghano, in particolare le donne, vuole riaffermare la propria umanità, deve lavorare e pianificare per prendere in mano il proprio destino collettivo e costruire un Afghanistan pacifico e democratico al di là dei Talebani. Solo costruendo una società democratica e laica, il popolo afghano potrà ottenere pace, diritti umani e libertà.

I talebani stanno rimuovendo la voce delle donne dalla radio afghana

The Guardian, Rawa, 15 marzo 2025

Mentre una delle ultime stazioni gestite da donne nel paese viene messa a tacere, un’ex giornalista offre una visione interna della repressione delle donne che lavorano nei media

Quando i talebani hanno iniziato a marciare verso le città dell’Afghanistan nell’estate del 2021, Alia*, una giornalista afghana di 22 anni, si è ritrovata a svolgere uno dei lavori più importanti della sua breve vita e carriera.

Nelle settimane che hanno preceduto la presa del potere da parte dei talebani in agosto, la voce di Alia alla radio è diventata familiare a molti nel nord dell’Afghanistan. Ha riferito del ritiro delle truppe straniere, dell’assedio degli uffici governativi e della detenzione di ex funzionari nella sua provincia.

Soprattutto, Alia ha raccontato la situazione delle donne e le loro paure e preoccupazioni, emozioni che stava vivendo lei stessa. Mentre i talebani cominciavano gradualmente a imporre loro delle restrizioni, Alia stava documentando la storia che si ripeteva.

“Sono cresciuta con la storia del dominio dei talebani sulle donne [durante il loro primo periodo al potere tra il 1996 e il 2001] e gran parte del mio lavoro si è concentrato sull’impatto che questa ideologia radicale ha avuto sul progresso delle donne in Afghanistan”, afferma.

“Ero entrata a far parte della stazione subito dopo l’università nel 2019 e ho lavorato per due anni prima che i talebani prendessero il potere. Nei mesi successivi, mi sono sentita più appassionata del mio lavoro e della scelta della mia carriera, anche se c’era sempre la paura dei talebani.

Non ci è voluto molto perché i talebani iniziassero a reprimere i media e i giornalisti nel Paese, con 336 casi noti di arresti, torture e intimidazioni tra agosto 2021 e settembre 2024, secondo le Nazioni Unite.

È stato particolarmente duro per i giornalisti radiofonici che possono essere riconosciuti e presi di mira dal loro volto e dalla loro voce. In diverse province, i talebani hanno vietato alle donne di trasmettere in radio.

Nei primi giorni dopo la presa del potere, tra il caos, l’incertezza e gli attacchi dei membri dei talebani, alcuni giornalisti furono costretti a nascondersi o a fuggire dal paese. I datori di lavoro di Alia la tolsero temporaneamente dalle trasmissioni per proteggerla, ma lei continuò a raccogliere notizie, in particolare su questioni femminili, e le sue storie spesso irritarono i nuovi poteri.

La radio è un mezzo potente nel paese in povertà

Nel 2022, dopo che i datori di lavoro di Alia iniziarono a ricevere minacce dai leader talebani locali per aver assunto e trasmesso giornaliste donne, licenziarono Alia per la loro reciproca sicurezza.

“Mi è stato chiesto di andarmene a causa del mio genere. Volevo amplificare le voci delle donne, non immaginavo che un giorno la mia voce sarebbe stata soffocata.”

Nei due anni successivi, le donne hanno continuato a essere escluse dal pubblico e dai media. Prima c’è stato un divieto nazionale alle voci delle donne in pubblico e ora, questo mese, uno degli ultimi media gestiti da donne rimasti è stato messo a tacere, con gli uffici di una stazione radio femminile con sede a Kabul, Radio Begum, perquisiti, il personale arrestato e la stazione tolta dalle trasmissioni.

