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Tag: Afghanistan

Afghanistan, che cosa c’è dietro l’immagine ripulita dei Talebani. Prima parte

Pressenza, 13 agosto 2025, di Fiorella Carollo

Il 15 agosto 2021 Kabul fu presa dai Talebani mentre gli Stati Uniti con i loro alleati abbandonavano in tutta fretta il Paese. Questo evento ha segnato un punto di non ritorno per le donne afghane, che da quel giorno sono progressivamente cadute in un incubo senza fine.

Per questo il CISDA (Coordinamento italiano di sostegno alle donne afghane ) ha organizzato un incontro con una esponente di RAWA (Revolutionary Association of Women in Afghanistan), che afferma: ”Ci consideriamo la più antica organizzazione politica femminile in Afghanistan. Pensiamo che qualsiasi cambiamento, qualsiasi miglioramento della situazione delle donne, in qualsiasi società, non possa realizzarsi senza cambiamenti politici.”

Pubblichiamo di seguito le sue considerazioni.

La situazione attuale in Afghanistan non è quella dipinta dai media occidentali. Di solito si legge che la vita è tornata alla normalità, c’è la pace e che la situazione è in qualche modo migliorata, ma questa non è assolutamente la realtà. C’è un livello di pressione sulla nostra società che fa sì che tutto sembri tranquillo. Ma quando vivi qui come afghano, vedi che ogni singolo uomo e donna ha i suoi problemi, le sue preoccupazioni, che sono infinite.

L’attuale regime talebano è principalmente, come abbiamo sempre detto, sostenuto dagli Stati Uniti. I Talebani non sono mai stati una forza unita. Ci sono state e continuano a esserci delle divergenze tra loro, tra filo-cinesi, filo-iraniani e filo-sovietici, ma continuano a rimanere collegati e dipendere dal sostegno finanziario degli Stati Uniti. Si affidano alla leadership della CIA e all’ISI pakistano e il regime pakistano continua la sua funzione di guardiano, una sorta di padre per i Talebani afghani (anche se la prima ad organizzarli in realtà fu una donna, Benazir Bhutto).

Le divergenze più accese e crescenti tra i Talebani sono dovute alla situazione interna; le varie regioni in Afghanistan sono divise tra le diverse fazioni e ognuna di loro, come Mula Habibullah, Mula Yakub o Mula Hakani, cerca di avere più potere controllando le miniere, le zone di produzione dei minerali, la produzione di droga, lo smercio di droga verso gli altri Paesi e anche il contrabbando che è estremamente redditizio.

Nel giro di quattro anni, da quando sono tornati al potere, molti funzionari nel governo, leader e comandanti si sono trasformati in potenti figure politiche, sostenuti da una forza finanziaria e da diversificate fonti economiche.

Il denaro settimanale che arriva dagli Stati Uniti viene diviso tra i loro comandanti e leader. Non si può dire che i Talebani siano deboli finanziariamente. Stanno cercando di sfruttare sia le opportunità che hanno a livello locale, sia quelle internazionali, attraverso i finanziamenti degli Stati Uniti, da cui ricavano un reddito considerevole.

In alcune regioni dell’Afghanistan, come ad esempio Tahar, una provincia settentrionale del Badakhshan, e Panjsher, che si trova anch’essa per la maggior parte nella zona settentrionale, nel Nuristan, si trovano le principali grandi miniere del Paese e ogni fazione talebana sta cercando di metterci le mani. Apparentemente è un progetto governativo, ma per lo più si tratta di un progetto privato in cui stanno cercando di scavare più miniere possibili e prenderne il controllo prima che la gente possa accaparrarsi oro e pietre preziose. I Talebani non permettono ai contadini e alla gente del posto di avvicinarsi; per questo mandano i loro soldati a controllare e a difendere le miniere.

I media internazionali affermano che la produzione e la coltivazione di droga sono diminuite in Afghanistan, ma questa non è la realtà: a livello locale, ogni comandante talebano ha le proprie regioni, le proprie aree in cui è ancora consentita la produzione di droga e le proprie aree di confine in cui la contrabbanda. A volte leggiamo che ci sono stati scontri armati tra Talebani, come ad esempio nelle zone in cui si scava una miniera. Di recente dei soldati talebani hanno preso le armi contro il loro comandante perché sapevano che non avrebbero ricevuto lo stipendio, mentre il comandante si stava costruendo una grande casa. Il governo non prende alcuna decisione perché le stesse persone che ricoprono posizioni chiave sono coinvolte in questa corruzione. Non si preoccupano della gente, non si preoccupano del miglioramento dei loro soldati, ma di ciò che serve per riempirsi le tasche.

I Talebani stanno attenti a fornire al mondo un’immagine di sé “ripulita”, ma noi vediamo quotidianamente le prove dei loro crimini morali sui social media locali. Parliamo ad esempio del rapimento di ragazze e donne, i matrimoni forzati, le minacce e così via. Abbiamo un sacco di prove in forma di videoclip o clip vocali, pubblicate per denuncia dalle persone o dalle stesse vittime. Sfortunatamente nessuno di loro viene rilanciato sui media internazionali. I Talebani hanno successo nel propagandare un’immagine di se stessi come persone pulite, molto religiose, oneste, ma questa non è la realtà. Fanno schifo, tanti di loro minacciano, usano la forza delle armi per il loro tornaconto economico; è un comportamento diffuso e molto comune.

Oggi molte famiglie stanno affrontando una grave pressione a causa della crisi economica e non trovano altra soluzione se non quella di dare in sposa le figlie in età molto giovane. È più comune, come lo era in passato, nei villaggi delle zone rurali, ma dalla chiusura delle scuole e dai cambiamenti avvenuti nella vita degli afghani negli ultimi quattro anni è un fenomeno che possiamo riscontrare anche nelle grandi città come Kabul. Nelle nostre società le donne in genere non sono protette, soprattutto quando sono giovani e adolescenti vengono considerate un peso per la famiglia; hanno solo la responsabilità di contrarre un matrimonio il prima possibile, di avere figli e di gestire una famiglia. Questo è l’unico dovere che la società attuale attribuisce alle donne. Ed è per questo che molte famiglie credono che sia una sorta di protezione per le bambine darle in sposa il prima possibile. Quando subiscono pressioni da parte dei Talebani o dei comandanti, le danno in sposa a chiunque. Negli ultimi quattro anni, esattamente come sta accadendo con i signori della guerra jihadisti, i Talebani, usando la forza delle armi, cercano ragazze non sposate, poi le danno come seconde, terze e persino quarte mogli ai loro leader religiosi e comandanti militari.

