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Tag: Diritti delle donne

A Kabul, una giovane artista usa l’arte per dare voce al silenzio delle donne

amu.tv Sharif Amiry 8 giugno 2025

KABUL — In un paese in cui alle donne è stato impedito di accedere all’istruzione, al lavoro e alla libertà di espressione, una giovane artista si rivolge alla pittura e alla tela per parlare a nome di coloro che non possono più farlo.

Con colori audaci e pennellate decise, Amna Yousufi, una giovane pittrice di Kabul, afferma di usare la sua arte per documentare le lotte invisibili delle donne, dai matrimoni forzati alla perdita dello spazio pubblico.

“In questa opprimente oscurità, l’arte è la mia unica finestra: un modo per far sentire al mondo il dolore di cui non possiamo più parlare”, ha dichiarato in un’intervista.

Yousufi ha iniziato a dipingere molto prima del ritorno al potere dei talebani nel 2021, ma afferma che il suo lavoro ha assunto un’urgenza ancora maggiore dopo la presa del potere da parte del gruppo.

“Dopo che i talebani hanno preso il controllo dell’Afghanistan, ho capito che l’arte poteva essere uno strumento di resistenza, un modo per esprimere il dolore e le realtà che abbiamo troppa paura di dire ad alta voce”, ha affermato. “Questi dipinti sono diventati un linguaggio per le voci che sono state messe a tacere”.

Il suo lavoro riflette le esperienze vissute dalle donne afghane, ritraendo temi come la violenza domestica, il velo forzato e le restrizioni alla libertà di movimento e all’istruzione. Molti dei suoi soggetti appaiono senza volto o nascosti da veli, un motivo visivo che, a suo dire, rappresenta sia la cancellazione che la sopravvivenza.

“Questo è il mio messaggio a tutte le donne, in Afghanistan o altrove, che vivono nell’ombra”, ha aggiunto.

Sebbene le sue opere non possano essere esposte al pubblico a causa delle attuali restrizioni, alcune delle sue opere sono circolate silenziosamente online e tramite reti private. Attiviste per i diritti delle donne ed educatrici descrivono iniziative come quella di Yousufi come atti vitali di sfida e memoria.

Sotto il regime talebano, le rappresentazioni di esseri viventi – in particolare donne – sono state scoraggiate o addirittura vietate, e il gruppo ha definito le voci delle donne “awrah”, un termine usato per giustificare il loro silenzio negli spazi pubblici.

Tuttavia, Yousufi continua a dipingere – non per le gallerie, dice, ma per la memoria.

“Ogni linea, ogni colore”, ha detto, “è un modo per impedire che il nostro silenzio diventi permanente”.

I talebani minacciano le famiglie delle impiegate ONU nel tentativo di bloccare il loro lavoro, affermano le dipendenti

 

amu.tv Ahmad Azizi 7 giugno 2025

KABUL — Diverse donne impiegate dalle agenzie delle Nazioni Unite in Afghanistan affermano che i talebani hanno intensificato le minacce contro le loro famiglie nel tentativo di costringerle a lasciare il lavoro, sollevando allarme per la sicurezza degli operatori umanitari e il futuro delle operazioni di aiuto internazionale nel Paese.

In interviste con Amu TV, due donne – che hanno richiesto l’anonimato per motivi di sicurezza – hanno descritto molestie sistematiche, tra cui ripetute visite di individui affiliati ai talebani alle loro case. Hanno affermato che gli uomini hanno minacciato verbalmente di arresto e persino di morte se le donne avessero continuato a lavorare.

“I talebani hanno minacciato la mia famiglia, dicendo che se non avessi smesso di lavorare, non solo io, ma anche i miei parenti avremmo dovuto affrontare gravi conseguenze”, ha dichiarato una dipendente delle Nazioni Unite. “Alcune delle minacce sono state fatte direttamente, altre per telefono”.

Un’altra donna ha confermato che la sua famiglia era stata avvertita che i parenti maschi sarebbero stati ritenuti responsabili se fosse tornata al suo posto.

I talebani non hanno risposto alle ripetute richieste di commento su queste notizie.

