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Tag: Diritti delle donne

Un forte terremoto ha colpito l’Afghanistan orientale: oltre 800 morti

Il devastante terremoto dell’1 settembre 2025 ha colpito più gravemente nelle province di Kunar e Nangarhar, dove i centri sanitari sono alle prese con una grave carenza di medico donna che mette a rischio la salute di donne e bambini che sono la maggior parte delle vittime, riferisce  8AM Media. I residenti hanno lanciato un appello urgente ai talebani affinché consentano alle dottoresse di recarsi nelle zone colpite per fornire cure salvavita, evidenziando l’urgente necessità di un supporto medico specifico per genere

Haq Nawaz Khan, Rick NoackE Grace Moon, The Washington Post,  1 settembre 2025

Almeno 812 persone sono morte e più di 2.800 sono rimaste ferite dopo che un terremoto di magnitudo 6.0 ha colpito l’Afghanistan orientale, ha dichiarato lunedì il governo guidato dai talebani, citando dati preliminari.

Secondo l’US Geological Survey, il terremoto ha colpito domenica notte a circa 27 chilometri dalla città orientale di Jalalabad. Danni e vittime sono stati segnalati nella provincia di Nangahar, che comprende Jalalabad, così come nelle vicine province di Konar e Laghman; il sisma è stato avvertito in tutta la regione, compresi il vicino Pakistan e Kabul, la capitale afghana.

“Sono in corso le operazioni di soccorso e di salvataggio”, ha affermato Abdul Ghani Musamim, portavoce del governatore della provincia orientale di Konar, dove sembra essersi verificata la maggior parte delle perdite.

Le Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie internazionali non hanno pubblicato immediatamente stime sul numero di vittime e sull’entità dei danni. Durante i passati disastri naturali in Afghanistan, le cifre fornite dal governo talebano erano talvolta significativamente superiori a quelle finali fornite dalle Nazioni Unite.

Lunedì, le autorità afghane hanno trasportato i sopravvissuti feriti all’aeroporto di Jalalabad, dove sono stati trasferiti negli ospedali regionali. Le autorità di Kabul hanno dichiarato che il governo ha dispiegato tutti gli operatori della protezione civile, il personale medico e militare disponibili nella zona colpita dal terremoto.

Interi villaggi distrutti

I testimoni hanno descritto interi villaggi distrutti dal terremoto di domenica.

Sharifullah Sharafat, residente nel distretto di Chawkay, nella provincia di Konar, ha dichiarato di essere sopravvissuto per un pelo al terremoto di domenica. “Molte case del nostro villaggio sono crollate”, ha dichiarato Sharafat in un’intervista telefonica.

“Non ci sono parole per descrivere le urla che abbiamo sentito”, ha detto, aggiungendo che molte vittime nel villaggio non sono ancora state recuperate. La mancanza di elettricità e le frane causate dal terremoto hanno rallentato le operazioni di soccorso, ha aggiunto.

Mawlawi Sanaullah, residente di Konar, ha trovato la sua casa crollata e molti familiari sepolti sotto le macerie. “Mio figlio non c’è più”, ha detto Sanaullah, trattenendo le lacrime, in un’intervista alla televisione statale RTA.

Lunedì mattina le autorità hanno dichiarato che stanno ancora lavorando per stabilire un contatto con alcuni dei villaggi che si teme siano stati colpiti.

L’Afghanistan è stato spesso colpito da terremoti mortali, compresi quelli del 2022 e del 2023. Più di 1.000 persone sono morte in ciascuno di questi disastri. “Quest’ultimo terremoto rischia di eclissare l’entità dei bisogni umanitari causati dai terremoti di Herat del 2023 “, ha dichiarato Sherine Ibrahim, direttrice per l’Afghanistan dell’International Rescue Committee.

Negli ultimi 12 mesi, mentre i donatori internazionali tagliavano i budget per gli aiuti, gli operatori umanitari avevano lanciato l’allarme sul peggioramento della crisi sanitaria in Afghanistan. Il colpo più duro è stato il taglio di quasi tutti i progetti umanitari ed economici finanziati dagli Stati Uniti all’inizio di quest’anno , che rappresentavano oltre il 40% di tutti gli aiuti esteri.

“Questo terremoto colpisce un Paese che sta già affrontando la mancanza di sostegno globale per una grave crisi umanitaria”, ha dichiarato Graham Davison, direttore per l’Afghanistan dell’organizzazione umanitaria CARE, in una nota. “Quasi metà della popolazione afghana – 23 milioni di persone – dipende già dagli aiuti umanitari, eppure il Piano di risposta umanitaria è finanziato solo per il 28%”.

Il governo guidato dai talebani sta lottando per rifornire cliniche e ospedali, e il Programma alimentare mondiale ha dichiarato di poter sostenere solo 1 milione dei 10 milioni di afghani che hanno urgente bisogno di assistenza alimentare.

L’Afghanistan e il problema dei matrimoni precoci

laredazione.netSilvia Cegalin 28 Agosto 2025

Mariam, attivista di Rawa, ha raccontato alla Redazione come i talebani usino la religione come arma contro il popolo e le donne.

Il 27 Giugno 2025 nella provincia di Helmand un uomo di 45 anni ha sposato una bambina di 6 anni come sua terza moglie, comunica il sito informativo di Rawa citando fonti locali di Helmand. Secondo le fonti, il padre della ragazza l’avrebbe data in sposa a quest’uomo più anziano “in cambio di denaro”.

Una storia che si tinge di contorni ancora più oscuri, quando si viene a scoprire che i funzionari talebani locali per salvaguardare la loro “immagine” di moderazione hanno consigliato all’uomo di attendere che la bambina compisse l’età di 9 anni prima di portarla a casa sua e poter avere così rapporti intimi.

All’incirca un mese prima, domenica 4 Maggio, nel distretto di Taywara, nella provincia di Ghor, informa sempre Rawa citando Rukhshana Media: una giovane donna è morta dopo essersi data fuoco per sfuggire a un probabile matrimonio forzato. Quel giorno, Abida (questo il nome della donna) doveva essere presumibilmente prelevata dal comandante Haji Mohammad Rahmani e condotta al villaggio di Darzab Nili a Taywara dal fratello del comandante, Mohammad Azim. Le fonti comunicano che all’arrivo in città, Mohammad Rahmani ha rivendicato che Abida era stata promessa sposa a suo fratello quando aveva due anni, mentre il padre e il fratello di Abida hanno negato che ciò fosse vero e sono stati arrestati. Abida si sarebbe data fuoco all’interno della casa mentre alcune delle forze del comandante erano all’esterno. Nessuna indagine ufficiale è stata avviata, e sia il comandante che suo fratello non sono stati interrogati e nemmeno trattenuti.

Matrimoni precoci: la religione usata come arma contro il popolo

«L’Afghanistan è una società fortemente feudale e dominata dagli uomini e in cui le donne, che vivono in una condizione di segregazione e sofferenza, sono costrette a subire continue e orribili violazioni dei propri diritti. Una di queste forme è il matrimonio infantile. In Afghanistan questa pratica da quando i talebani hanno preso il potere nel 2021 è aumentata ed è stata resa legale».

Sono queste le prime cose che mi dice Mariam, un’attivista di Rawa – Revolutionary Association of the Women of Afghanistan* con cui riesco a parlare grazie a un incontro video organizzato in Agosto da CISDA – coordinamento italiano sostegno donne afghane (in particolare da Graziella Mascheroni e Gabriella Gagliardo), e a cui chiedo di raccontarmi la vicenda della bimba di 6 anni data in sposa a un 45enne e in più generale del fenomeno delle spose bambine.

«L’unica legge in vigore nel paese è la sharìa, interpretata dai talebani nella sua forma più rigida. Da quando i talebani sono tornati al potere alle bambine al di sopra dei 12 anni è stato vietato studiare, molte famiglie inoltre stanno affrontando gravi pressioni finanziarie a causa della crisi economica. A causa di queste problematiche in alcuni casi le famiglie non trovano altra soluzione se non quella di dare le loro figlie in sposa in età molto giovane. Questa pratica era più comune nei villaggi dell’Afghanistan, nelle zone rurali. Ma dalla chiusura delle scuole, dai cambiamenti nella vita degli afghani negli ultimi 4 anni, purtroppo questo fenomeno si è diffuso anche nelle grandi città come Kabul.

Nella nostra società le donne non sono protette, soprattutto in giovane età. Le ragazze adolescenti sono viste come un peso per la famiglia. Attualmente l’unico dovere che purtroppo la società odierna attribuisce e consente alle donne è quella di sposarsi il prima possibile, di avere figli e di mandare avanti la famiglia; per questo in molte famiglie credono che il matrimonio sia una sorta di protezione per le donne. Si pensa che sposarsi il prima possibile serva a scongiurare una vita in povertà e a evitare che le giovani siano rapite dai talebani. In molti casi, negli ultimi 4 anni, infatti le famiglie hanno subito pressioni da parte dei talebani e dei loro comandanti: quest’ultimi pretendono che le famiglie concedano loro le figlie nubili, e spesso le rapiscono usando la forza delle armi. I talebani cercano ragazze nubili per sposarle come seconde, terze o persino quarte mogli.

E poi, come ti ho accennato all’inizio, la grave crisi economica porta le famiglie a fare scelte drastiche, come può essere il caso di quella bambina di 6 anni data in sposa a un 45enne probabilmente a causa di un accordo economico. Ad esempio se una famiglia è indebitata con un’altra famiglia e non può fornire denaro, una soluzione per estinguere il debito è cedere una parte dei propri beni, il che può significare anche dare la propria figlia. E sfortunatamente, anche questo caso della bimba di 6 anni era tale che, considerando tutti i fatti che ho menzionato, la famiglia è stata costretta a cedere la loro bambina molto piccola».

Come ho scritto nell’introduzione questa terribile storia si tinge di contorni ancora più oscuri, quando si scopre che i funzionari talebani locali per salvaguardare la loro “immagine” di moderazione hanno consigliato all’uomo di attendere che la bambina compisse l’età di 9 anni prima di portarla a casa sua e poter avere così rapporti intimi.