Oggi quando si entra nella capitale, metà degli appartamenti, delle grandi case, delle grandi proprietà bene in vista sono state acquistate dai comandanti militari o dagli spacciatori. Se un domani i Talebani dovessero trovarsi nella condizione di fuggire, non potranno farlo facilmente perché qui hanno molte proprietà. I comandanti talebani sono presenti in ogni zona residenziale con le loro guardie del corpo, le loro auto costose e il loro personale. Nelle zone più eleganti di Kabul, nel ristorante più costoso, con decorazioni dorate come se fosse un palazzo antico, i Talebani arrivano scortati dalle guardie del corpo e anche nei negozi più costosi i clienti sono quasi solo loro.

I Talebani di oggi non sono quelli che presero il potere nel 1996 per cinque anni; ora si preoccupano dei loro interessi privati e benefici economici, come hanno imparato dalla corruzione dei leader jihadisti, da Khazai, dal regime di Ashraf Ghani. Se si hanno più risorse finanziarie, si possono proteggere meglio i propri cari, le proprie forze armate e le proprie famiglie. Molti leader talebani hanno mandato i figli, anche le bambine, a vivere all’estero, in Qatar e in altri Paesi arabi, dove godono di una vita migliore e di una migliore istruzione.

Attualmente l’Afghanistan non ha un’economia. La vita è gestita attraverso il sostegno settimanale che arriva al governo dagli USA e attraverso il sistema di tassazione forzata introdotto dai Talebani: ogni negozio, ogni casa e persino le ONG, le organizzazioni, le aziende… tutti pagano tasse elevate, raddoppiate rispetto a prima.

La maggior parte dei lavori infrastrutturali, come la costruzione di strade, l’installazione di telecamere di sicurezza, la creazione o la ricostruzione di piazze e altro ancora sono eseguiti con l’uso della forza, costringendo organizzazioni e imprenditori privati. Apparentemente, agli occhi stranieri, sembra che i Talebani abbiano migliorato la vita, perché sono state costruite le strade principali, ma la maggior parte dei finanziamenti viene sottratta con la forza a donatori privati e individui.

 

Afghanistan: rimpatri forzati di rifugiati afghani dal Tagikistan

pressenza.com Redazione Italia 30 luglio 2025

Il governo tagiko ha ufficialmente confermato di aver rimpatriato forzatamente dei rifugiati in Afghanistan, secondo il Times of Central Asia. Questa comunicazione fa seguito alle notizie secondo cui 150 rifugiati afghani, molti dei quali con lo status di rifugiato confermato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), sono stati arrestati e rimpatriati con la forza dalle autorità. All’inizio di questo mese, tutti i rifugiati afghani in Tagikistan avevano ricevuto un ultimatum di 15 giorni che intimava loro di lasciare immediatamente il Paese.

Si teme che molti si trovino ad affrontare situazioni di estremo pericolo al loro ritorno. Si pensa che tra coloro che rischiano il rimpatrio forzato ci siano diversi cristiani, che in Afghanistan andrebbero incontro al carcere o alla pena di morte.

I talebani hanno infatti affermato che uccideranno tutti i cristiani che vivono nel Paese. Nel recente passato hanno organizzato vere e proprie cacce all’uomo, casa per casa, nei confronti di cristiani. In particolare, hanno preso di mira i responsabili di chiesa afghani: molti di loro sono scomparsi, mentre altri sono stati picchiati, torturati e uccisi.

Dopo il ritorno al potere dei talebani nel 2021, l’Afghanistan è arrivato a occupare per un anno il primo posto nella World Watch List di Porte Aperte/Open Doors, che classifica i paesi in cui i cristiani affrontano le persecuzioni e le discriminazioni più estreme.

Secondo una dichiarazione ufficiale del Comitato di Stato per la Sicurezza Nazionale della Repubblica del Tagikistan: “Un certo numero di cittadini stranieri ha violato gravemente i requisiti stabiliti per il loro soggiorno. Inoltre, durante l’ispezione, sono emerse le seguenti prove di violazioni (…) della legislazione della Repubblica del Tagikistan: traffico illegale di droga, incitamento e propaganda di movimenti estremisti, presentazione di informazioni e documenti falsi per ottenere lo status di rifugiato. In particolare, a questo si deve anche l’espulsione di un certo numero di cittadini afghani dal Paese. A questo proposito, sono attualmente in esame delle misure per espellerli dal territorio del Tagikistan, in conformità con la legislazione della Repubblica“.

Secondo l’agenzia di stampa Khamaa Press, questi rimpatri forzati hanno separato le famiglie. Ci sarebbero anche casi di bambini rimpatriati mentre i genitori si trovano ancora in Tagikistan. Alcuni dei rifugiati che si trovavano nel paese avevano domande di asilo attive e alcuni dovevano essere reinsediati in Canada.

Il Tagikistan è solo una delle nazioni che ha rimpatriato i rifugiati afghani. Secondo l’UNHCR, più di un milione di afgani sono stati rimpatriati dal Pakistan a seguito del suo “Piano di rimpatrio degli stranieri illegali”. Allo stesso modo, nel 2024 circa un milione di persone sono state forzatamente rimpatriate dall’Iran.

Jan de Vries, ricercatore di Porte Aperte/Open Doors per l’Asia Centrale, ha commentato: “Sono molto preoccupato per le donne che sono state deportate: che futuro avranno? E penso anche ai cristiani deportati che dovranno nascondersi ancora più di prima. Il rimpatrio potrebbe mettere a serio rischio la vita dei cristiani, poiché i talebani si oppongono violentemente all’esistenza di cristiani in Afghanistan“.

L’Afghanistan si trova alla posizione numero 10 della World Watch List. In questo Paese, abbandonare l’islam è considerato un’onta dalla famiglia e dalla comunità, e la conversione è punibile con la morte secondo la legge islamica, la Sharia, applicata in modo sempre più rigoroso da quando i talebani hanno preso il controllo del paese nel 2021.

Fonte CS di

Fondazione Porte Aperte ETS

 

Le interferenze talebane nella distribuzione degli aiuti umanitari

Siyar Sirat, Amu TV, 26 luglio 2025

Mentre l”agenzia delle Nazioni Unite afferma in un nuovo rapporto che l’interferenza dei talebani sta gravemente minando le operazioni umanitarie in Afghanistan, il rappresentante diplomatico dei Talebani chiede al direttore del WFP (Programma alimentare mondiale) di passare dagli aiuti di emergenza ai progetti di sviluppo a lungo termine. Evidentemente per poterli gestire direttamente come governo estromettendo finalmente le ONG…

L’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) in un nuovo rapporto ha dichiarato che l’ambiente operativo per le agenzie umanitarie è diventato “gravemente limitato” in Afghanistan a causa delle crescenti interferenze e violenze da parte dei talebani.

Secondo l’OCHA, a giugno gli episodi di violenza e di interferenza che hanno colpito il lavoro umanitario sono aumentati del 13% rispetto a maggio e del 35% rispetto allo stesso periodo del 2023. Questi dati evidenziano il deterioramento del clima per le operazioni di aiuto nel Paese, come descritto dall’agenzia.