Mentre i talebani accusano Radio Begum di violare la politica di trasmissione, i membri dello staff di Begum insistono sul fatto che hanno semplicemente fornito “servizi educativi per ragazze e donne in Afghanistan”. Con i recenti divieti alle donne di frequentare l’istruzione superiore, piattaforme come Radio Begum hanno cercato di colmare il vuoto per le ragazze che desiderano continuare a studiare.

Sotto minacce, pressioni immense e persino chiusure forzate, i media afghani si sono notevolmente ridotti negli ultimi tre anni. Prima della presa del potere da parte dei talebani, l’Afghanistan aveva circa 543 punti vendita di media che impiegavano 10.790 lavoratori. A novembre 2021, il 43% di questi punti vendita era chiuso, con solo 4.360 lavoratori dei media rimasti. È stato anche peggio per le donne nei media.

Una stima recente della Federazione Internazionale dei Giornalisti ha documentato che a marzo 2024 in Afghanistan erano presenti solo 600 giornaliste attive, in calo rispetto alle 2.833 donne nel giornalismo prima di agosto 2021.

“Non riesco a esprimere il senso di disperazione e miseria che provo. Devi essere una donna afghana per capire davvero quanto sia stato difficile rinunciare a tutto ciò per cui hai lavorato. Abbiamo mostrato al mondo che i talebani non sono cambiati e non cambieranno. E questo li spaventa”, dice Alia.

Alcune voci femminili rimangono in onda nelle province settentrionali, a causa delle opinioni contrastanti all’interno dei talebani sull’esclusione delle donne dalla società. Alia afferma che la radio in particolare rimane un mezzo potente in un paese con povertà diffusa e scarso accesso a Internet o alla televisione. Molte famiglie si affidano alla radio per notizie e informazioni.

“I media sono l’unica fonte che può esporre i crimini dei talebani alla gente e al mondo, per esporre come hanno deprivato le donne e altri gruppi. E aiuta anche gli afghani a essere più consapevoli attraverso programmi come Radio Begum”, afferma.

*Il nome è stato cambiato per proteggere la loro identità

“Un Paese in guerra: il caso dell’Afghanistan”, il nuovo podcast che racconta la lotta delle donne afghane

pressenza.com 14 marzo 2025

“Vogliamo ricordare la storia di donne che, nonostante i continui tentativi di cancellarne l’esistenza dalla vita pubblica, continuano a resistere ed a combattere per un futuro migliore”

14 Marzo 2025 – Large Movements lancia su Spotify “Un Paese in guerra: il caso dell’Afghanistan”, il podcast che vuole riaccendere i riflettori su un paese in guerra per decenni, poi magicamente dimenticato dalla tragica data del 15 agosto 2021.

“Un Paese in guerra: il caso dell’Afghanistan” è un viaggio tra le vicende storiche e il dramma umano che il conflitto afghano porta con sè. Attraverso 6 puntate, in uscita ogni sabato dall’8 marzo al 12 aprile, racconta la storia dell’avvento dei Talebani, dalle origini del gruppo, risalenti a più di 40 anni fa, fino alla situazione attuale in cui è costretta a vivere la popolazione, quella rimasta in Afghanistan e coloro che sono riusciti a essere evacuati.

“Con questo podcast vogliamo ricordare la storia di donne che, nonostante i continui tentativi di cancellarne l’esistenza dalla vita pubblica, continuano a resistere ed a combattere per un futuro migliore per il loro Paese. Vogliamo raccontare la storia delle donne afghane e delle numerose violazioni dei diritti umani che subiscono” dichiara Rainer Maria Baratti, Vicepresidente di Large Movements.

Il secondo episodio, intitolato “Strade interrotte verso l’equità di genere”, uscirà il 15 marzo e si concentrerà sulla condizione delle donne afghane dopo la presa di potere dei Talebani il 15 agosto 2021. Attraverso testimonianze dirette, il podcast mette in luce la repressione e le difficoltà quotidiane delle donne nel Paese, esplorando anche il ruolo delle organizzazioni internazionali impegnate a sostenere i loro diritti.