La questione emerge mentre i Talebani continuano a imporre ampie restrizioni ai diritti delle donne, in particolare in materia di istruzione, lavoro e vita pubblica, da quando hanno ripreso il potere nell’agosto 2021. Mentre il regime ha impedito alla maggior parte delle donne afghane di lavorare per ONG nazionali e internazionali, al personale femminile delle Nazioni Unite erano state precedentemente concesse limitate eccezioni, sebbene anche queste tutele ora appaiano sempre più precarie.

“Quando i Talebani sono venuti nel nostro ufficio, eravamo terrorizzate. Ci hanno puntato le armi contro. Eravamo tutti sotto shock. Dopo di che, sono venuti a casa nostra diverse volte in abiti civili. Hanno avvertito mio padre e gli hanno fatto firmare un impegno, dicendo che se fossimo tornate al lavoro, avremmo potuto essere imprigionati e persino minacciati di morte”, ha dichiarato un dipendente dell’UNAMA.

Gli esperti di diritti umani affermano che queste minacce segnalano una crescente intolleranza anche nei confronti delle donne che lavorano nelle istituzioni internazionali. La pressione, avvertono, potrebbe ostacolare gravemente la fornitura di aiuti umanitari in un Paese in cui milioni di persone dipendono dall’assistenza per la sopravvivenza di base.

“Questo livello di intimidazione non solo viola il diritto internazionale, ma mette direttamente a repentaglio le operazioni umanitarie”, ha affermato un analista dello sviluppo che ha chiesto di rimanere anonimo data la delicatezza della questione.

Precedenti resoconti hanno espresso preoccupazioni simili. A fine maggio, l’Independent ha citato fonti a Kabul secondo cui uomini armati non identificati avevano seguito dipendenti ONU donne dai loro uffici alle loro case e costretto i familiari maschi a firmare impegni scritti e videoregistrati per impedire loro di tornare al lavoro.

Mentre i Talebani hanno sistematicamente smentito tali segnalazioni o si sono rifiutati di commentare, la crescente documentazione di molestie e minacce ha sollevato urgenti interrogativi tra le agenzie internazionali sulla sicurezza del loro personale femminile locale e sul futuro della loro presenza in Afghanistan nel suo complesso.

I turisti aiutano a mascherare l’oppressione delle donne da parte dei talebani in Afghanistan

8am.media Mohammad 29 maggio 2025

Donne e ragazze in Afghanistan accusano i turisti stranieri di insabbiare l’immagine dei Talebani, sostenendo che entrano nel Paese su invito diretto dei Talebani. Secondo queste donne, i turisti stranieri, cercando di attirare l’attenzione e godersi le loro esperienze di viaggio, ignorano deliberatamente la sofferenza e la privazione delle donne private di tutti i loro diritti umani. Sottolineano che la situazione reale delle donne in Afghanistan è molto più cupa di quella rappresentata dai media.

Diverse donne e ragazze in Afghanistan, che vivono sotto le oppressive restrizioni imposte dai Talebani, accusano i turisti stranieri, in particolare le turiste, di distorcere la realtà in nome del piacere e della sicurezza personale durante i loro viaggi in Afghanistan. Sostengono che questi turisti non solo ignorano le terribili circostanze che affrontano le donne, ma entrano anche nel Paese con il supporto diretto e l’invito dei Talebani.

Marwa, una donna che ha sperimentato personalmente le restrizioni imposte dai Talebani, afferma che i turisti stranieri, consapevolmente o inconsapevolmente, sono diventati parte della campagna propagandistica dei Talebani per normalizzare la situazione in Afghanistan. Sottolinea che molti di questi turisti, alla ricerca di “mi piace” e “commenti” sui social media, producono contenuti superficiali e banali, ignorando la sofferenza e le privazioni delle donne afghane e presentando l’immagine dei talebani come normale al mondo.

Marwa afferma: “Ciò che i turisti affermano non corrisponde alla realtà dell’Afghanistan odierno. L’Afghanistan è diventato una prigione per ragazze e donne, e i giovani migrano per sfuggire a questa situazione. Quando le donne straniere vengono in Afghanistan, vengono fornite loro delle strutture. Se non lodano loro questa situazione, chi lo farà?”

Sakina afferma che la vita di una donna in Afghanistan non può essere compresa semplicemente visitando edifici storici, luoghi di svago o mercati colorati. Aggiunge che, pur essendo consapevoli delle severe restrizioni imposte dai talebani, i turisti ignorano queste realtà nei video e nelle immagini che condividono dell’Afghanistan, presentando le condizioni del Paese in un modo che avvantaggia i talebani.