Il rapporto documenta tre casi di violenza contro il personale, i beni e le strutture umanitarie nel solo mese di giugno. Tra questi, due operatori umanitari sono stati arrestati dalle forze talebane mentre facilitavano una riunione per le operatrici umanitarie.

Nel periodo gennaio-giugno 2025, un totale di 100 operatori umanitari, di cui 31 donne, sono stati arrestati dalle autorità talebane, come riportato nel rapporto. Molti di questi incidenti erano legati alle attività del Ministero talebano per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio.

“Questi arresti e queste minacce continuano a rappresentare un serio rischio per l’incolumità, la sicurezza e il benessere psicologico del personale umanitario”, si legge nel rapporto, che ha anche rilevato 13 incidenti esplicitamente legati al genere che hanno colpito in modo sproporzionato le donne che lavorano nelle operazioni umanitarie.

L’OCHA ha inoltre riferito di sette incidenti che hanno comportato restrizioni alla libertà di movimento, la maggior parte dei quali si è verificata ai posti di blocco talebani, e che hanno portato alla cancellazione o al ritardo delle missioni programmate.

Oltre all’interferenza umana, l’OCHA ha citato le condizioni ambientali, come le forti piogge, che hanno contribuito a ridurre l’accesso e causare ritardi operativi nelle regioni colpite.

L’agenzia ha dichiarato che le interferenze talebane hanno rappresentato un ostacolo significativo alla fornitura di aiuti umanitari per tutto il mese scorso. Tra le sfide segnalate, ci sono i ritardi o le complicazioni nella firma dei memorandum d’intesa, le interferenze nella selezione dei beneficiari e nel reclutamento del personale, le richieste di elenchi del personale e di dati sensibili, la tassazione dell’assistenza in denaro, l’applicazione di codici di abbigliamento e le restrizioni alla partecipazione delle donne al lavoro umanitario e all’accesso delle beneficiarie agli aiuti.

Secondo il rapporto, l’87% di tutti gli incidenti legati all’accesso registrati a giugno è stato causato dai talebani.

L’OCHA ha avvertito che queste interferenze stanno compromettendo gravemente la capacità delle organizzazioni umanitarie di raggiungere le persone bisognose, in particolare le donne e le popolazioni vulnerabili.

Una schiava vestita da moglie

Avizha Khorshid, 8AM Media, 23 luglio 2025

L’amaro racconto di Mina sul matrimonio forzato e gli abusi dei talebani

Diverse donne e ragazze denunciano che, con le restrizioni imposte dai talebani e l’eliminazione dalla struttura governativa delle istituzioni di supporto alle donne, la violenza domestica contro di loro ha raggiunto livelli senza precedenti. Anche la violenza contro le donne all’interno delle famiglie dei combattenti talebani è stata ripetutamente documentata. Questo rapporto si concentra sulle condizioni di vita di una donna, sposata con la costrizione a un talebano per 400.000 afghani e successivamente sottoposta a gravi abusi fisici, fino alla perdita di conoscenza, che racconta una storia amara e dolorosa, affermando di essere trattata come una schiava sessuale.

Mina in passato era un’insegnante. Racconta che adesso i suoi sogni e la sua passione per l’insegnamento si sono spenti, e passa ore a fissare il muro, incapace di ricordare l’ultima volta che si è alzata in piedi. A volte si perde così tanto nei suoi pensieri da non sentire il pianto del suo bambino e la sua mente è sottoposta a una pressione così intensa che il suo cervello fatica a elaborarla.

Un tempo una donna sana, istruita e piena di speranza, ora è sull’orlo del collasso psicologico. I suoi occhi versano lacrime involontarie e la sua mente è sopraffatta dalla paura, dalla rabbia e da un pesante silenzio.

Il prezzo della sposa

Mina è nata in un piccolo villaggio nella provincia di Maidan Wardak, dove ha assaporato l’amarezza della solitudine fin dai suoi primi istanti di vita. Donna alta, con i capelli neri, la pelle color grano e gli occhi grandi, il suo aspetto emana una bellezza silenziosa. Il suo nome è legato all’affetto, eppure il suo destino è costellato di sofferenza e vulnerabilità.

Perse il padre prima di nascere, vittima di conflitti etnici. Sua madre, suo unico rifugio e speranza, morì poco dopo la sua nascita. Il destino affidò Mina allo zio e a sua moglie, che la consideravano non un essere umano, ma un mezzo per guadagnare denaro. Senza il suo consenso, la diedero in sposa a un membro dei talebani, ricevendo 400.000 afghani come prezzo della sposa.

Mina racconta che da quel giorno la sua vita divenne una schiavitù nella casa del marito, dove non riceveva né amore né rispetto. Sentiva ripetere più volte: “Ti abbiamo comprato per 400.000; non sei costata poco”.

Vivendo sotto il peso degli abusi domestici, Mina racconta che non le era nemmeno permesso mangiare con gli altri, doveva aspettare che tutti fossero sazi, sperando che rimanesse qualcosa per lei e, senza permesso, non poteva mangiare niente. “Anche se c’era molta frutta, dovevo aspettare che fosse infestata da mosche o vermi e che nessun altro la volesse: solo allora era il mio turno”. Quando parlava, veniva messa a tacere con insulti e violenza.

Sono passati tre anni dal matrimonio forzato di Mina. Ora ha un figlio di due anni ed è all’ottavo mese di gravidanza. Qualche giorno fa, quando il suo bambino aveva fame, gli ha dato un pezzetto di pane. Questo semplice gesto ha provocato l’ira della suocera, che ha preteso che il figlio, appena rientrato dal servizio, “insegnasse alla moglie a stare al suo posto” e le facesse capire di non agire mai senza permesso. Mina conferma che il marito l’ha picchiata così violentemente da farle perdere conoscenza. Il feto nel suo grembo è rimasto immobile per ore.

Il sospetto per la donna istruita

Donna istruita che un tempo aveva studiato scienze religiose e insegnato alle ragazze del suo villaggio, la sua conoscenza e la sua consapevolezza erano viste come una minaccia dalla famiglia del marito. La famiglia, non solo analfabeta ma profondamente radicata in credenze superstiziose e tradizioni umilianti, guardava con sospetto alla sua istruzione.

Mina sottolinea di aver studiato i principi islamici e di cercare sempre di reagire ai comportamenti ingiusti con calma e ragionevolezza, ma suo marito analfabeta si sente spesso inferiore e sminuito dalle sue parole. Perciò, per affermare il suo dominio maschile, si oppone anche alle sue osservazioni più semplici e a volte la picchia senza sosta e senza alcuna giustificazione, solo per affermare il suo controllo.