Aisha (Āʾisha), figlia di Abu Bakr – primo califfo dell’Islam, è stata la terza moglie del profeta Maometto. Secondo molteplici fonti, tra cui la Sunnah e, una delle sei maggiori raccolte di Hadīth della tradizione orale sunnita, la Sahih Bukhari (volume 5, libro 58, numero 234.), Aisha è stata data in sposa a Maometto all’età di sei anni, mentre il matrimonio si sarebbe consumato con il compimento dei 9 anni.

«La religione viene usata come arma contro il nostro popolo» riferisce Mariam. «La mancanza di istruzione e il divieto alle ragazze di studiare gioca un ruolo importante nel radicare saldamente la religione nella nostra vita quotidiana, nelle nostre culture, nelle nostre tradizioni e in tutti gli altri aspetti della nostra vita. Quindi, solo con l’affermazione di un sistema laico, le pesanti ombre della religione che oscurano la nostra vita quotidiana saranno cacciate. Noi di Rawa rispettiamo le convinzioni religiose di qualsiasi individuo, ma riteniamo sia un errore farne una questione di opinione politica e strumento legislativo che influisca sulle scelte personali, ugualmente siamo anche contrari ad ogni discriminazione religiosa».

«Il matrimonio infantile, in particolare il matrimonio forzato di ragazze con uomini molto più anziani o di mezza età, rimane una delle forme più pervasive e culturalmente radicate di violenza di genere in tutto l’Afghanistan. Dal ritorno al potere dei talebani questa pratica è aumentata drammaticamente, alimentata dalle politiche ultra-patriarcali del regime, dal crollo delle protezioni legali e dalla crescente disperazione economica affrontata dalle famiglie. La normalizzazione di tali unioni coercitive con il pretesto della tradizione non solo spoglia le ragazze della loro infanzia e dei diritti umani fondamentali, ma rafforza anche un più ampio sistema di oppressione di genere che prospera sotto il dominio dei talebani» si legge in un articolo pubblicato su Rawa News.

A causa della forte censura presente nel Paese è difficilissimo ottenere dati attendibili su questo fenomeno. Va comunque ricordato che nei matrimoni precoci influisce, come riferito da Mariam, significativamente la situazione economica della famiglia.

Nel rapporto pubblicato l’’11 Giugno 2025, il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan, Richard Bennett, ha fatto luce sulla drammatica situazione del Paese, con particolare attenzione all’accesso alla giustizia e alla protezione delle donne e delle ragazze sotto il regime talebano. Come ampiamente riferito dal Relatore Speciale, i talebani hanno intenzionalmente e gravemente privato donne e ragazze dei loro diritti fondamentali, configurando un crimine contro l’umanità di persecuzione basata sul genere, condizione che può essere definita come apartheid di genere.

Quando in una scuola segreta si è salvata una ragazza da un matrimonio forzato

Una funzione essenziale la svolgono le scuole segrete. Da quando in Afghanistan sono ritornati al potere i talebani le bambine al di sopra dei 12 anni, dunque dal 7° grado scolastico, non possono più studiare.

Per questo Rawa, con il sostegno di Cisda e di altre organizzazioni presenti sul territorio, per poter offrire sostegno e istruzione alle ragazze hanno in questi anni organizzato piccoli gruppi di ragazze che si ritrovano a casa di insegnanti per studiare. Per evitare di essere scoperte queste alunne portano con sé dei libri religiosi, così se i talebani entrano nelle case, le bambine mostrano quelli spiegando che si sono riunite per pregare e studiare il Corano.

«Il nostro maggior problema è la sicurezza» asserisce Mariam.

«Purtroppo non possiamo formare classi numerose. Non possiamo costruire centri per le donne, ma soprattutto non possiamo gestire progetti nei territori in cui i talebani sono molto forti, ovvero nelle piccole province rurali. Nelle grandi città invece, potendo offrire maggiori misure di sicurezza, si svolgono gran parte dei nostri corsi clandestini tenuti a domicilio. Questi corsi (che durano 2/3 ore e 5 volte a settimana) si svolgono all’interno delle case degli insegnanti, ovviamente insegnanti che conosciamo o riteniamo siano affidabili, e loro si dimostrano sempre molto creativi nell’ampliare le loro reti senza trasformare la loro casa in una scuola ufficiale. Il numero medio è molto basso. In alcune zone sono anche 50-60 le persone che richiedono di poter frequentare le scuole segrete, ma purtroppo per motivi di sicurezza non possiamo permetterglielo. Quindi dobbiamo creare più classi in diverse regioni e non possiamo nemmeno scegliere 2 o 3 case troppo vicine, perché se succede qualcosa a una casa degli insegnanti o ad una delle nostre classi segrete, questo potrebbe influire e compromettere la segretezza delle altre. Quindi dobbiamo stare attente a mantenere la distanza tra le nostre classi e ad avere una sorta di copertura, come ad esempio lettura e studio del Corano, ma anche corsi di sartoria che sono permessi dai talebani».

Le scuole segrete svolgono anche funzione di supporto per queste giovani donne che si trovano, come le loro madri, costrette all’isolamento e alla segregazione. È proprio Mariam che racconta due episodi con esito positivo avvenute nelle scuole segrete.

«A Kabul una delle ragazze che frequentava uno dei nostri corsi clandestini ad un certo punto ha smesso di venire. Quando le compagne non l’hanno più vista hanno provato a capire il motivo della sua assenza. Una volta scoperto che era il fratello a non permetterle di partecipare ai corsi, un folto gruppo di 10-12 compagne di classe si è unito per convincere il fratello. E sai qual è stato il risultato? Ci riuscirono. Gli studenti ottennero così il consenso dei membri maschi della famiglia della ragazza con l’accordo di prelevarla ed accompagnarla a casa prima e dopo le lezioni in modo che non fosse mai sola. L’azione di questa piccola classe ha permesso ad una ragazza di continuare a studiare e a rimanere in contatto con le coetanee, evitando così l’isolamento; è inoltre un segnale che le nostre classi oltre che istruire creano tra le bambine un legame, legame che anche nelle difficoltà le permette di restare unite, oltre renderle più forti e coraggiose. La politica di Rawa non è solo quella di fornire lezioni di matematica e alfabetizzazione, ma anche di dare alle ragazze l’opportunità di essere ascoltate. Parlare con loro di cosa soffrono, che tipo di discriminazione subiscono all’interno della loro famiglia…»

Un altro caso riguarda come la frequentazione di una scuola segreta abbia impedito un matrimonio precoce.

«Una delle nostre studentesse di Jalalabad doveva sposarsi in giovane età, lei era contraria e voleva continuare a venire alle lezioni organizzate da Rawa. Così l’insegnante è andata a parlare con i membri maschi della famiglia e ha riferito che la ragazza non era pronta per questa proposta di matrimonio. Fortunatamente la famiglia ha accettato. All’interno dei nostri corsi e scuole segrete abbiamo molti di questi piccoli esempi di successi e di miglioramento della vita delle donne, e ciò ci dà molto coraggio per proseguire con le nostre attività.

Perché per quanto la notte possa essere buia, l’alba arriva sempre».

*Organizzazione sociopolitica indipendente che dal 1977 si occupa della tutela dei diritti delle donne afghane. Meena Keshwar Kamal, la sua fondatrice, fu uccisa nel febbraio del 1987 da agenti del Khad (il braccio afgano del Kgb) durante l’occupazione sovietica, tuttavia la sua lotta per le donne si è cristallizzata e continua tutt’ora tra le donne afghane, sebbene con modalità diverse.

 

 

Il piede oltre il chador della madre: la resistenza delle donne afghane

articolo21.org Daniela Meneghini 24 agosto 2025

Sono passati quattro anni dal 15 agosto 2021 quando i Talebani sono ritornati al potere in Afganistan. La loro prima azione è stata la sospensione della Costituzione e la messa in atto di politiche restrittive che hanno provocato la contrazione dei diritti umani. Prime vittime di queste restrizioni sono state le donne e le ragazze, a cui è stato vietato l’accesso all’istruzione, è stata preclusa la partecipazione alla vita pubblica, impedita la possibilità di viaggiare da sole, soppresse le loro libertà fondamentali.
In questi anni l’Afganistan ha dovuto affrontare una crisi umanitaria e socio-economica che ha stremato le fasce più deboli e fragili della popolazione, ridotta ad una povertà estrema. A queste condizioni di estrema vulnerabilità si sono aggiunti gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici con fenomeni estremi provocati da inondazioni, terremoti e altro.
Sul piano politico, con il ritorno dei Talebani al potere, ha acquistato sempre più potere il Ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio, mentre è stato smantellato il Ministero per gli Affari femminili. Il risultato di tutto ciò è un controllo capillare e violento sulla società civile e in particolare sulle donne.
Negli ultimi tempi, i Talebani hanno intensificato il controllo e la repressione sulle donne, con quella che è stata definita «l’apartheid di genere», con decine di donne arrestate per «violazione dell’hijab». Non solo, attraverso le reti clandestine delle donne appartenenti alle associazioni afghane, arrivano racconti e notizie allarmanti di arresti arbitrari di numerose donne da parte della “polizia morale”, donne trattenute senza assistenza legale, senza contatti con i familiari, senza assistenza medica.
Sono azioni vessatorie che nulla hanno a che fare con le scelte religiose, bensì esprimono il predominio patriarcale maschile per mettere a tacere e cancellare le donne dalla società civile. Criminalizzandole per il loro modo di vestire non conforme alla hijab, i Talebani intendono sancire con la forza che le donne non appartengono alla sfera pubblica pertanto devono restare segregate (murate vive) dentro le pareti domestiche. Un sistematico smantellamento dei diritti delle donne che include il divieto di istruzione per le ragazze oltre i nove anni d’età, il divieto per le donne di lavorare con le ONG e le organizzazioni internazionali e dure restrizioni nella possibilità di movimento.
Come già abbiamo avuto modo di scrivere in questa rubrica quattro anni fa (vd. Dalle parte delle donne afgane, agosto 2021), è importante tenere aperti i riflettori e tenere viva l’attenzione sulle condizioni di vita delle donne afgane. Lo facciamo attraverso il contributo di Daniela Meneghini che ha curato un’iniziativa editoriale per dare voce alle donne dell’Afganistan.
Daniela Meneghini è docente di lingua e letteratura persiana all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Dopo gli studi in Italia (Venezia e Napoli) e in Iran (Teheran e Mashhad), ha svolto ricerche sulla lirica persiana classica anche in prospettiva comparativistica. Al contempo si è interessata di letteratura contemporanea dell’Iran e dell’Afghanistan, e ha approfondito questioni di traduzione come fenomeno complesso di recezione. Insegnando da oltre trent’anni nei corsi di lingua persiana, ha collaborato con diversi progetti di glottodidattica e pubblicato con la collega P. Orsatti una nuova grammatica della lingua persiana (Corso di lingua persiana, Hoepli 2012). Ha pubblicato libri e articoli scientifici, curato traduzioni di opere persiane, sia classiche (Khosrow e Shirin di Nezami Ganjavi, XII sec.) che contemporanee (due libri di Hushang Moradi Kermani) e realizzato con A. Martoni il commentario di un manoscritto persiano del XVII secolo conservato alla fondazione Cini di Venezia (Panj ganj. I Cinque Tesori di Neẓāmi Ganjavi della Fondazione Giorgio Cini, Mandragora 2022). Negli ultimi due anni si è dedicata alla cura della traduzione in italiano di trentasei testimonianze di attiviste afghane (Fuorché il silenzio. Trentasei voci di donne afghane, Mimesis-Jouvance 2024), cercando di mantenere viva l’attenzione di lettori e studenti sulla questione dell’«apartheid di genere» in Afghanistan. Attualmente sta lavorando alla traduzione del Makhzan al-asrar (Lo scrigno dei segreti), il poema filosofico del quintetto di Nezami Ganjavi. (A.C.)