Nei successivi episodi, il podcast andrà ad esplorare anche il ruolo della comunità internazionale nella gestione delle varie fasi diplomatiche attraversate dal Paese nonché le motivazioni e gli interessi geopolitici che contribuiscono tuttora a rendere la situazione in Afghanistan di difficile soluzione.

Il podcast, scritto da Martina Bossi, Laura Sacher, Sara Massimi e Rainer Maria Baratti, con il contributo di Mattia Ignazzi, è frutto di un attento lavoro di ricerca e di raccolta di testimonianze. Alla produzione hanno collaborato Nove Caring Humans, mentre la registrazione e la post-produzione sono a cura di William Frezzotti.

L’obiettivo del progetto è offrire un racconto approfondito e umano di un Paese segnato dalla guerra, dando voce a chi vive ogni giorno le sue conseguenze. La serie si compone di sei episodi, in uscita ogni sabato fino al 12 aprile 2025.

Dove ascoltarlo: https://open.spotify.com/show/7slKxrlnBgLIx1zgYcvOfe?si=a217e89b6ce244ce

Sostieni il progetto: Un Paese in guerra è una produzione indipendente. È possibile supportare il lavoro di Large Movements APS partecipando al crowdfunding su www.largemovements.it/sostienici.

Large Movements APS è un’associazione che vuole decostruire le fake news sulla migrazione e promuovere la partecipazione di migranti e rifugiati nei dibattiti politici e nei progetti che li coinvolgono direttamente. Tutto questo tramite la divulgazione, la sensibilizzazione e la progettazione. L’obiettivo principale dell’associazione è informare e sensibilizzare l’opinione pubblica per promuovere, influenzare e/o modificare le politiche pubbliche stimolando la partecipazione attiva sia della società che delle comunità di migranti, rifugiati e della diaspora.

 

 

 

I novantamila occhi dei talebani a Kabul regna il Grande Fratello

La Repubblica, 6 marzo 2025, di Alberto Cairo

Gli afgani hanno appreso da tv e radio la notizia del piano di installare novantamila telecamere di videosorveglianza nella capitale. Nessun annuncio ufficiale è venuto fino ad ora dalle autorità. I proprietari di svariati condomini riferiscono comunque di avere ricevuto nelle ultime settimane la richiesta di installare delle telecamere a proprie spese. Senza minacce ma in maniera pressante, ad invitarli hanno pensato i wakìl, i rappresentanti di quartiere, una volta eletti dai residenti, ora nominati d’ufficio. Ogni condominio deve averne, hanno spiegato, soprattutto quelli d’angolo, posti agli incroci. L’invito non è avvenuto in maniera uniforme, essendo nel Paese molto lasciato all’iniziativa personale dei funzionari, alle loro opinioni e al loro zelo, creando confusione.

Si tratterebbe secondo alcuni di una cifra di apparecchi molto alta, volutamente esagerata per intimorire, per altri invece è un numero credibile in una città ormai enorme e in continua espansione. Dove saranno installati? la domanda. Ovunque o soprattutto nei quartieri considerati ribelli, quelli a maggioranza tajika, l’etnia rivale del regime, o sciita? I talebani hanno rivelato alla Bbc che si tratta di telecamere cinesi ad alta precisione in grado di identificare persone e cose a grande distanza e ad ogni ora. La convinzione che funzioneranno solo parzialmente è però legittima, viste le continue e lunghe interruzioni nell’erogazione dell’elettricità.

Comunque sia, rafforzeranno i controlli e la pressione sulla popolazione, al momento già pesanti grazie perquisizioni, fermi, delazioni. La gente tace, non esprime opinioni in pubblico, non rischia. Il numero degli informatori è alto.