Discriminazione, povertà, umiliazione, violenza e solitudine hanno intessuto la vita di questa donna. I medici dicono che, a causa di numerose lesioni fisiche alla parte bassa della schiena, non riesce più a controllare la vescica. Però il suo vero dolore non risiede solo nel corpo, ma anche nello spirito ferito, che non è stato curato per anni, una ferita inflitta dalla crudeltà del suo destino. Eppure, Mina lotta con tutte le sue forze per la figlia di due anni e per il nascituro che porta in grembo, affrontando le difficoltà e le ingiustizie della vita, senza che la sua voce venga ascoltata da nessuno.

 

La disumanizzazione dei rifugiati afghani in Iran

Nahid Fattahi, Zan Times, 24 luglio 2025

Il mondo deve smettere di guardare altrove

Avevo cinque anni quando sono arrivata in Iran come rifugiata in fuga da una guerra che non capivo. Era il 1985. La mia famiglia, come milioni di altre, era scappata dall’invasione sovietica dell’Afghanistan. Abbiamo attraversato i confini non per cercare una vita migliore, ma solo per restare vivi.

Non eravamo trattati alla pari, ma con umanità. Non avevamo gli stessi diritti, ma avevamo dignità. Questo contava. Quando si scappa dalle bombe, la sopravvivenza viene prima dell’appartenenza.

Ricordo il profumo del pane sangak prima dell’alba e il suono della pala del fornaio che raschiava le pareti del forno. Ricordo di aver copiato versi di Hafez e Saadi sui miei quaderni, anche quando non ne comprendevo appieno il significato. Ricordo i vicini che avevano tutte le ragioni per vederci come estranei, ma che ci hanno accolto lo stesso.

Iran, casa mia

Tra i cinque e i tredici anni, l’Iran è stato la mia casa. Mi ha dato ciò che la guerra mi aveva rubato: continuità, ritmo e rifugio. Non l’ho mai dimenticato.

Ora sono costretta a farlo.

Quello che sta accadendo oggi ai rifugiati afghani in Iran è il collasso dei diritti umani.

I bambini vengono trascinati via dalle loro case e scaricati in frontiere che non hanno mai attraversato. Le persone vengono ammassate in centri di detenzione senza un regolare processo, senza accuse e senza motivo. Secondo l’OIM, il numero totale di persone deportate nel 2025 ha superato il milione.

Molti di loro sono nati e cresciuti in Iran. Non hanno mai messo piede in Afghanistan. Non stanno tornando in una patria. Vengono esiliati in un territorio sconosciuto, spesso senza cibo, denaro o documenti.

Alcuni vengono picchiati. Alcuni scompaiono. Alcuni non tornano affatto.

Il messaggio è chiaro: non siete fatti per restare. E se vi abbiamo permesso di restare, è stato un favore. Ora quel favore è finito.

Questa violenza non è esplosa da un giorno all’altro. È stata prevista dal sistema fin dall’inizio.

Oggi, più di cinque milioni di afghani vivono in Iran, molti dei quali senza documenti, apolidi e invisibili. La maggior parte di loro è lì dagli anni Ottanta. Hanno raccolto colture iraniane, costruito strade iraniane, trasportato rifiuti iraniani, assistito anziani iraniani e servito in case iraniane. Hanno pagato le tasse. Hanno rispettato le regole. Ma non sono mai stati invitati a far parte della storia nazionale iraniana.

Gli è stato permesso di esistere. Ma non di farne parte.

Non è mai stata una svista. È stata una strategia. Puoi vivere qui, ma non sarai mai “di qui”. Potete lavorare, ma non chiedete protezione. Potete sopravvivere, ma non aspettatevi dignità.

Invisibilità forzata usata come arma

Ora, quella politica decennale di invisibilità forzata è diventata un’arma.

Human Rights Watch ha documentato modelli di abuso che sembrano un copione dell’orrore: detenzioni arbitrarie, estorsioni da parte delle autorità, pestaggi, separazioni familiari ed espulsioni nel cuore della notte in zone di confine remote e pericolose. Amnesty International riferisce che i deportati vengono spesso scaricati in aree afflitte dalla violenza, senza risorse o supporto.

La caduta libera dell’economia iraniana fa da sfondo. Decenni di sanzioni hanno strangolato il Paese. L’inflazione è salita alle stelle. La repressione si è intensificata. Quando i regimi autoritari si trovano di fronte a un collasso interno, fanno quello che fanno sempre: trovano capri espiatori.

Gli afghani non hanno diritti legali, né diritto di voto, né sostegno diplomatico. Sono i bersagli perfetti.

Come psicoterapeuta, ho lavorato con persone la cui vita è stata sconvolta dall’esilio. L’esilio non è solo una ferita. È una condizione cronica. Divora le profondità di una persona.

Il tempo si distorce. Il futuro si dissolve.

Il corpo è in costante stato di allerta. I bambini cresciuti in questo stato non conoscono sicurezza, ma solo vigilanza. Gli adulti perdono la capacità di immaginare una vita che vada oltre la sopravvivenza. Diventa difficile sognare. Diventa difficile riposare. Diventa difficile sentirsi un essere umano completo.

Questa è la violenza silenziosa della cancellazione sponsorizzata dallo Stato. Non uccide solo i corpi, ma disintegra le anime.

La comunità internazionale non fa nulla

La comunità internazionale assiste a questa situazione senza fare quasi nulla. L’UNHCR ha rilasciato dichiarazioni che sembrano modelli di comunicati stampa. I governi occidentali danno cenni di preoccupazione, ma non offrono alcuna azione. Non ci sono vertici di emergenza, né ulteriori sanzioni legate alle violazioni dei diritti umani, né grida morali.

Perché? Perché i rifugiati afghani non sono vittime convenienti. Non si adattano alle ordinate narrazioni di eroismo o vittimismo che l’Occidente trova convincenti. Non sono vestiti con i giusti traumi. Non muoiono nei modi giusti. Sono troppo poveri, troppo marroni, troppo silenziosi, troppo numerosi.

È così che funziona la cancellazione. Non solo attraverso la violenza, ma anche attraverso il silenzio, il distogliere lo sguardo e l’oblio.

Alla diaspora afghana: se avete una voce, usatela. Se avete uno status, usatelo. Se avete sicurezza, non accaparratevela. Questa non è la lotta di qualcun altro. È la nostra.

Agli alleati iraniani: Molti di voi hanno rischiato tutto per sfidare la brutalità del vostro governo. Avete difeso i diritti delle donne, la libertà di parola e i prigionieri politici. Ora difendete le famiglie afghane che spazzavano le vostre strade, sedevano nelle vostre aule, lavoravano nei vostri cantieri. Facevano parte della vostra società, anche se il vostro governo non li ha mai riconosciuti.