 

Il piede oltre il chador della madre: la resistenza delle donne afghane

di Daniela Meneghini

La storia dell’Afghanistan è una storia di enorme complessità in cui la questione femminile emerge in modo drammatico, ignorata o strumentalizzata con le finalità più varie e diversi gradi di opportunismo. Questo numero di agosto – «Dalla parte di lei» – va a coincidere, con soli pochi giorni di ritardo, con il quarto anniversario della presa di Kabul da parte dei talebani; era il 15 agosto 2021 e si apriva un nuovo capitolo nella storia delle donne afghane.
Le immagini della presa di Kabul, del terrore dilagante, non solo nella capitale ma in tutte le città del territorio afghano su cui i talebani riprendono il controllo (solo la regione del Panjshir resisterà ancora per qualche settimana), e della tragica corsa all’aeroporto per coloro che temevano le ritorsioni del nuovo regime, sono ancora vivide nella mente di chi voglia ricordare. A quelle scene di grande effetto mediatico seguì tuttavia uno sfilacciarsi dell’attenzione da parte dei media, contemporaneamente all’affermarsi, laggiù, di norme e di leggi funzionali a una rinnovata apartheid di genere nei confronti delle donne, di tutte le età. I primissimi provvedimenti del nuovo governo, infatti, andarono a colpire i diritti delle donne e delle bambine con una velocità che dice molto sulla visione del mondo e della politica che da quel momento avrebbe caratterizzato il nuovo potere. Il ministero per gli Affari femminili istituito durante il ventennio di occupazione Nato si trasforma nel Ministero per la promozione della Virtù e la prevenzione del Vizio che assume il compito di redimere la società, dopo i vent’anni di occupazione occidentale e dunque di presunta perdita dei valori dell’islam e della cultura tradizionale afghana. Tale ‘purificazione’ passa innanzitutto per la volontà di controllare le donne, i loro diritti, la loro libertà: le bambine non potranno studiare oltre la scuola elementare (9 anni); le donne non potranno più lavorare, né uscire di casa o viaggiare senza essere accompagnate da un mahram (padre, fratello, figlio o marito); non potranno frequentare parchi, palestre, nessuno spazio pubblico; la loro voce non dovrà essere udita al di fuori delle mura domestiche, i loro passi dovranno essere silenziosi (sono interdetti i tacchi) e le loro figure non dovranno essere neppure intraviste dalle finestre di casa che – secondo una norma recente – devono essere murate; verrà nuovamente abbassata l’età del matrimonio per le ragazze e l’accesso alle cure mediche subordinato alla volontà dei familiari maschi. Le conseguenze fisiche, psicologiche e sociali di queste leggi non sono facilmente immaginabili, ma le ripercussioni dell’esclusione di metà della popolazione dalla vita economica e civile del paese non sembra interessare il nuovo governo che persegue la sua strada per sradicare, con ancora maggior acribia rispetto al primo emirato (1996-2001), la presunta corruzione morale portata dall’occupazione occidentale, così come era stato più o meno pretestuosamente quarant’anni prima, dopo l’invasione sovietica del paese (1979-1989), cui aveva fatto seguito una sanguinosa guerra civile tra mujaheddin e talebani.
Ma nei vent’anni (2001-2021) che hanno preceduto l’instaurarsi del secondo emirato dei talebani, benché in modo contraddittorio (spesso con la legge che permette e la famiglia che proibisce) e a costo di enormi sacrifici personali, molte donne afghane – tra insicurezza materiale, attentati continui, guerra di occupazione e guerra civile – avevano avuto la possibilità di studiare, di andare all’università, di trovare un lavoro, di veder riconosciuti, almeno dalla legge, alcuni diritti fondamentali. Molte donne che sono cresciute in quel ventennio, che sono arrivate ‘istruite’ alla ri-presa del potere da parte dei fondamentalisti pashtun, non tacciono, non subiscono in silenzio, non si arrendono alla paura e neppure alla tortura. Abbiamo una straordinaria testimonianza di questa resistenza attiva delle donne afghane in un volume in lingua dari (una delle due lingue ufficiali dell’Afghanistan insieme al pashtu) pubblicato nel giugno del 2023 in Danimarca da Zainab Entezar e Asef Soltanzadeh dal titolo: Azadi seda-ye zanane darad (La libertà ha voce femminile). Zainab Entezar, giovane regista e scrittrice afghana (nata nel 1994), mentre era ricercata dalla polizia e dunque in latitanza a causa dei video che girava durante le proteste, ha raccolto testi autografi e interviste, affidandone poi la redazione e la pubblicazione a uno scrittore e intellettuale afghano esule in Europa, Mohammad Asef Soltanzadeh, per non rischiare che questa pagina di storia andasse perduta. Il loro libro contiene trentasei testimonianze di attiviste afghane, raccolte fra l’agosto del 2021 e la primavera del 2022, momento in cui i talebani riescono a soffocare con la violenza fisica, il carcere, le ritorsioni e le minacce alle famiglie, le proteste pubbliche delle donne, organizzate lungo i viali e sulle piazze delle maggiori città del paese: Kabul, Herat, Mazar-e Sharif, Farah…