Sakina afferma: “Se i turisti stranieri non stanno insabbiando l’immagine dei talebani, perché, pur essendo a conoscenza dei divieti e delle restrizioni imposti alle donne dai talebani, si scattano foto con loro e parlano di sicurezza?”

Sottolinea che la caduta del precedente governo e la presa del potere da parte dei talebani hanno posto fine a oltre il 90% dei conflitti in Afghanistan, alimentati dagli stessi talebani, ma questo non equivale alla sicurezza generale del Paese.

Sajida, un’altra donna, considera il comportamento dei turisti stranieri un insulto al dolore e alla sofferenza delle donne afghane e le esorta a smettere di insabbiare l’immagine dei talebani. Afferma: “I talebani sfruttano la presenza di turisti stranieri per presentare un’immagine migliore e più accettabile di sé sui media globali. Per questo motivo, li trattano con gentilezza e forniscono tutti i servizi di viaggio necessari”.

Aggiunge: “I turisti stranieri, pubblicando immagini positive sui loro social media, ignorano la sofferenza delle donne afghane. Possono anche essere venuti per vedere l’Afghanistan e sperimentare qualcosa di nuovo, ma il loro comportamento normalizza i crimini dei talebani. Scattano foto e sorridono accanto a coloro le cui mani sono sporche del sangue del popolo afghano fino ai gomiti, e i cui crimini continuano ancora oggi”.

Nel frattempo, alcune attiviste per i diritti delle donne credono anche che l’ingresso dei turisti stranieri in Afghanistan sia meticolosamente pianificato per normalizzare la situazione sotto il regime talebano. Queste attiviste invitano la comunità internazionale a guardare oltre le immagini fabbricate e orchestrate e a riconoscere l’amara e dolorosa realtà della vita delle donne afghane e a reagire di conseguenza.

Roqia Saei, attivista per i diritti delle donne, afferma: “Le donne in Afghanistan non hanno libertà sociali o personali e vivono nelle peggiori condizioni psicologiche ed economiche. Non esiste alcuna istituzione che le sostenga. I talebani sono la causa principale di questa situazione, eppure, in una crisi così grave e terrificante, alcune turiste straniere, supportate dai talebani, si recano nelle province, scattano foto e video e descrivono la situazione come del tutto normale, sostenendo che la condizione delle donne afghane sia buona. Se affermano che la condizione delle donne è buona, perché i tassi di suicidio e femminicidio sono aumentati?”

In seguito alla diffusione di questi video, membri talebani e i loro sostenitori li hanno ripubblicati sui social media, presentandoli come simboli dei progressi e dei successi del loro governo. Tuttavia, accanto a questa narrazione, persistono dure realtà. In diversi casi, le forze di sicurezza talebane hanno arrestato e molestato turiste locali, in particolare giovani, perché avevano i capelli lunghi o non avevano la barba.

In precedenza, decine di turiste straniere avevano visitato l’Afghanistan, suscitando reazioni significative. Una di queste, Whitney Wright, nota attrice americana di film per adulti, si era recata nell’Afghanistan controllato dai talebani ed era stata accolta calorosamente.

Toyosi Osideinde, una turista britannica trentenne, ha affermato durante il suo viaggio in Afghanistan di aver avuto una relazione personale con un membro armato dei talebani. Ha descritto la sua esperienza, affermando di essere “sensibile e di sapere cosa fare”.

Secondo le statistiche dell’Autorità Nazionale di Statistica e Informazione dei talebani, nei primi due mesi del 2025 (21 marzo – 20 maggio), oltre 5.000 cittadini stranieri sono entrati in Afghanistan attraverso valichi di frontiera e aeroporti. L’agenzia ha riferito che 168 di questi erano donne, la maggior parte delle quali viaggiava per visitare siti storici e ricreativi.

Queste visite si verificano nonostante la maggior parte dei paesi e dei siti web di viaggi inserisca l’Afghanistan in cima alle proprie liste di “avvertenze di viaggio complete”, sconsigliando di viaggiare a causa della “situazione di sicurezza instabile”. Queste fonti sottolineano che i turisti che viaggiano in Afghanistan rischiano tutto e raccomandano vivamente di evitare di recarsi nel Paese.