Alla comunità mondiale dei diritti umani: Smettetela di fingere che sia complicato. Non lo è. È violenza contro gli apolidi. È la disumanizzazione di chi è già invisibile. È un fallimento morale al rallentatore.

Una volta l’Iran ha dato rifugio alla mia famiglia e per questo sarò sempre grata. Ma la gratitudine non è un ordine di bavaglio.

Ciò che sta accadendo ora richiede indignazione. Richiede un intervento. Richiede di fare onestamente i conti con l’ipocrisia della politica globale sui rifugiati e con la nostra incapacità di ritenere i governi responsabili quando le vittime sono povere, straniere e scomode.

I rifugiati afghani non sono fantasmi. Non sono macerie. Non sono usa e getta.

Sono esseri umani. E meritano di essere visti.

Nahid Fattahi, LMFT, è psicoterapeuta e docente aggiunto presso il Pacific Oaks College. Il suo lavoro si concentra sulla cura della salute mentale olistica e culturalmente sensibile. È stata pubblicata in riviste come The San Francisco Chronicle, The Daily Beast, Ms Magazine, US News e Psychology Today.

Poete afghane: la disobbedienza è una lotta

Somaia Ramish, Il Manifesto, 26 luglio 2025

Al Ju Buk Festival, nel borgo di Scanno, la poesia delle donne in Afghanistan, voci di resistenza, di lotta, di bellezza

La poesia delle donne in Afghanistan ha una lunga storia e si contraddistingue in momenti politici e sociali molto diversi: non solo espressione artistica di bellezza ma forma di lotta e disobbedienza che sfida una società dalla radicata tradizione patriarcale.

Rabi’a Balkhi (856) considerata la madre della poesia persiana, è una delle pochissime intellettuali a essere conosciuta con il suo vero nome, ancora oggi simbolo di libertà. La sua storia rappresenta la sfida contro l’oppressione e un continuo, duro, promemoria del prezzo che le donne afghane sono costrette a pagare per la loro libertà di parola e di scelta. Non potendo più scrivere liberamente verga i suoi versi col suo stesso sangue. Qui scrive: L’amore è un oceano con uno spazio così sconfinato/ Che nessun saggio vi nuota senza esserne ingoiato/ Un vero amante dovrebbe essere fedele fino alla fine/ E affrontare le correnti più respingenti.

Quando vedi le cose ripugnanti, immaginale pulite/ mangia il veleno, ma assaggia il dolce zucchero!

Nonostante le diseguaglianze sociali e l’oscurantismo culturale, costrette spesso a scrivere sotto falso nome – makhfie (Makhfi Badakhshi) è uno pseudonimo che significa «colei che è nascosta» – le donne afghane non si arrendono e continuano a utilizzare le proprie penne come strumento per opporsi alla discriminazione. La poesia è per loro consapevolezza, è femminismo, diffonde l’opinione delle donne su società, religione, cultura, politica. Divulgano i loro pensieri, nonostante le grandi sofferenze inflitte a chi non segue le oppressive regole patriarcali, mostrano di essere padrone del proprio destino.
Bahar Saeed (1956) simbolo della donna che scrive poesie erotiche, è una delle poete che ha rotto maggiormente i tabù, contro ogni norma sociale tradizionale, cantando la libertà del corpo da ogni costrizione. Versi che si oppongono all’esclusione delle donne afghane da ogni forma della vita sociale e politica. Una ribelle la cui poesia rifiuta la sottomissione e l’obbedienza.

Nadia Anjuman (1980-2005) che ha scritto Le mie ali sono chiuse e non posso volare, è stata assassinata nel 2005. Ad Herat, nel 1995, quando il regime talebano vieta per la prima volta l’istruzione femminile, frequenta un circolo letterario mascherato da scuola di cucito: la Goodle Niddle Sewing School, sotto la guida del professor Muhammad Ali Rayhab. Finito il regime si iscrive all’Università, e si laurea in Lettere nel 2002, pubblica una pregevole raccolta di poesia (Gul-e-dodi, Fiore di fumo), si sposa con un suo collega di università, laureato anche lui in Letteratura. Il marito la uccide poco dopo la nascita del loro primo figlio, perché ha osato declamare le sue poesie in pubblico. Aveva solo 25 anni. In Light Blue Memories, scritto settimane dopo la caduta dei Talebani nel 2001, si rivolge alle vittime del silenzio forzato e si chiede cosa succede quando si perde la propria voce. In nome di quale patriarcato siano ridotte a tacere.

A voi, ragazze isolate del secolo/ condottiere silenziose, sconosciute alla gente/ voi, sulle cui labbra è morto il sorriso/voi che siete senza voce in un angolo sperduto, piegate in due/ cariche dei ricordi, nascosti nel mucchio dei rimpianti/ se tra i ricordi vedete il sorriso/ditelo:/
Non avete più voglia di aprire le labbra/ma magari tra le nostre lacrime e urla/ ogni tanto facevate apparire/ la parola meno limpida.
Sono imprigionata in questo angolo/ Piena di malinconia e di dispiacere/ Le mie ali sono chiuse e non posso volare.

Maral Taheri (1980) è tra le più importanti e originali poetesse contemporanee. Ha passato la sua vita in esilio in Iran, dove si è occupata dei diritti delle donne. Dopo la caduta di Kabul e l’inizio del movimento «Zan, Zendeghì, Azadì» (Donna, Vita, Libertà) ha lasciato l’Iran e ora è rifugiata in Francia. Per molto tempo si è rifiutata di pubblicare per non sottostare alla censura in Iran e in Afghanistan. Collega l’amore, la sessualità, la guerra e l’esilio forzato con riferimento ai testi teologici dell’Islam. Oppone il suo rifiuto delle regole che sottomettono la donna e il suo corpo con un linguaggio diretto, e critico contro regole tradizionali e prestabilite.

Scrive: Non preoccuparti amore mio/ mio amore muto/ so bene come tradirmi/ è un’eredità culturale che viene dal mio paese/ sotterranea e originale/ come Dio!
Traditore ben vestito/ Compagno dei ladri e amico del gruppo/carovana/ E naturalmente non ci siamo inginocchiate/ Non è necessario essere sempre spontanea e leale/ Felice e semplice e timorata di Dio/ Abituarsi al dolore che ci ha raggiunto dal cielo/ Che altro può succedere?
Ciao, caro terzo mondo/ Amami/ Mentre spezzo semi di girasole per te nel cinema/ E bacia le mie labbra/ Fino a che mamma dà il permesso di farlo, pensa alle cicche di sigarette in camera mia/ Allahu Akbar/ Dio è 34 volte un grande idolo/ Con i seguaci attaccati alla statua russa…

In una società dove nascere femmina è di per sé un tabù, essere donna rappresenta una sfida…la disobbedienza è una lotta. Le poete, represse dalle famiglie e dalla società, torturate per aver scritto versi, continuano a lanciare la loro sfida contro le diseguaglianze, alle nuove generazioni, in una lotta millenaria che ispira e a dà speranza di cambiamento a tutte le donne del mondo.