Il volume, la cui prima traduzione è in lingua italiana col titolo Fuorché il silenzio: trentasei voci di donne afghane (Milano, Mimesis – Jouvance, 2024), documenta dunque la resistenza delle donne al ri-affermarsi sulle loro vite della politica di segregazione e di persecuzione (apartheid di genere) dei talebani. Dopo l’evacuazione definitiva dell’esercito statunitense e degli alleati, dopo la farsa degli accordi di Doha, in cui la garanzia da parte talebana di non dare spazio sul proprio territorio ad organizzazioni terroristiche fa accettare a un ipocrita occidente l’ennesima cancellazione dei diritti delle donne, le donne afghane si vedono per l’ennesima volta tradite e ridotte in una condizione inaccettabile, vittime della logica puramente mercantile dei rapporti internazionali. Ma allungano il piede fuori dal chador delle loro madri e non accettano di tornare mute.
Le attiviste afghane, quelle che hanno manifestato dentro i confini del loro paese, sono donne il cui nome non dice nulla: non hanno vinto premi e non sono ascese alle cronache internazionali, non sono state deputate o giudici nei precedenti governi, né leader della diaspora afghana buone da intervistare in ogni occasione; ma sono donne che hanno compiuto azioni di enorme coraggio, esponendosi consapevolmente in nome di una vera integrità morale alle violente conseguenze che le loro proteste comportavano. Il carcere, le torture, le confessioni forzate, le intimidazioni: nulla è stato loro risparmiato. Di alcune di loro si sono perse le tracce dopo l’arresto, di altre sappiamo che sono rifugiate in Pakistan, in Iran, o che hanno avuto rifugio politico in Germania, in Francia o in Canada; altre ancora continuano a restare nel loro paese, vivendo nella paura ma senza arrendersi. Tutte cercano di restare in vita – in una condizione che sia degna di questo nome – con margini sempre più esigui di azione e con rischi enormi: facendo scuola in casa, organizzando circoli di lettura e scuole online, scambiandosi libri, cercando spiragli di visibilità per non essere dimenticate, per denunciare la loro condizione, per essere ascoltate. Tutto, fuorché il silenzio.
Le storie delle donne afghane, soprattutto quando si attinge direttamente alla loro voce senza il filtro di interpretazioni stereotipate, non colpiscono solo per l’enorme fatica che raccontano ovvero di essere donne in un contesto patriarcale e violento, ma soprattutto perché esprimono una grandissima forza nel lottare per la propria emancipazione e indipendenza, testimoniano una speranza incrollabile dettata da condizioni disperate, e un senso di responsabilità verso il futuro che vogliono (e che si impegnano perché di fatto sia) diverso dal passato, per le prossime generazioni, per le loro figlie e i loro figli. Incarnano una determinazione che va oltre le loro esistenze.
Le testimonianze che leggiamo di queste giovani attiviste (con età comprese fra i 25 e i 40 anni) riferiscono di estrazioni sociali, di condizioni economiche e di contesti culturali diversi. L’Afghanistan è un paese molto complesso anche dal punto di vista etnico – pashtun, hazara, tajiki, uzbeki, baluchi, ecc – e religioso – sunniti i pashtun, sciiti gli hazara, presenza di minoranze indù e sikh … – e diverse dunque sono anche le storie (emigrazione, compromissione con il regime, resistenza armata, discriminazioni e ingiustizie) e la mentalità delle famiglie che le donne hanno alle spalle: alcune famiglie più aperte sostengono le loro richieste di libertà, altre invece cercano di imporre e mantenere, anche con la violenza, un modello patriarcale di subordinazione. Non c’è un riferimento omologante: quando le ascoltiamo davvero, le loro storie sono sempre diverse e impredicibili. Ciò che le unisce e che al contempo le rende uniche – perché unico è il contesto in cui si muovono – è la condivisa ricerca della libertà e l’impossibilità di sottrarsi alla lotta per ottenerla.
Quando parlano di sé, le donne afghane partono quasi sempre dalla prima infanzia perché già quella è stata per loro una fase difficile in un paese dove per oltre quarant’anni si è cresciuti con la guerra, la violenza e la paura, e dove la nascita di una bambina spesso è vissuta come una disgrazia. Non va dimenticato che dal 1973 l’Afghanistan non conosce una pace duratura, ha vissuto continui conflitti politici, etnici, religiosi e antimperialistici. Su tale sfondo, che le precede nel tempo ma le condiziona pesantemente nel presente, le donne afghane raccontano le loro storie dure, continuamente ostacolate da una mentalità maschilista (familiare e sociale) che nega loro il diritto a una soggettività libera; esse narrano, però, anche la forza di opporsi con ogni mezzo a quegli ostacoli e poi a un arretramento di quanto guadagnato fino al 2021, pur nella lucida consapevolezza della solitudine in cui si muovono.
Oggi, molte donne afghane sentono l’impossibilità di ritornare a vivere in una condizione che le neghi come esseri umani, che le riporti ad essere solamente figlia di, sorella di, madre di, moglie di, perfino nipote di…; sentono la responsabilità verso le proprie famiglie ma soprattutto verso le generazioni a venire. Se si pensa alle continue restrizioni imposte dai talebani, tra cui la inaccettabile impossibilità di essere curate da altre donne visto che è stato negato alle ragazze il diritto di accedere a studi superiori e dunque di diventare dottoresse, infermiere, ostetriche, in un paese che vede il più alto tasso di mortalità per parto; se si pensa alla segregazione sempre più stretta e al conseguente annientamento psicologico (l’Afghanistan è uno dei paesi col tasso più alto di suicidi fra le donne e di depressione fra le ragazze), la forza che le donne devono esercitare per non soccombere è titanica. Non tutte la possiedono, ma chi la possiede prende per mano le altre e cerca di fare la propria parte. Le donne consapevoli si preparano a rispondere alle domande che in un futuro non lontano verranno loro rivolte: “Perché voi donne di quei giorni avete sopportato condizioni simili? Se non l’aveste fatto la nostra condizione attuale non sarebbe tanto drammatica!”. E rispondono: “Non vogliamo che le nostre figlie siano in catene. Noi stesse non vogliamo rimanere in catene. Non accusiamo le generazioni di donne che hanno tollerato le limitazioni imposte […]. Parliamo solo per noi stesse. Ci ribelliamo a queste leggi e non tolleriamo alcuna forma di oppressione. Faremo tutto ciò che riterremo giusto fare contro i talebani” (Marziya Mohammadi p.84).
“Quando pensiamo alla libertà e al benessere delle generazioni future, credetemi, le minacce e le persecuzioni che i talebani mettono in atto quando protestiamo, perdono del tutto il loro potere. La nostra lotta è buona e giusta perché con questa lotta otterremo la libertà, il bene più prezioso” (Nayera Kohestani, p. 142).
“La paura mi era estranea. Solo all’inizio, a Herat, per un momento la paura di lasciare orfane le mie figlie era stata una mia preoccupazione, ma poi mi ero detta che migliaia di bambini vivono senza madre. Ciò che ha importanza è il percorso della nostra vita, ed io avevo scelto il mio” (Shima Sediqi, p.111).
Analogamente a molti altri contesti attuali, sapere della condizione delle donne afghane porta a un senso di impotenza verso un destino su cui chi detiene il potere ha totale arbitrio. Eppure, prendere contatto con le ingiustizie e le discriminazioni quotidiane che costellano la loro vita, ascoltare le loro voci ha un senso. Ha un senso non dimenticare ciò che denunciano, ovvero la radice che si nutre di ignoranza, di tradizione e di una interpretazione distorta della religione a rafforzare un potere patriarcale che vuole tenerle in una condizione di totale subordinazione e inferiorità. Vedere (e ammirare) la loro paziente e incrollabile determinazione a studiare, anche di fronte a veti familiari, a matrimoni precoci, al disprezzo e alla prevaricazione vissute nelle scuole prevalentemente maschili, ha un senso. Queste voci di lotta disperata e di lucida consapevolezza vanno ascoltate e tenute nella mente e nel cuore: sono la parte migliore dell’umanità, sono la dimostrazione che il vero bene, che è bene per tutti, ha la forza di spingerci oltre noi stesse.
Queste donne non sperano in qualcosa dall’esterno perché hanno sperimentato il tradimento del loro stesso governo, che si è arreso senza combattere ai talebani e i cui vertici si sono messi al sicuro; hanno subito il tradimento internazionale che per interesse politico ed economico sta accettando a poco a poco i talebani come interlocutori (la Cina per prima ad accoglierne una rappresentanza diplomatica e la Russia poche settimane fa a riconoscerne il governo); conoscono anche il tradimento di donne all’estero che pretendono di essere le rappresentanti delle proteste e che invece si muovono per dimostrare che il governo talebano non è poi così orribile (Colloqui di Oslo). “Abbiamo la certezza di essere sole in questa lotta: tale comprensione e certezza sono il nostro punto di forza; dunque, non ci preoccupa il silenzio del mondo riguardo ai talebani” (Lina Ahmadi p.37).
La loro speranza sta nella potenza dei loro gesti, quelli grandiosi: “Divenne famosa nell’arco di una notte, per il celebre gesto che compì mentre leggeva la dichiarazione finale dopo una marcia di protesta delle donne: un talebano le aveva puntato la canna del fucile sulla spalla per impedirle di leggere; lei l’aveva spinta indietro con la mano, e aveva continuato la sua lettura” (Rokhshana Rizaei, p.401), e quelli minimi che riescono ad agire ora: “Ora ho cambiato metodo di lotta. Ho creato una specie di scuola domestica dove faccio lezione alle bambine e alle ragazze. Insegno che non è giusto che le scuole chiudano loro la porta in faccia. Imparano che i loro diritti sono pari a quelli degli uomini e che nell’emirato dei talebani non vengono rispettati i diritti della gente e i diritti umani in generale. Ho organizzato anche dei gruppi di lettura. Ci riuniamo fra noi donne, e leggiamo libri, ne discutiamo e li commentiamo. Le strade per raggiungere il nostro obiettivo, la libertà, sono tante” (Shiba Raufi, p.428).
Racconta Sabira Amini: “È questo che hanno fatto le manifestanti: hanno avuto l’intelligenza di capire che restare a casa a piangere per i diritti e le libertà perdute non era una soluzione per questa situazione drammatica. Non era neppure il momento di avere pazienza e sopportare, perché non appartenevano alla generazione delle loro madri e nonne. Pensavamo anche alle donne delle generazioni future: non dovevano trovarsi in un inferno chiamato vita, come la generazione delle loro madri” (p.323).
Dice Rokhshana Rizaei: “… per me era inaccettabile rimanere reclusa e impotente. Ero dalla parte della ragione. Lo sono tutte le persone oppresse da questa società e nel mondo” (p.411).
Con coraggiosa coerenza, le attiviste si espongono col loro nome e molte con la foto dei loro volti, per mostrarci che esistono e chiederci di far sentire la loro voce:
…Ecco, c’è un modo di guardare che è un esercizio della cura, dell’attenzione, e io credo che raccontare la vita di un’altra […] abbia a che fare con questo gesto. È come dire: “Guarda che non si dimentichi”, “Guarda che non passi senza contare nulla”, “Guarda che una vita non finisce con la morte, che non finisce quando finisce” (N. Fusini, Hannah e le altre, Torino 2013, p.143).

Una nazionale di calcio di donne afghane, nasce la speranza

Di fronte all’apartheid di genere cui sono sottoposte le atlete afghane, la FIFA dovrebbe cambiare le sue regole senza indugio e seguire l’esempio del Comitato internazionale cricket, il quale pone come requisito essenziale per la partecipazione degli Stati che questi abbiano sia la squadra maschile, sia la femminile. Senza questa volontà politica di cambiare le regole, si tratta solo di propaganda e i talebani sorridono perché vedono che la stessa FIFA – non una piccola federazione di sport cosiddetti “minori” – non è disponibile a cambiare le sue regole per rendere lo sport davvero inclusivo e senza discriminazioni di genere. Quindi, sulla scena internazionale le atlete afghane non saranno uguali alle altre atlete, anzi subiranno una doppia discriminazione.
O le federazioni credono nei principi e nei diritti sanciti nelle convenzioni internazionali, che riguardano anche il diritto allo sport come diritto umano, e quindi agiscono di conseguenza per impedire realmente ogni discriminazione. Oppure, non ritenendo importante che lo sport sia davvero inclusivo, scelgono politiche di riduzione delle discriminazioni ma mantenendole sostanzialmente in vita.
È giusto che le atlete afghane non possano partecipare appieno alle competizioni internazionali perché discriminate dal loro paese in quanto donne? No, non lo è.
È giusto che la FIFA non riconosca a delle atlete che subiscono tale discriminazione il diritto ad essere pienamente come tutte le altre atlete e gli altri atleti? No, non lo è.
Può la FIFA cambiare le regole? Certo che sì, basta che lo voglia. Ci vogliono azioni decise e radicali e non mezze azioni. (Red. Cisda)

Ansa, 1 agosto 2025

A Sydney si selezionano 23 rifugiate: ‘Occasione straordinaria’

Prima del ritorno dei talebani in Afghanistan nel 2021, la nazionale femminile di calcio era un simbolo per le donne.

Poi la messa al bando, il mancato riconoscimento da parte della Federcalcio afghana, la fuga per salvarsi la vita.