Inoltre, autorevoli siti web di viaggi internazionali, tra cui il programma di allerta viaggi del Dipartimento di Stato americano, il programma di sicurezza viaggi della Nuova Zelanda e i ministeri degli Esteri di Regno Unito, Francia, Canada e Australia, hanno posto l’Afghanistan al livello di allerta viaggi più alto, sottolineando che i loro cittadini non dovrebbero recarsi in Afghanistan in nessuna circostanza.

Secondo le raccomandazioni di queste istituzioni, i turisti che viaggiano in Afghanistan corrono gravi rischi, tra cui insicurezza, attacchi terroristici, rapimenti, mancanza di servizi consolari e assenza di supporto diplomatico. Inoltre, le severe restrizioni alle libertà individuali imposte dai talebani aumentano il livello di minacce alla sicurezza contro i turisti stranieri, creando opportunità per il loro sfruttamento.

“Afghanistan. Sharia. Donne”: l’evento di Med-Or con Maria Bashir

med-or.org 27maggio 2025

Nella sede della LUISS Guido Carli di viale Pola si è svolto l’evento promosso da Med-Or Italian Foundation con Maria Bashir

Lunedì 26 maggio, alle ore 15:00, presso la Sala delle Colonne della sede LUISS di Viale Pola si è tenuto l’evento dal titolo “Afghanistan. Sharia. Donne. Una straordinaria testimonianza”, promosso dalla Med-Or Italian Foundation in collaborazione con la LUISS School of Government.

Un incontro per riflettere sulle condizioni delle donne afghane sotto il regime talebano e sulla forza di chi continua a lottare per la giustizia, anche dall’esilio.

L’iniziativa è stata aperta dai saluti del Prof. Gaetano Quagliariello, Dean della Luiss School of Government. Sono seguiti gli interventi del Presidente della Med-Or Italian Foundation, Marco Minniti, dell’avvocato Federica Mondani, consigliere del ministro della Difesa, e di Maria Bashir, prima donna a ricoprire il ruolo di Procuratrice Capo in Afghanistan.

Figura simbolo dell’emancipazione femminile in uno dei contesti più difficili al mondo, Maria Bashir ha dedicato la propria vita alla difesa dei diritti delle donne, sfidando apertamente il regime talebano. Magistrata di fama internazionale, ha proseguito la sua attività educativa anche durante i periodi di repressione, offrendo insegnamento clandestino alle giovani ragazze. Costretta all’esilio dopo il ritorno dei talebani nel 2021, oggi vive tra Italia e Germania e continua a battersi come attivista e punto di riferimento globale per la promozione della dignità e dell’uguaglianza.

L’evento ha rappresentato un’occasione unica per ascoltare la testimonianza diretta di una donna che, con coraggio e determinazione, ha sfidato la paura per dare voce a chi non può parlare.

 

Il leader talebano dichiara che l’obbedienza ai suoi ordini è “obbligatoria” nel messaggio dell’Eid al-Adha

amu.tv Ahmad Azizi 4 giugno 2025

Il leader talebano Hibatullah Akhundzada ha utilizzato il suo messaggio annuale per l’Eid al-Adha*per riaffermare la sua assoluta autorità, dichiarando che l’obbedienza ai suoi ordini è “obbligatoria ed essenziale” per tutti.

Nel messaggio, pubblicato mercoledì dal vice portavoce talebano Hamdullah Fitrat, Akhundzada ha anche invitato i membri talebani a rimanere uniti nel perseguire quella che ha definito l’attuazione della “legge della Sharia” e il consolidamento del “sistema islamico”.

Il messaggio ha esortato religiosi, anziani della comunità e intellettuali a sostenere la visione di governo dei talebani, consigliando loro di contribuire a plasmare l’opinione pubblica e a prevenire quella che ha definito “sedizione e corruzione”. Akhundzada ha definito le loro dichiarazioni pubbliche e i loro scritti come fondamentali per il rafforzamento del potere talebano.