Traduzione di Giorgia Pietropaoli

 

 

Appello urgente: richiesta di aiuto per profughi afghani espulsi dall’Iran

CISDA, Appello, 15 luglio 2025

È in corso un’ondata di deportazioni forzate e disumane di migranti afghani dall’Iran . Migliaia di famiglie vengono espulse con violenza, costrette a lasciare in Iran i propri averi, e, una volta varcata la frontiera, padri e figli vengono portati in prigione senza alcun contatto o informazione, mentre madri e bambini vengono abbandonati sotto il sole cocente, senza protezione. Sono esposti a un caldo estremo, senza accesso ad acqua potabile, cibo o riparo. I bambini si ammalano di disidratazione, diarrea e spossatezza.

Sia HAWCA – Humanitarian Assistance for Women and Children of Afghanistan (Associazione Umanitaria per l’Assistenza alle Donne e ai Bambini dell’Afghanistan) che OPAWC – Organization Promoting Afghan Women’s Capabilities (Organizzazione per la promozione delle abilità delle donne afghane) si stanno impegnando a sostenere queste famiglie e chiedono il nostro aiuto per fornire: cibo, acqua pulita e prodotti per l’igiene.

La situazione sta rapidamente peggiorando ed è diventata un’emergenza su vasta scala, si sta ripetendo quanto già avvenuto con le espulsioni dal Pakistan. L’agenzia dell’ONU per le migrazioni stima che a giugno oltre 250.000 persone, tra cui migliaia di donne sole, siano tornate in Afghanistan dall’Iran.

Condividiamo l’appello inviatoci dalle associazioni che sosteniamo e vi chiediamo uno sforzo per poter raccogliere fondi che, come CISDA, ci impegniamo a far arrivare in Afghanistan.

Con il vostro aiuto riusciremo a trovare il modo di aiutare queste associazioni che da sempre si prodigano per la popolazione afghana e poterle sostenere anche in questa occasione.

L’IBAN del CISDA è: IT74Y0501801600000011136660 Causale: “Emergenza deportati afghani Iran”.

I Talebani intensificano l’apartheid di genere: decine di donne arrestate per “violazione dell’hijab”

CISDA, Comunicato, 25 luglio 2025

In questi giorni abbiamo ricevuto il racconto affranto delle donne appartenenti alle associazioni afghane che sosteniamo, le quali confermano le notizie allarmanti apprese da alcuni siti circa l’arresto arbitrario di decine di donne da parte della polizia morale, presumibilmente per “violazioni dell’hijab”, trattenute senza accesso a un legale, senza contatti con i familiari e senza assistenza medica.

Ci hanno scritto:

“Negli ultimi giorni, la situazione per donne e ragazze è tornata ad essere estremamente allarmante. La polizia morale pattuglia le strade, ferma i veicoli e trattiene le donne con la forza. Molte ragazze sono sotto shock e spaventate, hanno paura anche solo di uscire di casa. Secondo quanto riferito, dopo essere state rilasciate, alcune donne sono state rifiutate dalle loro famiglie, come se il peso dell’ingiustizia fosse ancora una volta posto sulle loro spalle.

Una ragazza, che per paura aveva inizialmente negato di avere subito un arresto, quando ha compreso il nostro sostegno ha iniziato a piangere e ha detto:

‘Per Dio, ero completamente coperta: indossavo l’hijab, la maschera e il chapan. Ma all’improvviso mi hanno circondata come animali selvatici, mi hanno insultata e colpita con una pistola”. Sono svenuta per la paura e il dolore. Quando ho ripreso conoscenza, mi trovavo in uno scantinato buio con decine di altre ragazze assetate e terrorizzate, senza alcun contatto con le nostre famiglie. Quello che abbiamo passato è stato peggio della morte…’.

Con voce tremante, ha aggiunto: ‘La libertà è stata l’inizio di un nuovo dolore. Il comportamento di tutti nei miei confronti è cambiato, come se avessi fatto qualcosa di sbagliato. Vorrei non essere mai uscita di casa’.

Questa paura ha colpito profondamente anche le nostre studentesse. In molte, piangendo, hanno confermato quanto amano imparare, ma hanno chiesto di essere esentate dalla frequenza per qualche giorno, finché la situazione non si sarà calmata. Abbiamo deciso di sospendere le lezioni per due settimane. Anche oggi la polizia morale è passata diverse volte davanti al nostro centro e non possiamo mettere a repentaglio la sicurezza delle nostre studentesse.

Sono giorni bui e pesanti, ma la vostra presenza e il vostro sostegno sono per noi una luce di speranza e conforto, la vostra solidarietà ci dà la forza per andare avanti”.

Nel suo sito, RAWA NEWS informa:

In un nuovo e più intenso attacco alle libertà delle donne, i talebani hanno lanciato un’ondata di arresti arbitrari in tutto l’Afghanistan, prendendo di mira donne e ragazze accusate di aver violato l’interpretazione estremista che il gruppo dà delle regole sull’hijab. Solo nell’ultima settimana, decine di donne sono state arrestate a Kabul, Herat e Mazar-e-Sharif, applicando standard di “modestia” vaghi e mutevoli, senza alcun processo o giustificazione legale.

Questi arresti avvengono in strade, centri commerciali, caffè e campus universitari, spazi pubblici dove le donne cercano semplicemente di condurre la propria vita quotidiana. A Kabul, nelle zone di Shahr-e-Naw, Dasht-e-Barchi e Qala-e-Fataullah, i testimoni hanno riferito che in alcuni casi sono state aggredite fisicamente dagli agenti talebani prima di essere costrette a salire sui veicoli. Poi sono state trattenute nei cosiddetti “centri di moralità” – strutture gestite dal Ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, un’istituzione temuta che ora opera come una forza di polizia religiosa – e rilasciate solo dopo che i loro tutori maschi firmavano garanzie scritte che avrebbero “corretto” il loro comportamento.

Negli ultimi giorni a Herat sono state arrestate almeno 26 donne, molte delle quali giovani e alcune minorenni; a Mazar-e-Sharif una decina, sempre con l’accusa di non coprirsi completamente il volto. I funzionari talebani hanno confermato gli arresti, sostenendo che le donne erano state avvertite in precedenza.

Secondo quanto riferito, le arrestate sono state trattenute senza poter usufruire di assistenza legale, contattare le proprie famiglie o ricevere cure mediche. Alcune famiglie hanno paura di far uscire di casa le proprie figlie, temendo che possano essere arrestate.