Lo scorso mese di maggio la Fifa ha riconosciuto la squadra delle rifugiate ed avviato una serie di iniziative per la selezione delle calciatrici attraverso tre camp, il primo dei quali si è tenuto a Sydney, in Australia – dove si sono rifugiate tante atlete – la settimana scorsa, sotto la guida dell’allenatrice Pauline Hamill. L’obiettivo è quello di formare una squadra di 23 giocatrici che parteciperà alle amichevoli approvate dalla Fifa alla fine di quest’anno, riportando così il calcio femminile afghano sulla scena internazionale anche se non in competizioni ufficiali. Dal 2018 le calciatrici afghane (una ottantina delle quali si è rifugiata in Australia) non disputano una partita ufficiale poiché la Federcalcio afghana non riconosce le squadre femminili, e la Fifa – in base alle sue regole – non può riconoscere ufficialmente le rifugiate come nazionale afghana, nonostante da più parti, Amnesty international in testa, si chieda un’eccezione per far partecipare una squadra di Kabul ai tornei internazionale ufficiali. Ma con la squadra in via di formazione a Sydney è la speranza a nascere “Essere una calciatrice mi ha dato la possibilità di essere qui. La mia vita è al sicuro – ha raccontato al sito Fifa Nilab, una delle calciatrici che ha partecipato alle selezioni di luglio – Ho molte opportunità. La mia voce è forte e il calcio aiuta me e le altre ragazze. Il calcio mi ha aiutato molto e mi ha fatto sentire libera in tutto. Il calcio ha qualcosa di speciale. Ci offre molte opportunità e sostegno”.

“Il mio obiettivo non riguarda solo me – ha continuato Nilab – Riguarda tutto l’Afghanistan, in particolare le donne e le ragazze. Questo progetto mi aiuta, mi sostiene e ci insegna come possiamo aiutarci a vicenda e come rappresentare il nostro paese”. “A un anno dall’impegno preso a Parigi, sono rimasto profondamente commosso nel vedere le prime immagini del camp di selezione dei talenti per la squadra femminile afghana di rifugiate e nel sentire quanto sia stata importante questa esperienza”, ha commentato il presidente della Fifa, Gianni Infantino. “Sono convinto che abbiamo compiuto un passo importante nella giusta direzione, offrendo a queste donne l’opportunità di giocare a livello internazionale, dando priorità alla loro sicurezza e al loro benessere – ha aggiunto – Questo fa parte della più ampia strategia della Fifa, che include il sostegno alle donne afghane in esilio, aiutandole a entrare in contatto con i percorsi calcistici esistenti, nonché il continuo impegno con le parti interessate per assistere anche quelle che si trovano in Afghanistan. Siamo orgogliosi di questo, di aver dato vita a questo progetto pilota, e il nostro obiettivo è quello di ampliarlo in futuro per includere anche donne di altri paesi”.

Attraverso la squadra femminile afghana di rifugiate, la Fifa intende rafforzare il legame tra le rifugiate e la loro terra d’origine, la loro patria d’adozione, lo sport e le altre giocatrici. Questi primi camp hanno lo scopo di selezionare e identificare le giocatrici che prenderanno parte alle partite amichevoli. Ma sono anche qualcosa di più dei tradizionali provini. Indipendentemente dal fatto che entrino a far parte della squadra, le giocatrici avranno accesso a una serie di servizi di supporto offerti dalla Fifa, oltre ai benefici e alla gioia di giocare a calcio.”È fantastico avere le giocatrici qui – ha commentato la selezionatrice, la scozzese Pauline Hamill – Ora abbiamo la possibilità di lavorare con loro e cercare di valutare le loro prestazioni, e tutte possono ritrovarsi in un ambiente di cui hanno sempre desiderato far parte. Penso che sia un progetto incredibile. Ha dato alle giocatrici la possibilità di esibirsi e giocare di nuovo insieme. Penso che creeranno ricordi che altrimenti non avrebbero mai avuto, e creare ricordi con la propria squadra è davvero speciale”.

La squadra femminile afghana di rifugiate darà alle giocatrici l’emozione di rappresentare il proprio Paese e di mantenere il loro attaccamento all’Afghanistan, mentre mettono radici più profonde e significative nelle loro attuali comunità. I provini di Sydney sono stati un segno ispiratore di progressi tangibili. Naturalmente, l’attenzione del mondo si concentra spesso sulle partite più importanti e sui nomi più famosi. Ma in fondo, il calcio è la libertà di riunirsi, giocare e competere. Il camp di selezione dei talenti in Australia è stata una celebrazione dello spirito puro del calcio.

Afghan Geeks: la rivoluzione silenziosa delle donne afghane che imparano a programmare in segreto

euronews.com 6 agosto 2025

Mentre i Talebani vietano studio e lavoro alle donne, un giovane rifugiato in Grecia insegna programmazione online a 28 afghane, aprendo loro una via verso l’indipendenza digitale
Da quando i Talebani sono tornati al potere nell’agosto 2021, le donne in Afghanistan vivono sotto un regime oppressivo: non possono lavorare, uscire da sole, frequentare ristoranti o proseguire gli studi oltre la scuola primaria.
Tra loro c’è Sondaba, una delle tante donne che hanno visto crollare ogni libertà. Ma in mezzo al silenzio e alla paura, ha trovato una finestra aperta sul mondo: un corso di programmazione online gratuito in dari, la sua lingua madre.

Un rifugiato, una missione

Dietro a questo progetto c’è Murtaza Jafari, 25 anni, rifugiato afghano arrivato in Grecia da adolescente su un barcone dalla Turchia. All’epoca non conosceva l’inglese, né sapeva come accendere un computer. Ma un insegnante gli ha aperto una porta: un corso di coding. Da lì, tutto è cambiato.
Oggi Murtaza è il fondatore di Afghan Geeks, una piattaforma che offre corsi di programmazione a distanza a donne in Afghanistan. A dicembre 2024, insegna a 28 studentesse, suddivise tra principianti, intermedie e avanzate, accompagnandole anche nella ricerca di stage e lavori da remoto.Dietro a questo progetto c’è Murtaza Jafari, 25 anni, rifugiato afghano arrivato in Grecia da adolescente su un barcone dalla Turchia. All’epoca non conosceva l’inglese, né sapeva come accendere un computer. Ma un insegnante gli ha aperto una porta: un corso di coding. Da lì, tutto è cambiato.
Oggi Murtaza è il fondatore di Afghan Geeks, una piattaforma che offre corsi di programmazione a distanza a donne in Afghanistan. A dicembre 2024, insegna a 28 studentesse, suddivise tra principianti, intermedie e avanzate, accompagnandole anche nella ricerca di stage e lavori da remoto.

Lavorare senza essere viste

Per molte di queste donne, il lavoro digitale è l’unica possibilità di reddito e autonomia personale. Le più esperte collaborano direttamente con Afghan Geeks, offrendo servizi di sviluppo web e creazione di chatbot. Jafari afferma di avere clienti in Afghanistan, Stati Uniti, Regno Unito ed Europa.
Eppure, dopo mesi di insegnamento, non ha mai visto i volti delle sue studentesse.
“Parlo con loro ogni giorno. So delle loro vite sotto i Talebani, della loro salute. Ma non ho mai chiesto loro di accendere la telecamera. Lo rispetto. È la nostra cultura. Ed è una loro scelta”, racconta Jafari.

Una rete di speranza, dietro gli schermi

Nonostante le barriere, il desiderio di imparare e costruire un futuro non si è spento. Afghan Geeks rappresenta più di un corso di coding: è una comunità, una forma di resistenza pacifica, una possibilità concreta di autodeterminazione.
“In Afghanistan le donne non possono studiare, non possono lavorare. Questo è il minimo che posso offrire come cittadino afghano”, dice Murtaza.
Nel silenzio imposto dalla repressione, lo schermo di un computer diventa il ponte verso la libertà. Una rivoluzione silenziosa, fatta di righe di codice e voci senza volto, ma con una determinazione che parla forte e chiaro.

L’Afghanistan fuori dal mondo

Enrico Campofreda dal suo Blog 3 agosto 2025

Hibatullah Akhundzada nell’unica, o quasi, immagine che circola sul suo conto con barba d’ordinanza e turbante bianco, a inizio settembre s’appresta a consolidare il quarto anno da guida suprema talebana. Ruolo da scrivere un po’ con la minuscola, niente a che vedere con la gerarchia vantata dagli sciiti iraniani. Eppure lui, sunnita, lo preserva accanto a quello della creazione del Secondo Emirato Afghano risorto il 15 agosto 2021. Quattro anni trascorsi e sembrano molti di più. Perché i media internazionali pronti in quell’infuocata estate a seguire ogni passo della dismissione del potere di Ashraf Ghani, premier inventato da Stati Uniti e Banca Mondiale, nel giro di qualche giorno dimenticarono Kabul e la sua gente, puntando gli obiettivi solo sulle truppe che mollavano la capitale, come aveva già fatto l’Armata Rossa (15 febbraio 1989), e in similitudine con la rotta statunitense da Saigon (30 aprile 1975). Uniche eccezioni gli scoop sui leader taliban che entravano a Palazzo, accomodati su poltrone vellutate e dorate, fra flash e puntuali dichiarazioni d’intenti e di programma rilasciate dall’uomo della comunicazione, da quel momento diventato celebre: Zabihullah Mujahid. Quasi subito partiva la cortina di ferro, informativa innanzitutto, perché dalla Casa Bianca si stabilivano i termini dell’isolamento e della punizione, tramite il blocco dei fondi nazionali, oltre nove miliardi di dollari tuttora fermi in alcune banche americane ed europee; mentre l’Occidente, smarrito sul terreno militare e politico, si prendeva la rivincita sostenendo la bontà delle sanzioni. Giustificate anche dall’ottusa linea di taluni ministeri ripristinati, quello della Promozione della Virtù e della Prevenzione del Vizio che ‘niqabava’ le poche donne mantenute in vista addirittura davanti alle telecamere d’una purgata tivù di Stato. Poi, mese dopo mese, cresceva lo stillicidio dei divieti: nessuna presenza fuori dall’abitazione senza l’accompagnatore (mahram o giù di lì), scuole proibite per le ragazze oltre i dieci anni, fino alla definitiva chiusura in casa senza contatti con l’istruzione e la società. Lo sport, la danza, la musica neanche a parlarne, tornavano tabù e continuano a esserlo…