Akhundzada ha inoltre ordinato ai giudici talebani di basare le loro sentenze rigorosamente sulla natura del reato, piuttosto che sulla posizione sociale dell’imputato. Ha affermato che l’applicazione delle decisioni legali basate sulla Sharia è fondamentale per onorare il sacrificio dei combattenti talebani uccisi durante gli anni di insurrezione del gruppo.
Ha inoltre incaricato diversi ministeri talebani, compresi quelli che sovrintendono agli affari religiosi, all’applicazione del vizio e della virtù e all’istruzione superiore, di consultare il clero e di concentrare il proprio lavoro sulla promozione della pietà e sul rafforzamento delle fondamenta ideologiche del regime.

Sul piano economico, Akhundzada ha fatto appello agli imprenditori afghani affinché si adoperino per l’autosufficienza economica, osservando che “la continuazione del nostro governo dipende dall’economia”. Ha inoltre invitato il Ministero per i Rifugiati a fornire aiuti e supporto al reinsediamento degli afghani di ritorno dai paesi vicini, nonostante le persistenti lamentele dei rimpatriati sulla mancanza di servizi di base, opportunità di lavoro e accesso all’istruzione, in particolare per le ragazze.

Ha ammonito il personale civile e militare talebano a non interferire nei rispettivi doveri, suggerendo che tale comportamento genera “sfiducia, disordine e frustrazione”.

Nella parte finale del suo messaggio, Akhundzada ha denunciato la guerra in corso a Gaza come una “grave tragedia umana”, esprimendo la solidarietà dei talebani con la popolazione di Gaza.
Dal ritorno al potere dei Talebani nell’agosto 2021, Akhundzada ha emanato oltre 80 decreti – molti dei quali scritti, ma alcuni solo oralmente – che hanno drasticamente limitato i diritti e le libertà di donne e ragazze. Questi editti hanno imposto ampie restrizioni all’istruzione, al lavoro, alle libertà personali e alla partecipazione pubblica, suscitando la condanna di gruppi per i diritti umani e governi stranieri.

I critici in Afghanistan sostengono che i Talebani stiano usando la retorica religiosa per imporre le proprie interpretazioni dell’Islam a una società eterogenea. Nonostante gli appelli di Akhundzada per giustizia e ordine, gli osservatori dei media e gli esperti legali affermano che i Talebani continuano a detenere critici, inclusi giornalisti e studiosi religiosi, spesso senza accuse formali.

Due organizzazioni per la libertà di stampa hanno confermato ad Amu che almeno 15 giornalisti e operatori dei media sono attualmente detenuti dai Talebani, insieme a tre religiosi noti per aver criticato il gruppo. Secondo quanto riferito, diversi di loro sono stati condannati a due o tre anni di carcere.

Un detenuto rilasciato di recente, che ha parlato a condizione di anonimato per motivi di sicurezza, ha affermato che i talebani “non tollerano il dissenso” e puniscono i critici con “l’arresto e la minaccia di repressione”

*Nell’Islam, la ʿīd al-aḍḥā, nota anche come ʿīd al-naḥr oppure ʿīd al-qurbān, è la festa celebrata ogni anno nel mese lunare di Dhū l Ḥijja, in cui ha luogo il pellegrinaggio canonico, detto ḥajj.

Maria Bashir: “L’Occidente ha tradito l’Afghanistan. Le ragazze avevano i libri sotto al burqa”

lastampa.it Francesca Paci 1 giugno 2025

La procuratrice: «Quando gli Usa hanno lasciato Kabul, Putin ha avuto campo libero»