NON PER LA RELIGIONE MA PER IL PREDOMINIO

Le Nazioni Unite e gli osservatori dei diritti umani hanno condannato questi arresti, ritenendoli delle gravi violazioni del diritto internazionale e un chiaro segno di apartheid di genere. Tuttavia, i talebani non sembrano intenzionati a cedere. Anzi, i funzionari del ministero hanno raddoppiato le loro minacce, annunciando che qualsiasi donna trovata a indossare un “cattivo hijab” sarà punita immediatamente e senza preavviso.

Queste azioni non riguardano la religione, ma il predominio: i talebani usano l’imposizione del hijab come arma politica per mettere a tacere e cancellare le donne. Criminalizzando le normali scelte di abbigliamento, i Talebani inviano un messaggio agghiacciante: le donne non appartengono alla sfera pubblica e qualsiasi tentativo di affermare la propria presenza sarà represso con la forza. Si tratta di un’ulteriore fase del sistematico smantellamento dei diritti delle donne da parte dei talebani, che include il divieto di istruzione per le ragazze oltre la prima media, il divieto per le donne di lavorare con le ONG e le organizzazioni internazionali e dure restrizioni nella possibilità di movimento  e nell’abbigliamento.

Nonostante la crescente repressione, molte donne afghane resistono, rifiutandosi di scomparire, documentando gli abusi e parlando, anche a rischio della propria vita. Ma le loro voci sono accolte con indifferenza dalla maggior parte della comunità internazionale.

Il tempo delle condanne simboliche è finito. Le azioni dei talebani equivalgono a una prolungata campagna di persecuzione di genere e devono essere trattate come tali. Senza una pressione internazionale concreta, il regime continuerà senza controllo la sua guerra contro le donne, incoraggiato dal silenzio di un mondo che un tempo aveva promesso di stare dalla parte del popolo afghano.

I volti degli afghani assassinati dai talebani dopo la fuga di notizie della “lista delle vittime”

RAWA News, 18 luglio 2025, di  Robert Mendick, caporedattore e Akhtar Makoii *

Il segreto governativo impedisce al Telegraph di rivelare se i morti siano stati coinvolti nella violazione dei dati.

Sono stati pubblicati in un dossier i nomi di oltre 200 soldati e poliziotti afghani assassinati dai talebani da quando il Ministero della Difesa (MoD) ha diffuso una “lista delle vittime”.

I loro nomi sono stati raccolti da assistenti sociali indipendenti, evidenziando la difficile situazione degli afghani che hanno lavorato con le forze armate britanniche e statunitensi.

Ma un’ordinanza del tribunale imposta da un giudice di alto rango impedisce al Telegraph di riferire se i morti fossero apparsi per la prima volta nell’elenco del Ministero della Difesa, reso pubblico accidentalmente nel febbraio 2022.

I talebani sostengono che la lista del Ministero della Difesa è entrata in loro possesso nel 2022 e che da allora stanno dando la caccia alle persone in essa identificate.

Il Telegraph può rivelare che un’unità delle forze speciali dei talebani, nota come Yarmok 60, è stata incaricata di localizzarli.

L’elenco riportava i richiedenti asilo a un programma gestito dal Ministero della Difesa, il cui scopo, dopo la caduta di Kabul nel 2021, era quello di dare asilo agli afghani che avevano lavorato con le truppe britanniche.

Non è ancora chiaro quante delle persone presenti nell’elenco siano state identificate dai talebani, rintracciate e di conseguenza uccise.

Mercoledì, il Segretario alla Difesa John Healey ha ammesso di “non essere in grado di affermare con certezza” se qualcuno sia stato ucciso a seguito della violazione dei dati.

Ma ha insistito sul fatto che, a tre anni dalla fuga di notizie, è “altamente improbabile” che essere nella lista aumenti il rischio di essere presi di mira dai taleban

Martedì l’Alta Corte ha revocato una super-ingiunzione, consentendo per la prima volta la segnalazione della fuga di notizie. Rimane però in vigore un’ordinanza del tribunale che impedisce l’utilizzo del database per rivelare l’identità degli afghani che potrebbero essere stati presi di mira a seguito della fuga di notizie.

Tra gli ex soldati delle forze speciali afghane uccisi dai talebani da quando la lista è trapelata ci sono uomini giovani e di mezza età assassinati dal nuovo regime in diverse parti del Paese, alcuni insieme ai loro familiari.

Il colonnello Toorjan, comandante della polizia di Helmand meridionale, è stato ucciso insieme ad altri familiari mentre usciva da una moschea il 24 giugno dell’anno scorso.

Un mese dopo, le forze talebane hanno sparato e ucciso un altro ex ufficiale dell’esercito governativo nella provincia orientale di Khost.

I talebani hanno giustiziato Hamidullah Khosti il 23 luglio nel distretto di Alishar. Era arrivato lì il giorno prima per partecipare a una cerimonia nuziale.

Nonostante l’amnistia generale dichiarata da Hibatullah Akhundzada, il leader supremo dei talebani, il gruppo ha continuato ad arrestare e uccidere ex militari e dipendenti del governo per quasi quattro anni. Un altro ex ufficiale dell’esercito governativo è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco dalle forze talebane nella provincia di Kapisa nel luglio 2022, cinque mesi dopo la fuga di notizie dell’elenco.

Muzamil Nejrabi è stato ucciso di notte nel villaggio di Arbab Khil, nel distretto di Nejrab, nella provincia di Kapisa.

Il giovane era uscito di casa alle 22:30 per irrigare i suoi campi quando è stato colpito dai soldati del Quinto Battaglione talebano, Prima Brigata, di stanza a Kapisa. È morto durante il trasporto in ospedale.

Gli amici dicono che si era sposato tre mesi prima del suo assassinio.

Nel febbraio dello scorso anno, il cadavere insanguinato di Hayatullah Nizami, ex comandante delle operazioni della terza zona di sicurezza nella città settentrionale di Taloqan, è stato scoperto nella zona di Bishkapa, vicino alla brigata dell’esercito talebano della città nella provincia di Takhar.

Secondo una fonte locale, Nizami, in precedenza membro delle forze di sicurezza, lavorava come dipendente presso un’azienda che collaborava con il comune di Taloqan dopo la caduta del governo sostenuto dall’Occidente. Era scomparso con il suo veicolo la notte prima e il suo corpo smembrato è stato ritrovato il giorno seguente.

Fonti locali hanno riferito che, dopo il ritrovamento del corpo, i talebani hanno fatto il nome di Hamidullah, un dipendente comunale, per nascondere il suo passato militare.

Secondo i media locali, il 21 agosto dell’anno scorso, i combattenti talebani hanno trascinato fuori dalla sua casa Abdul Rahman Delawar, ex comandante della sicurezza del distretto di Shekhel, e lo hanno ucciso.

Dopo la caduta di Kabul, Delawar era fuggito in Iran ed era da poco tornato al villaggio dei suoi antenati, dove conduceva una vita normale.