Eccessi d’un ottuso deobandismo non solo religioso, ma politico e tribale che unisce claniche interpretazioni della Shari’a e del pashtunwali, su cui però, come vedremo, insistono differenze e diversità d’interessi fra boss del nuovo potere. Eppure anno per anno si scopre che i mullah dell’Emirato così isolati non restano. Sia per i fraterni contatti coi gruppi talebani presenti sul e oltre confine pakistano, sia perché il blocco del mondo che non guarda a Occidente per i motivi più vari (affari, geopolitica, fedi, tradizioni e tant’altro) non si fa congelare dalla Diplomazia con la maiuscola. Del resto quest’ultima, di cui appunto europei e statunitensi si fanno vanto, ha in alcune figure e soprattutto strutture (le varie Intelligence) il ‘Cavallo di Troia’ per dialoghi a tutto tondo. Infatti la politica americana, che ha scelto di ritirare gli scarponi dal terreno afghano in virtù di particolari accordi coi vituperati turbanti, non ha del tutto abbandonato le basi aeree create. Presenti sul territorio anche le agenzie delle Nazioni Unite, ormai snobbate e soffocate nel vicino Medio Oriente finito sotto il tacco d’Israele e che altrove risultano vive e attive, seppure con fondi e finanziamenti ridimensionati dalle imposizioni degli uomini soli al comando, come il quarantasettesimo inquilino dello Studio Ovale che dispone e indispone a suo piacimento in faccia al Congresso e pure alla Costituzione americana. Comunque l’Unama – istituita nel marzo 2002 con la risoluzione Onu 1401 – forse a parziale conforto della guerra dichiarata sei mesi prima dal quarantatreesimo presidente Usa, prosegue un’azione d’assistenza a una popolazione rimasta povera e assillata da una difficile sussistenza. Nel 2024 l’agenzia ha calcolato 23,7 milioni di afghani, e 3 milioni di bambini, bisognosi d’aiuto per la nutrizione quotidiana, una falla ingigantita proprio dai tagli economici internazionali e dalle più recenti contrizioni: dei tre miliardi di dollari necessari erano giunti solo 650 milioni. Un castigo per i cittadini, non per gli apparati gestiti da taliban e accoliti.

Per quello che s’è visto da almeno quattro decenni e che si continua a osservare, escludendo le emergenze di guerra, fame e malattie, una delle crisi che coinvolgono le famiglie locali con ricaduta sulla comunità internazionale è la migrazione forzata. Tentativi d’espatrio fra i giovani che cercano una salvezza con la grande fuga verso un loro occidente espanso che va dall’Iran, solitamente visto come primo approdo e terra di passaggio, alla Norvegia. Sebbene la Fortezza Europa abbia innalzato muri visibili e impercettibili fatti di doganieri armati e incanagliti da nuove regole non più accoglienti volute da molti Stati membri e dalla stessa istituzione di Bruxelles. Oppure più semplici rifugi, dopo percorsi relativamente brevi verso Islamabad o Peshawar, già negli anni Ottanta ciclopici campi profughi per milioni di fuggitivi dalle stragi dei Signori della Guerra. Lì generazioni di bambine e bambini afghani arrivavano, crescevano sotto le tende e le stelle, fra stenti e ristrettezze diventavano adulti e a loro volta genitori. Vite sigillate in un tempo sospeso. I pochi viaggi sicuri di profughi e rifugiati, tuttora in atto, ruotano attorno a iniziative di solidarietà, come i ‘corridoi umanitari’ italiani progettati dalla Federazione delle Chiese Evangeliche e dalla Comunità di Sant’Egidio in collaborazione col ministero degli Esteri. A inizio luglio proprio quest’ultima ha condotto nel nostro Paese oltre un centinaio fra componenti familiari e singoli individui, tra loro quaranta minori. Si tratta comunque di profughi che, dalla fuga in Pakistan dopo l’arrivo dei taliban, stazionavano a Islamabad vivacchiando alla meno peggio. Con l’Emirato non esistono protocolli in atto per simili uscite sia per l’assenza di rapporti ufficiali sia perché sicuramente i permessi verrebbero negati, la nazione non si priva dei suoi abitanti. Mentre degli allontanamenti successivi alla presa talebana di Kabul, compiuti anch’essi in aereo da amministratori e collaboratori dei governi Karzai e Ghani, che riparavano all’estero coi familiari, già al momento si sapeva o s’intuiva passassero per il benestare prima che dei turbanti dei ‘signori della guerra Nato’. Salire sui C-17 Globemaster in decollo o provare ad aggrapparsi alle ali precipitando tragicamente nel vuoto, come si vide fare a decine di disperati a ridosso di quel Ferragosto, segnava il confine fra la speranza di chi otteneva il benestare all’espatrio e l’angoscia suicida di chi lo vedeva negato.

Successivamente un errore informatico d’un militare britannico, che inviava una lista teoricamente top secret a un attivista per la ricollocazione di afghani, invischiati con le missioni Nato per appartenenza alle forze di Sicurezza o in qualità di semplici soldati dell’Afghan Defence Army – come rivela in questi giorni il quotidiano britannico The Times – da una parte metteva a repentaglio l’incolumità delle persone elencate, dall’altra confermava che le evacuazioni salvifiche erano programmate per queste categorie di cittadini. Oggi l’Unama gestisce altre precarietà, riguardanti i rimpatri che gli ultimi meno morbidi governi pakistani impongono all’Emirato. Quest’ultimo in parte tratta, poi nicchia oppure accetta e fa orecchie da mercante perché dovrebbe contribuire a sfamare un’infinità di bocche. “Quello che dovrebbe essere un momento positivo di ritorno a casa per le famiglie fuggite dai conflitti decenni addietro è segnato da esaurimento, traumi e profonda incertezza” ha affermato a metà luglio Roza Otunbayeva, portavoce del Segretario generale per l’Afghanistan in visita al valico frontaliero di Islam Qala. Ci sono già state altre grida di dolore, Naseer Ahmad Andisha, rappresentante permanente dell’Afghanistan presso le Nazioni Unite a Ginevra, esplicitamente parla della necessità d’un rinserimento del Paese nell’alveo della Comunità Internazionale. Un bel busillis. Andisha è un uomo d’apparato degli organismi internazionali. Nato nell’area di Kapisa fra le province del Panshir e Laghman, s’è formato fra l’Australia e il Texas, è stato ambasciatore, direttore presso la Divisione di Cooperazione Economica nel lasso temporale delle ‘sperimentazioni di democratizzazione’ del suo Paese, quando i chiacchierati esecutivi Karzai e Ghani hanno inanellato mancanze, ruberie e poi inciuci con fondamentalisti del calibro di Fahim, Khalili, Hekmatyar, Dostum fatti ministri e vicepresidenti. Forse anche per questo mister Andisha sa che in Afghanistan non c’è un prima e un dopo, e che meschinità e soprusi trovavano alloggio nelle stanze d’un potere imposto dalle missioni Nato e dai suoi propagandisti, le stanze ora occupate dai talebani.

I fedeli che continuano a pregare in moschea, chi va al mercato a vendere e comprare povere cose, chi sente scorrere il tempo nelle casupole avvinghiate sulle colline d’una capitale soffocata e assetata (oltre sei milioni gli abitanti e pozzi di pescaggio dell’acqua sempre più invasivi a fronte di scarse precipitazioni), intravvede nel raggiunto biancore della propria chioma un abbandono costante, ultimamente accresciuto dal volere mondiale. Ma la mano tesa è contestata da altre realtà, radicate o effimere. Potenti o rappresentative solo sulla carta. Gli esempi vengono dall’ex mujaheddin a lungo governatore della regione di Balk, Atta Muhammad Noor, già sodale di criminali di guerra come Dostum e Massud e ora all’opposizione col gruppo Jamiat-e Islami, e da un ‘Movimento per la libertà delle donne’ i cui contorni risultano vaghi oltreché soffocati da minacce e repressione. Entrambi hanno espresso contrarietà al piano Unama, denominato ‘Mosaico’, sostenendo che fornirebbe all’Emirato un sollievo e un riconoscimento in linea coi colloqui in corso a Doha fra venticinque nazioni interessate a normalizzare i rapporti coi talebani. Una mossa, affermano i detrattori, che non aiuta la popolazione ma solo chi controlla oggi Kabul e le province. In aggiunta, quella parte di mondo che continua a voltare le spalle all’ipotesi d’apertura ai sodali di Akhundzada ricorda che costoro hanno tradito ogni buona intenzione in fatto di diritti civili e di genere, hanno accresciuto le discriminazioni verso le donne d’ogni età prospettando un oscuro ritorno alle pratiche del mullah Omar. Così alcune storiche attiviste provenienti dall’humus politico del Revolutionary Association Women of Afghanistan, come le ex parlamentari Malalai Joya e Belqis Roshan, per ragioni d’incolumità sono da tempo riparate all’estero. Le loro sorelle di lotta proseguono forme d’aggregazione con scuole e rifugi per donne, tutti clandestini e ad altissimo rischio di repressione. Dal canto suo la settantasettenne Mahmouba Seraj, fondatrice dell’Afghan women’s network e di recente in odore di candidatura al Nobel per la pace, è convinta che coi taliban bisogna parlare. Per non restare in bilico e in sostanza fermi, come nella prima fase del cambio di regime, i partecipanti agli incontri di Doha (fra cui spiccano sauditi, emiratini, i padroni di casa qatarioti, ma anche le potenze regionali turca e pakistana) assieme ai funzionari Onu seguono un percorso a tappe, cadenzato punto su punto attorno a particolari tematiche, ad esempio narcotraffico e terrorismo.Nel 2020 s’era iniziato a discorrere di droghe, rispetto alle punte di produzione afghane d’oppio e metanfetamina in un mercato immenso che proprio in Occidente mostra una richiesta copiosissima. Nel 2022 la produzione risultava crollata del 90% per poi risalire in base agli interessi dei cartelli del narcotraffico che, a detta dell’agenzia Unodoc, mette in relazione territori di produzione come l’Afghanistan e il Myanmar con aree di trasformazione (Messico), peraltro specializzata in ogni genere come accade con la coca e gli oppiacei sintetici, fentanyl e simili. Sarebbe interessante mettere a confronto il purismo moraleggiante dei turbanti, contrari (a parole) a sostenere il lucrosissimo mercato con le posizioni dei giganti del mondo capitalistico, Stati Uniti e la stessa Cina, solo teoricamente impegnati a stroncare tale commercio che invece galoppa nonostante i buoni propositi di tutti. Perciò sul narcotraffico i dialoghi vivono una schizofrenica scissione fra teoria e realtà. Tendenza presente anche attorno alla questione del rifugio territoriale al terrorismo internazionale. Secondo l’ultimo rapporto dell’Ispettorato speciale generale per la ricostruzione dell’Afghanistan (ennesima struttura creata dal 2002 attorno a politiche estere, militari e affaristiche statunitensi) in diverse province afghane covano covi del jihadismo mondiale da Qaeda all’Isis-K. Leggendo il documento datato marzo 2025, indubbiamente dettagliato, viene da sorridere, poiché quando il Pentagono spingeva sulla Casa Bianca per eclissarsi da Kabul, portando a casa il grosso delle truppe lì impegnate e avviando la dismissione con la Resolute Support Mission, iniziava la battaglia interna fra talebani ortodossi e talebani scissionisti che avrebbero dato corpo alle milizie dello Stato Islamico del Khorasan. Che aggregava i primi elementi nella provincia di Nangarhar per poi espandersi a sud e ovest nell’Helmand e Farah. L’Isis-K cresceva in relazione al graduale tramonto del sedicente Daesh, sorto fra Siria e Iraq. E se per la cronaca dell’epoca, il triennio 2016-2019 è risultato il periodo più buio con stragi nelle moschee, nei mercati, fra la comunità hazara e indiscriminatamente per le strade della capitale quando brillavano auto e camion bomba, i due blocchi del jihadismo locale si combattevano a distanza per evidenziare chi controllava cosa da Kabul ai tradizionali territori della patria talebana, compresa Kandahar.