Maria Bashir: «L’Occidente ha tradito l’Afghanistan. Le ragazze avevano i libri sotto al burqa. Quando gli Usa hanno lasciato Kabul, Putin ha avuto campo libero».
Intervista alla prima donna procuratrice dell’Afghanistan. Da quattro anni in esilio.
«E quando la speranza mi abbandona? Allora penso. Ricordo quei pomeriggi a Herat, quando, interdetta dal lavoro e segregata in casa, aspettavo che arrivassero le mie allieve, intabarrate nel burqa sotto cui nascondevano i libri, per scendere insieme in cantina e fare lezione. C’erano ragazze di ogni età. Studiavamo l’alfabeto, la matematica, la letteratura, volevo che fossero pronte per il giorno in cui avremmo avuto in mano il Paese. Ero sicura che a un certo punto i talebani se ne sarebbero andati».
Maria Bashir, prima e unica donna procuratrice nell’Afghanistan contemporaneo, puntella l’incertezza dell’esilio con le immagini dei suoi 54 anni, un condensato di ambizione, orgoglio, delusione, resilienza. Parla, composta nel morbido velo nero, a margine di un evento della fondazione Med-Or.
Racconta. È stata una bambina determinata a studiare nella Kabul aperta agli hippies di mezzo mondo ma ancora chiusa e patriarcale. È stata magistrata a Herat prima che, nel 1995, gli studenti coranici sigillassero l’orizzonte fino al terremoto delle Torri Gemelle.
È stata l’avanguardia dell’emancipazione femminile nei vent’anni in cui pareva che il Paese potesse ripartire, incorniciata nel 2011 dalla copertina di “Time” come una delle cento persone più influenti del mondo.
È stata tanto e, al netto della cittadinanza italiana riconosciutale dal presidente Sergio Mattarella, si sente nulla Maria Bashir: un’esule partita a rotta di collo quattro anni fa con l’ultimo aereo decollato da una Kabul perduta, lasciata dalla coalizione occidentale a quei mullah che aveva combattuto.
• A che punto è oggi Kabul?
A un punto morto. Il nero è sempre più nero, le donne non possono più studiare, non possono uscire di casa. Nessuno può più nulla in Afghanistan.
• Com’è cambiata la sua vita dall’estate del 2021, quando l’ultimo aereo occidentale decollato da Kabul ha spento la luce su dieci anni di speranze e il suo paese è ripiombato sotto il giogo talebano?
È come se fossi tornata indietro di decenni. La mia vita di donna attiva che faceva tante cose come procuratrice e avvocata è finita. Quando ho lasciato casa mia, nell’estate del 2021, non ho neppure staccato la luce, non ho fatto in tempo a chiudere la porta. C’era un muro in salotto, con i quadri di tutti i miei premi, la mia vita. Non ho potuto portare nulla con me, sono scappata come una ladra, di notte: se fossi rimasta mi avrebbero fatto a pezzi, letteralmente.
• Sente di essere stata tradita dall’occidente?
Devo ammetterlo, sì. Io, come tanti, ci ho creduto. Ho creduto che saremmo diventati un Paese normale. L’occidente ci ha portato tanta speranza, ci ha liberati dai talebani e poi ci ha abbandonati: ci ha riconsegnati ai nostri aguzzini. Tutte le mie studentesse, quelle che istruivo nella cantina di casa, avrebbero dovuto lavorare per il futuro e invece, nella migliore delle ipotesi, sono fuggite all’estero: nella peggiore vivono oggi chiuse in casa, depresse, mi chiamano e mi chiedono quando finirà la notte.
• Crede che nel 2021, oltre a consegnare gli afgani ai talebani, l’occidente abbia dato il via libera a quanti erano pronti a sfidarne la tenuta militare e morale sui diritti umani, da Putin a Netanyahu?
È esattamente così. Quando l’occidente ha lasciato Kabul, la Russia ha capito di avere campo libero in Ucraina. Per noi, Paesi non del primo mondo, l’Onu, i tribunali internazionali e le mille carte dei diritti dell’uomo non valgono. Che peso giuridico e morale hanno i palestinesi ammazzati da Netanyahu? La lezione è chiara, i nostri figli valgono meno dei figli del mondo occidentale.
• Da magistrata che ha dedicato la sua vita professionale alla difesa delle donne, di cosa hanno più bisogno oggi, in assenza della libertà?
L’istruzione: aiutateci a far studiare le donne, borse di studio, corsi, anche online. Spesso quella delle donne è una bandiera buona per le campagne social, un “I like” e via. Faccio appello alle europee, italiane, alla premier Giorgia Meloni: immaginate che vostra figlia non possa più andare a scuola né uscire di casa, mettetevi nei nostri panni.
• Una giudice è quasi apostasia per l’ortodossia islamica, dove una donna vale metà. Come le è venuto in mente?
Sin da quando ero bambina volevo che fosse fatta giustizia. Se assistevo a un torto volevo intervenire, volevo cambiare la storia di quella ingiustizia. Ricordo il giorno in cui mi iscrissi all’università: tutti si mettevano in fila allo sportello del corso in medicina, io scelsi legge, ero l’unica donna.
• E se sua figlia, costretta per anni a studiare in casa per le minacce, seguisse la sua stessa strada di magistrata?
La mia vita, il mio lavoro e la mia lotta sono passi sulla strada tracciata per mia figlia e tutte le altre come lei, che possano studiare, crescere, contribuire, quando sarà possibile, al futuro dell’Afghanistan. Che siano magistrate o altro. Ci sono Paesi in cui essere donna è molto difficile ma lo è anche essere cittadine. Mia figlia oggi è in Canada, ha studiato in Italia, è una persona completa che vive lontano da casa.
• Cita spesso l’“apartheid di genere” per indicare la discriminazione delle donne afgane, un’espressione usata anche dalla premio nobel per la pace iraniana Shirin Ebadi. C’è una strada, comune, che le donne possono percorrere?
L’unità, qui, in Europa, come nel mio Paese. Guardate noi, la nostra storia, la strada, i blocchi stradali, lo stallo. Le donne devono, dovrebbero capire che la battaglia è una, a Roma come a Kabul e a New York.
• Si aspetta qualcosa dall’America di Donald Trump?
Vorrei mettermi le mani nei capelli. Di Trump non sappiamo nulla, né cosa pensa quando si sveglia né cosa dirà nel corso della giornata. Da afgana voglio ricordare che è stato lui a venderci la prima volta, ad avviare i negoziati con i talebani al tempo del suo mandato numero uno. Oggi penso al sistema Maga e penso che gli Stati Uniti volevano una specie di Maga per l’Afghanistan, come se fosse possibile con uno slogan Make Afghanistan Great Again. Ci ha rovinati, l’America ci ha rovinati e dovrebbe rimetterci in piedi.
• Qual è l’episodio più spaventoso che ricorda nella sua vita di momenti di paura?
Ce ne sono stati tanti, ogni giorno della mia vita di giudice ho ricevuto lettere minatorie, dicevano “ti ammazziamo come un cane”. Non avevo paura per me, ne avevo per i miei figli. Il giorno peggiore è stato forse quando hanno messo una bomba sotto casa mia a Herat. All’epoca andavo in giro con 24 guardie corpo e avevo la macchina blindata. Esplose tutto il quartiere, crollò il muro del palazzo davanti alla mia abitazione, avevo paura per gli uomini che mi proteggevano, uno di loro perse le dita dei piedi. I miei figli per fortuna erano lontani, alla partita di calcio, ma non ci sono più partite giocabili a Kabul…».