In realtà niente di nuovo in questo. Ognuno degli ultimi regimi se ne è servito copiosamente, reclutando collaboratori ovunque. Ho dei precisi ricordi in proposito. Arrivato a Kabul nel 1990 – i comunisti erano al potere – avevo ingaggiato un insegnante che mi aiutasse a capire un po’ il Paese, usanze e tradizioni e mi insegnasse i rudimenti della lingua.Mi accorsi presto che era malvisto dai guardiani e dalla signora cuoca-donna delle pulizie. Di solito loquaci, in sua presenza parlavano a malapena. Pensai a beghe personali e non badai quando mi dissero che era affiliato al Khad, la polizia segreta. Dovetti ricredermi quando sparìimprovvisamente una settimana prima della caduta del presidente Najibullah.

Sotto il primo regime talebano e quello instaurato dagli occidentali dopo il 2001, lavorando a un programma di riabilitazione fisica e sociale, aiutavamo con micro-prestiti le persone disabili a iniziare piccole attività commerciali. Alcuni misero su dei chioschi per vendere sigarette e piccole cose. Per quanto il capitale investito fosse minimo e gli affari decisamente magri, ripagavano
puntualmente le rate. Ammirevoli, pensavo. Invece il chiosco nascondeva un’altra attività, ben remunerata. Piazzati in punti cruciali, riportavano ogni movimento considerato sospetto. A uno di loro un giorno cadde di tasca una radio ricetrasmittente. «L’ho trovata per strada», si giustificò. Sparì anche lui con il cambio di regime nel 2021.

C’è comunque chi applaude alle nuove telecamere, non solo i sostenitori dei talebani, una larga fetta della popolazione. Rapine e furti diminuiranno, dicono (già sono diminuiti, va ammesso). Per le donne, ormai punite da una interminabile lista di divieti, la vita potrebbe invece diventare sempre più soffocante, specie per quelle che ancora lavorano o continuano in qualche modo a studiare. Darebbe alla polizia per la prevenzione del vizio e la promozione della virtù un ulteriore strumento di controllo. Facilmente immaginabili poi gli effetti sulla dissidenza, su quel poco che ne rimane. Il Ministero degli Interni sarà a capo dell’intera operazione.

Altri sono tuttavia i problemi che tormentano gli afgani oggi. L’economia in primo luogo. La disoccupazione (giovanile in particolare) è altissima. Non passa giorno senza che qualcuno contatti NOVE Caring Humans, la mia organizzazione, per chiedere aiuto o un lavoro. Il numero dei poveri e dei bambini a rischio malnutrizione riportato dalle Nazioni Unite resta spaventoso. Posso solamente confermare che tantissime famiglie hanno perso gli introiti che consentivano loro una vita decente e si arrabattano miseramente. I programmi governativi non hanno per ora portato miglioramenti. Circa l’istruzione femminile, la promessa delle autorità di riaprire le scuole alle ragazze appena le condizioni di sicurezza lo permetteranno, dopo tre anni resta una promessa. E poi l’incertezza dovuta alle lotte interne al regime, con il gruppo di Kandahar opposto al clan degli Haqqani e il rafforzamento della politica più intransigente; i ritorni forzati da Pakistan e Iran che hanno riportato nel Paese migliaia di afgani senza una casa e un lavoro; le numerose cliniche chiuse a causa della sospensione dei progetti sostenuti da USAID decisa dalla nuova amministrazione americana, le piccole e medie organizzazioni umanitarie che devono licenziare il personale perché senza fondi.

Quello del taglio agli aiuti internazionali desta un enorme timore. Migliaia le persone che vivono e si curano grazie ad essi. Attraverso i media e internet gli afgani sono informati, pensano che sia solo l’inizio. L’Inghilterra è stata la prima a dichiararlo: aumenterà le spese militari a scapito dei fondi che invia all’estero. Nella corsa agli armamenti, altri paesi potrebbero imitarla. L’Afghanistan sa di rischiare un isolamento ancora maggiore, economico e politico. Non potrà che contare sulla propria resilienza. Quanta dovrà averne?

Alberto Cairo, fisioterapista, lavora in Afghanistan per NOVE Caring Humans, ong italiana