L’hanno spuntata gli ‘ortodossi’. Occupata la città-simbolo e il suo Palazzo la famiglia tradizionale talebana facente capo alla Shura di Quetta, dove sono accasati turbanti duri e puri ma considerati pragmatici, come l’economista Abdul Barader, hanno ratificato il compromesso con la rete Haqqani, figli e parenti del capostipite Jalaluddin, un fondamentalista vicino alla Shura di Peshawar e spesso in dissidio con le direttive centrali, comunque sempre indipendente per affari economici e azioni militari. Nel Secondo Emirato il suo erede Sirajuddin è diventato ministro dell’Interno, il fratello Khalil ministro dei Rifugiati (fino al 2024 quand’è morto in un attentato), il figlio minore e poeta Anas responsabile dell’Ufficio Politico. Appartiene alla famiglia anche il sessantottenne sceicco Hakim, oggi ministro della Giustizia. I rabbiosi Haqqani, dunque, sembrano placati dal dominio, sicuramente istituzionalizzati controllano punti nodali del governo e possono guardare dall’alto anche l’erede del mullah padre-fondatore, il trentacinquenne Mohammad Yaqoob che guida il ministero della Difesa. Ora dibattere a Doha se il clan talebano più organico al deobandismo (la madrasa Darul Uloom Haqqania dove alcuni di loro hanno studiato e si sono formati, sugellando anche la propria denominazione) lasci spazi o addirittura copra il terrorismo jihadista sul territorio afghano, è domanda da trilioni di dollari. Peraltro i membri Haqqani negherebbero ogni evidenza che del resto appare fittizia. Alle trascorse taglie sulla cattura di Sirajuddin (dieci milioni di biglietti verdi) da un anno il ministro oppone, e ostenta, visibilità estera. Se ne va negli Emirati Arabi, vede funzionari Onu e pure quegli statunitensi che gli pongono sulla testa il corposo riscatto senza che nulla accada. Incarna anch’egli quella geopolitica degli interessi che vince su quella dei buoni propositi. Del resto per incontrarsi in Qatar altri esponenti dell’Emirato (mullah Haq Whatiq, Muhammad Saqib) viaggiano, incrociano omologhi e dialogano. Sono il volto d’una normalizzazione strisciante. Mentre sulla vicenda di basi d’addestramento jihadista denunciato dall’Onu nelle province di Gazni, Zabul, oltreché in Nuristan, Kunar, Nangarhar, i corridoi d’infiltrazioni nelle incontrollabili Aree Tribali Federali e nel Waziristan hanno conosciuto per decenni un corposo scambio di visite. Il governo kabuliota vorrà tamponare quegli storici confini porosi? Forse. O invece no. Dipende dalle convenienze, da quel che accade a Islamabad. All’epoca del governo di Imran Khan (autunno 2021) che discorreva col leader pur incarcerato dei Tehreek-i Labbaik, che assieme ai Tehreek-i Taliban e ai Lashkar-i Taiba sono i più sanguinari jihadisti pakistani benvoluti dagli Haqqani, uno scambio di ‘vedute’ e favori con questi fratelli era possibile. Chi provava a squassare il neonato Emirato erano i ribelli del Khorasan, che ancora preoccupano i turbanti di Kabul. Bisognerà vedere chi i registi dell’instabilità occulta vorranno foraggiare e a chi la Comunità Internazionale vorrà tendere la mano.

 

 

I talebani avvertono i negozianti di Kandahar di non vendere alle donne senza velo.

amu.tv Ahmad Azizi 5 agosto 2025

Le autorità talebane di Kandahar hanno avvertito i commercianti che potrebbero essere incarcerati se vendessero prodotti a donne che non indossano l’hijab approvato dai talebani, secondo quanto riferito ad Amu da fonti locali.

L’ordine, pronunciato verbalmente la scorsa settimana da funzionari del Ministero talebano per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, si applica in particolare ai commercianti dei mercati moderni del quartiere di Aino Mina. Ai commercianti è stato ordinato di rifiutare completamente il servizio alle donne o di vendere solo a coloro che indossano ciò che i talebani ritengono un abbigliamento appropriato.

Diversi commercianti hanno affermato che la restrizione ha danneggiato le loro attività, poiché molte clienti ora evitano i mercati per paura di molestie o punizioni. “Le donne non osano più venire a fare shopping”, ha detto un negoziante. “Il mercato ha perso la sua vivacità”.

La direttiva fa parte di una più ampia serie di restrizioni imposte dal Ministero a Kandahar, che includono il divieto di accesso delle donne a ristoranti e luoghi di svago, l’obbligo di un tutore maschile nei luoghi di lavoro, il divieto di lavare i panni nei canali cittadini, l’obbligo di indossare l’hijab in tutti gli ambienti di lavoro, la chiusura di mercati e fabbriche riservati alle donne, il divieto di attivismo civile da parte delle donne e restrizioni per le donne che lavorano nei media locali. L’istruzione femminile rimane sospesa in tutto il Paese.

Le organizzazioni per i diritti umani hanno ripetutamente condannato le crescenti limitazioni imposte dai Talebani ai diritti delle donne, definendole sistematiche e abusive. I Talebani non hanno risposto alle richieste di commento sulle ultime restrizioni.

Afghanistan. Come cambiare la percezione senza cambiare la sostanza

Controinformazione CISDA, 30 LUGLIO 2025

Siamo quasi all’anniversario della presa del potere dei talebani del 15 agosto 2021, che ha portato in Afghanistan a una precipitazione dei diritti delle donne e delle condizioni di democrazia e di vita per tutti per la svolta estremamente fondamentalista che l’interpretazione restrittiva della Sharia dei talebani ha comportato.

In questi giorni il poco interesse che i media esprimono per l’Afghanistan si concretizza in una notizia che rimbalza praticamente uguale in tutti i brevi articoli che la narrano: esiste una nuova possibilità per le donne afghane rappresentata dalla ripresa del turismo, poichè a Kabul si possono fare tour gestiti da donne e rivolti alle donne. 

In realtà si tratta di un’unica esperienza di questo genere  e riguarda la visita al museo di Kabul  guidata da una giovane donna e fruita da un piccolo gruppo di straniere, tutte con il velo in testa ma, sorprendentemente – e la cosa salta agli occhi nel grigio panorama delle strade frequentate prevalentemente da uomini e da poche donne nascoste in lunghi vestiti neri – vestite con abiti colorati, come mostra un servizio di Rai News.it.

Significa che sta cambiando qualcosa nel fondamentalista e repressivo Afghanistan dei talebani? E’ proprio come la racconta il servizio di Rai News, che commenta il suo documentario con un giudizio positivo e quasi entusiasta sulla possibilità di “cambiare, un passo alla volta, la percezione del Paese”?

In realtà, l’ingenuo commento non afferra il vero significato di questi tour, e cioè l’interesse dei talebani di cambiare la percezione negativa che il mondo ha dell’Afghanistan senza cambiare la sostanza delle condizioni di segregazione e privazione dei più elementari diritti delle donne, che continua invece a essere raccontata da innumerevoli testimonianze e dalle più svariate fonti.

Permettere a una manciata di donne di usare un briciolo di libertà serve ai talebani per mostrare il presunto “volto umano” del loro governo, che invogli il resto del mondo al riconoscimento della “normalità” del loro sistema di governo, in realtà fondamentalista, violento, liberticida e di apartheid verso le donne.

Non si tratta, quindi, di avere il coraggio di sfidare i divieti, ma invece di essere strumento, più o meno consapevole, di un’operazione pubblicitaria di camuffamento della realtà.

Mentre si danno notizie di “novità” come questa, bisognerebbe sempre ricordare il contesto in cui avvengono, se si vuole davvero fare informazione.

Una schiava vestita da moglie

Avizha Khorshid, 8AM Media, 23 luglio 2025

L’amaro racconto di Mina sul matrimonio forzato e gli abusi dei talebani

Diverse donne e ragazze denunciano che, con le restrizioni imposte dai talebani e l’eliminazione dalla struttura governativa delle istituzioni di supporto alle donne, la violenza domestica contro di loro ha raggiunto livelli senza precedenti. Anche la violenza contro le donne all’interno delle famiglie dei combattenti talebani è stata ripetutamente documentata. Questo rapporto si concentra sulle condizioni di vita di una donna, sposata con la costrizione a un talebano per 400.000 afghani e successivamente sottoposta a gravi abusi fisici, fino alla perdita di conoscenza, che racconta una storia amara e dolorosa, affermando di essere trattata come una schiava sessuale.