Le donne afghane senza età: Aziza, Farzana e la scuola negata

Domani, 28 maggio 2025, di Chiara De Stefano Intersos

I diritti e l’autonomia tra fame e freddo

Nei villaggi rurali del sud del paese le persone non conoscono la loro età, le donne contano gli anni dal giorno del loro matrimonio e l’unico obiettivo per il futuro è sopravvivere. A nord e a ovest del paese, nelle grandi città come Kabul e Herat, le donne a 12 anni sono costrette ad abbandonare la scuola e a smettere di sognare. A Roma, in piazza Testaccio, dal 28 maggio al 19 giugno la mostra “Vite senza tempo” della fotografa Cinzia Canneri testimonia la realtà: al seguito dell’organizzazione umanitaria INTERSOS

Aziza ha cinque figli e un volto dall’età indefinibile. Viene da un villaggio della provincia di Zabul, nel sud dell’Afghanistan. Non sa quando è nata, e se le viene chiesto risponde: «Dieci anni dal giorno del mio matrimonio». Sono passati dieci anni dall’evento cruciale della sua vita: il giorno che è stata data in sposa è quello in cui il tempo ha cominciato a scorrere. L’anno zero della sua esistenza.

Vale per lei, vale per la maggior parte delle donne. È la normalità in queste aree dove il ritorno al potere dei Talebani nell’estate del 2021 ha inasprito le condizioni di vita delle donne, ma non le ha cambiate poi tanto rispetto al passato. L’obbligo del burqa, l’accompagnatore necessario per uscire di casa, lo studio consentito solo per pochi anni – ma che di fatto, qui, in moltissime non cominciano nemmeno – sono parte della cultura dell’Afghanistan meridionale da decenni.