Il dossier sui 200 afghani uccisi dopo la fuga di notizie è stato compilato dall’assistente sociale indipendente, noto solo come Persona A, che per primo ha lanciato l’allarme sulla violazione dei dati.

Inviò un’e-mail a James Heappey, all’epoca ministro delle Forze Armate, in cui avvertiva “di quanto grave sia stata la negligenza in termini di sicurezza dei dati”.

Ha aggiunto: “I talebani potrebbero ora avere una lista di 33.000 persone da uccidere, fornita loro essenzialmente dal governo del Regno Unito”.

Ha inviato l’e-mail il 15 agosto 2023, dopo che un utente anonimo su Facebook aveva minacciato di pubblicare i dati trapelati. Erano stati diffusi accidentalmente 18 mesi prima da un soldato britannico incaricato di controllare gli afghani che richiedevano asilo nell’ambito dell’Afghan Relocations and Assistance Policy (Arap).

Successivamente, nel settembre 2023, la persona A è stata sottoposta a una super-ingiunzione, che le ha impedito – insieme ai giornali – anche solo di menzionarne l’esistenza.

Il dossier compilato dalla Persona A e da altri assistenti sociali è stato trasmesso al Telegraph dopo la revoca della super-ingiunzione, per fornire un’istantanea degli afghani che avevano lavorato con le truppe della coalizione e che si ritiene siano stati successivamente presi di mira dai talebani.

Le identità delle vittime sono state ricavate da post pubblicati sulla stampa locale afghana e sui social media, nonché tramite contatti sul campo. Il Telegraph non è stato in grado di verificare in modo indipendente i nomi contenuti nel dossier delle vittime e le circostanze della loro morte.

La persona A ha affermato che gli afghani potrebbero aver fatto domanda per partecipare al programma Arap, anche se non avevano lavorato con le truppe britanniche, come mezzo per assicurarsi un rifugio sicuro.

Ma ciò significa anche che gli afghani che non avevano alcun legame con l’esercito britannico potrebbero essere stati messi in pericolo semplicemente facendo domanda per partecipare al programma Arap.

La persona A ha dichiarato: “Il problema che abbiamo è che non abbiamo modo di sapere se le persone nel nostro dossier abbiano presentato domanda per il programma Arap o meno. Ci sono moltissime persone che non hanno rispettato il programma Arap, ma hanno presentato domanda tramite Arap”.

*articolo tratto dal Telegraph 18 luglio 2025

[Trad. automatica]

Deportati in Afghanistan: la Germania rimanda a Kabul espulsi e condannati

Il manifesto, 19 luglio 2025, di Giuliano Battiston

Espulsioni Onu: si rischia di violare il principio di non respingimento

Un volo della Qatar Airways è partito ieri dall’aeroporto di Lipsia alle 8.35, destinazione Kabul. A bordo 81 cittadini afghani, rimpatriati nell’Afghanistan governato dai Talebani anche grazie alla mediazione del Qatar. L’operazione è stata confermata dal ministro degli Interni tedesco, Alexander Dobrindt: «La Germania deporta 81 cittadini nel loro Paese d’origine come parte di un piano di rimpatrio collettivo. Si tratta di uomini afghani che sono tenuti legalmente ad abbandonare il Paese e che hanno precedenti penali. Tutte le loro richieste di asilo sono state legalmente respinte senza ulteriori ricorsi». Per il governo tedesco, entrato in carica lo scorso maggio, il trasferimento è un modo per dare seguito alle promesse elettorali rispetto a una pratica che deve diventare europea ed è del tutto legale: i deportati avevano un ordine di espulsione ed erano stati già condannati dalla giustizia penale, assicurano a Berlino. Proprio ieri, riferendosi in particolare alle deportazioni di massa dall’Iran e dal Pakistan, l’Alto Commissario delle Nazioni unite per i Diritti umani, Volker Türk, ha chiesto però di fermare immediatamente il rimpatrio forzato di tutti i rifugiati afghani e richiedenti asilo.

L’Onu ha inoltre ricordato che «rimandare le persone in un Paese in cui rischiano di subire persecuzioni, torture, trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti o altri danni irreparabili, viola il principio fondamentale del diritto internazionale di non respingimento» qualunque sia lo status dei rimpatriati. Amnesty International, criticando le deportazioni, ha ricordato che la situazione in Afghanistan è «catastrofica» e che «esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate e torture sono all’ordine del giorno». Da Kabul, i Talebani fanno sapere che, dopo aver esaminato i casi, tratteranno i rimpatriati secondo la sharia. In quanto alla reale pericolosità dei degli afghani deportati (in tasca mille euro ciascuno donati dal governo tedesco per evitare di violare una norma che impedisce di trasferire chi è a rischio di immediata indigenza) nessuna informazione supplementare.

Come già accaduto in passato. Quello di ieri è il primo volo di questo tipo voluto dal governo del cancelliere Friedrich Merz, ma non in assoluto: 28 cittadini afghani sono stati rimpatriati già lo scorso agosto, anche in quel caso accusati di crimini, senza che il governo dell’allora cancelliere Olaf Scholz fornisse prove documentali. Scholz, in quell’occasione, aveva annunciato altri trasferimenti. Un’eredità raccolta da Merz, che intende dettare la linea anche in Europa: «Le deportazioni in Afghanistan devono continuare in modo sicuro anche in futuro. Non esiste un diritto di residenza per i criminali nel nostro Paese». In base a quale accordo, e in cambio di quali vantaggi per l’Emirato, siano avvenuti questi due trasferimenti non è dato sapere. Berlino non riconosce l’Emirato islamico, il governo dei Talebani è riconosciuto soltanto da Mosca. Merz ha fatto sapere che l’espulsione è stata preceduta da settimane di negoziati, che i colloqui con i Talebani ci sono ma solo di natura tecnica, funzionali ai rimpatri.

Ma in un’intervista alla rivista tedesca Focus ha spiegato che la sua idea è «stringere accordi direttamente con l’Afghanistan per consentire i rimpatri» evitando terze parti, come il Qatar. E non è sfuggita agli osservatori più attenti che il governo tedesco potrebbe consentire l’arrivo di funzionari dell’Emirato al consolato di Berlino per facilitare le cose.

Un modo per riprendere a pieno regime quelle deportazioni che sono state una costante nel rapporto tra molti Paesi europei e l’Afghanistan, al tempo del precedente regime, la Repubblica islamica. Ieri, al termine di un incontro nel sud della Germania con i suoi omologhi da Francia, Polonia, Austria, Danimarca e Repubblica ceca, il ministro degli interni tedesco Dobrindt ha annunciato un accordo per inasprire le politiche migratorie e consentire i rimpatri. Anche in Afghanistan e Siria.