Mina in passato era un’insegnante. Racconta che adesso i suoi sogni e la sua passione per l’insegnamento si sono spenti, e passa ore a fissare il muro, incapace di ricordare l’ultima volta che si è alzata in piedi. A volte si perde così tanto nei suoi pensieri da non sentire il pianto del suo bambino e la sua mente è sottoposta a una pressione così intensa che il suo cervello fatica a elaborarla.

Un tempo una donna sana, istruita e piena di speranza, ora è sull’orlo del collasso psicologico. I suoi occhi versano lacrime involontarie e la sua mente è sopraffatta dalla paura, dalla rabbia e da un pesante silenzio.

Il prezzo della sposa

Mina è nata in un piccolo villaggio nella provincia di Maidan Wardak, dove ha assaporato l’amarezza della solitudine fin dai suoi primi istanti di vita. Donna alta, con i capelli neri, la pelle color grano e gli occhi grandi, il suo aspetto emana una bellezza silenziosa. Il suo nome è legato all’affetto, eppure il suo destino è costellato di sofferenza e vulnerabilità.

Perse il padre prima di nascere, vittima di conflitti etnici. Sua madre, suo unico rifugio e speranza, morì poco dopo la sua nascita. Il destino affidò Mina allo zio e a sua moglie, che la consideravano non un essere umano, ma un mezzo per guadagnare denaro. Senza il suo consenso, la diedero in sposa a un membro dei talebani, ricevendo 400.000 afghani come prezzo della sposa.

Mina racconta che da quel giorno la sua vita divenne una schiavitù nella casa del marito, dove non riceveva né amore né rispetto. Sentiva ripetere più volte: “Ti abbiamo comprato per 400.000; non sei costata poco”.

Vivendo sotto il peso degli abusi domestici, Mina racconta che non le era nemmeno permesso mangiare con gli altri, doveva aspettare che tutti fossero sazi, sperando che rimanesse qualcosa per lei e, senza permesso, non poteva mangiare niente. “Anche se c’era molta frutta, dovevo aspettare che fosse infestata da mosche o vermi e che nessun altro la volesse: solo allora era il mio turno”. Quando parlava, veniva messa a tacere con insulti e violenza.

Sono passati tre anni dal matrimonio forzato di Mina. Ora ha un figlio di due anni ed è all’ottavo mese di gravidanza. Qualche giorno fa, quando il suo bambino aveva fame, gli ha dato un pezzetto di pane. Questo semplice gesto ha provocato l’ira della suocera, che ha preteso che il figlio, appena rientrato dal servizio, “insegnasse alla moglie a stare al suo posto” e le facesse capire di non agire mai senza permesso. Mina conferma che il marito l’ha picchiata così violentemente da farle perdere conoscenza. Il feto nel suo grembo è rimasto immobile per ore.

Il sospetto per la donna istruita

Donna istruita che un tempo aveva studiato scienze religiose e insegnato alle ragazze del suo villaggio, la sua conoscenza e la sua consapevolezza erano viste come una minaccia dalla famiglia del marito. La famiglia, non solo analfabeta ma profondamente radicata in credenze superstiziose e tradizioni umilianti, guardava con sospetto alla sua istruzione.

Mina sottolinea di aver studiato i principi islamici e di cercare sempre di reagire ai comportamenti ingiusti con calma e ragionevolezza, ma suo marito analfabeta si sente spesso inferiore e sminuito dalle sue parole. Perciò, per affermare il suo dominio maschile, si oppone anche alle sue osservazioni più semplici e a volte la picchia senza sosta e senza alcuna giustificazione, solo per affermare il suo controllo.

Discriminazione, povertà, umiliazione, violenza e solitudine hanno intessuto la vita di questa donna. I medici dicono che, a causa di numerose lesioni fisiche alla parte bassa della schiena, non riesce più a controllare la vescica. Però il suo vero dolore non risiede solo nel corpo, ma anche nello spirito ferito, che non è stato curato per anni, una ferita inflitta dalla crudeltà del suo destino. Eppure, Mina lotta con tutte le sue forze per la figlia di due anni e per il nascituro che porta in grembo, affrontando le difficoltà e le ingiustizie della vita, senza che la sua voce venga ascoltata da nessuno.

 

Poete afghane: la disobbedienza è una lotta

Somaia Ramish, Il Manifesto, 26 luglio 2025

Al Ju Buk Festival, nel borgo di Scanno, la poesia delle donne in Afghanistan, voci di resistenza, di lotta, di bellezza

La poesia delle donne in Afghanistan ha una lunga storia e si contraddistingue in momenti politici e sociali molto diversi: non solo espressione artistica di bellezza ma forma di lotta e disobbedienza che sfida una società dalla radicata tradizione patriarcale.

Rabi’a Balkhi (856) considerata la madre della poesia persiana, è una delle pochissime intellettuali a essere conosciuta con il suo vero nome, ancora oggi simbolo di libertà. La sua storia rappresenta la sfida contro l’oppressione e un continuo, duro, promemoria del prezzo che le donne afghane sono costrette a pagare per la loro libertà di parola e di scelta. Non potendo più scrivere liberamente verga i suoi versi col suo stesso sangue. Qui scrive: L’amore è un oceano con uno spazio così sconfinato/ Che nessun saggio vi nuota senza esserne ingoiato/ Un vero amante dovrebbe essere fedele fino alla fine/ E affrontare le correnti più respingenti.

Quando vedi le cose ripugnanti, immaginale pulite/ mangia il veleno, ma assaggia il dolce zucchero!

Nonostante le diseguaglianze sociali e l’oscurantismo culturale, costrette spesso a scrivere sotto falso nome – makhfie (Makhfi Badakhshi) è uno pseudonimo che significa «colei che è nascosta» – le donne afghane non si arrendono e continuano a utilizzare le proprie penne come strumento per opporsi alla discriminazione. La poesia è per loro consapevolezza, è femminismo, diffonde l’opinione delle donne su società, religione, cultura, politica. Divulgano i loro pensieri, nonostante le grandi sofferenze inflitte a chi non segue le oppressive regole patriarcali, mostrano di essere padrone del proprio destino.
Bahar Saeed (1956) simbolo della donna che scrive poesie erotiche, è una delle poete che ha rotto maggiormente i tabù, contro ogni norma sociale tradizionale, cantando la libertà del corpo da ogni costrizione. Versi che si oppongono all’esclusione delle donne afghane da ogni forma della vita sociale e politica. Una ribelle la cui poesia rifiuta la sottomissione e l’obbedienza.

Nadia Anjuman (1980-2005) che ha scritto Le mie ali sono chiuse e non posso volare, è stata assassinata nel 2005. Ad Herat, nel 1995, quando il regime talebano vieta per la prima volta l’istruzione femminile, frequenta un circolo letterario mascherato da scuola di cucito: la Goodle Niddle Sewing School, sotto la guida del professor Muhammad Ali Rayhab. Finito il regime si iscrive all’Università, e si laurea in Lettere nel 2002, pubblica una pregevole raccolta di poesia (Gul-e-dodi, Fiore di fumo), si sposa con un suo collega di università, laureato anche lui in Letteratura. Il marito la uccide poco dopo la nascita del loro primo figlio, perché ha osato declamare le sue poesie in pubblico. Aveva solo 25 anni. In Light Blue Memories, scritto settimane dopo la caduta dei Talebani nel 2001, si rivolge alle vittime del silenzio forzato e si chiede cosa succede quando si perde la propria voce. In nome di quale patriarcato siano ridotte a tacere.

A voi, ragazze isolate del secolo/ condottiere silenziose, sconosciute alla gente/ voi, sulle cui labbra è morto il sorriso/voi che siete senza voce in un angolo sperduto, piegate in due/ cariche dei ricordi, nascosti nel mucchio dei rimpianti/ se tra i ricordi vedete il sorriso/ditelo:/
Non avete più voglia di aprire le labbra/ma magari tra le nostre lacrime e urla/ ogni tanto facevate apparire/ la parola meno limpida.
Sono imprigionata in questo angolo/ Piena di malinconia e di dispiacere/ Le mie ali sono chiuse e non posso volare.

Maral Taheri (1980) è tra le più importanti e originali poetesse contemporanee. Ha passato la sua vita in esilio in Iran, dove si è occupata dei diritti delle donne. Dopo la caduta di Kabul e l’inizio del movimento «Zan, Zendeghì, Azadì» (Donna, Vita, Libertà) ha lasciato l’Iran e ora è rifugiata in Francia. Per molto tempo si è rifiutata di pubblicare per non sottostare alla censura in Iran e in Afghanistan. Collega l’amore, la sessualità, la guerra e l’esilio forzato con riferimento ai testi teologici dell’Islam. Oppone il suo rifiuto delle regole che sottomettono la donna e il suo corpo con un linguaggio diretto, e critico contro regole tradizionali e prestabilite.

Scrive: Non preoccuparti amore mio/ mio amore muto/ so bene come tradirmi/ è un’eredità culturale che viene dal mio paese/ sotterranea e originale/ come Dio!
Traditore ben vestito/ Compagno dei ladri e amico del gruppo/carovana/ E naturalmente non ci siamo inginocchiate/ Non è necessario essere sempre spontanea e leale/ Felice e semplice e timorata di Dio/ Abituarsi al dolore che ci ha raggiunto dal cielo/ Che altro può succedere?
Ciao, caro terzo mondo/ Amami/ Mentre spezzo semi di girasole per te nel cinema/ E bacia le mie labbra/ Fino a che mamma dà il permesso di farlo, pensa alle cicche di sigarette in camera mia/ Allahu Akbar/ Dio è 34 volte un grande idolo/ Con i seguaci attaccati alla statua russa…

In una società dove nascere femmina è di per sé un tabù, essere donna rappresenta una sfida…la disobbedienza è una lotta. Le poete, represse dalle famiglie e dalla società, torturate per aver scritto versi, continuano a lanciare la loro sfida contro le diseguaglianze, alle nuove generazioni, in una lotta millenaria che ispira e a dà speranza di cambiamento a tutte le donne del mondo.

Traduzione di Giorgia Pietropaoli