I villaggi del sud

Qui al sud, tra i muri giallo ocra dei villaggi rurali, che, quando d’inverno si imbiancano rimangono quasi del tutto isolati, l’unità di misura del tempo che passa, della vita che scorre, non sono le ore, i giorni, gli anni. Ma gli eventi, quando ci sono. Le persone non sanno quando sono nate e non sanno cosa sarà di loro il giorno dopo. Sanno solo quello che gli succede. In quei posti, passato, presente e futuro sono impastati tra di loro in un’unica dimensione: basta non morire di fame, di freddo, di malattia. Ma di fame, di freddo, di parto e di malattie facilmente curabili in altre aree del mondo, si muore troppo spesso.

Ora Aziza è nella sala d’attesa nel centro Barkozai, un presidio sanitario allestito dall’organizzazione umanitaria Intersos, con il sostegno dell’Unione europea, per assistere la popolazione dei villaggi della zona. L’ala femminile del centro è stracolma di donne incinte, mamme con neonati e con bambini malnutriti che hanno bisogno della terapia, o sono in attesa delle vaccinazioni.

Dall’ostetrica

Sta aspettando l’ostetrica con la quale parlerà della decisione, maturata insieme a suo marito, di non avere più figli. Non sanno come sfamarli. Quando entra nella stanza e si stende sul lettino, Aziza mostra il volto che prima era nascosto dal burqa. Nonostante la pelle seccata dal sole, si intuisce che è molto giovane, si vede dagli occhi e anche dal sorriso. Ma lo sguardo è assente, forse impaurito. L’ostetrica di Intersos, una donna giovane e paziente (che, nonostante il divieto per le donne, può lavorare grazie alla deroga sulle attività sanitarie), spiega che Aziza non ha solo enormi problemi economici, come la maggior parte delle famiglie della zona, ma anche grosse difficoltà psicologiche.

Finita la visita, Aziza si riveste frettolosamente. Per arrivare a casa deve percorrere sentieri di terra e rocce, non sa esattamente quanto ci metterà e per questo preme per andar via subito. È impaziente di tornare dai figli più grandi rimasti a casa, tra quelle mura di fango e fieno che sembrano potersi sgretolare da un momento all’altro.

Le case dei villaggi rurali sono tutte simili: all’interno delle mura di cinta c’è un grande spazio con qualche utensile da lavoro, qualche animale, un angolo con una buca per andare in bagno e poco altro. Le stanze coperte da un tetto sono due o tre, hanno qualche telo sul pavimento su cui dormire. Non c’è acqua corrente, non c’è elettricità. L’immagine riporta a migliaia di anni nel passato, passato che qui però è il tempo presente, l’unico tempo a disposizione.

Sogni per il futuro? «Avere da mangiare per tutta la famiglia», risponde con un sorriso sereno un’altra donna, vicina di casa di Aziza. Lei di figli ne ha tredici, una è morta di fame quando era molto piccola e altre tre, ancora bambine, sono già promesse spose.

Sogni per il futuro. Altri, più vasti, sarebbero quelli di tante donne e ragazze – in particolare quelle che vivono in città, soprattutto a nord e ovest del paese – che hanno visto interrompersi il loro percorso di studi e restringersi, fino quasi a scomparire, gli spazi di autonomia e autodeterminazione. I sogni delle giovani operatrici sanitarie di Intersos, che, come tante altre studentesse sono state costrette a lasciare, per volere del governo, gli studi universitari; e i sogni delle bambine che non possono più andare a scuola dopo i dodici anni età. Perché così stabilisce una legge che nel 2021, con poche righe, ha riscritto il senso del tempo per le donne afgane.

Lo studio

Farzana ha quasi dodici anni. Vive a Herat, nell’Afghanistan occidentale, è figlia di un commerciante e di una dottoressa. È stata la prima della classe per tutto il suo corso di studi, ma non ha passato gli esami finali. Bocciata. Quando sua madre, incredula, le ha chiesto spiegazioni, lei ha ammesso di averlo fatto apposta: “Volevo solo continuare ad andare scuola”, ha detto.

Per Farzana sbagliare di proposito tutti i test è stato l’unico modo per rimanere aggrappata alla vita che voleva. E poco le è importato che, per ribellarsi a quella legge, ha dovuto condannare sé stessa al paradosso di continuare a vivere nel passato per poter sognare un futuro.

A che punto è il riconoscimento “strisciante” dei Talebani da parte della comunità internazionale

Altreconomia, 26 maggio 2025

A quasi un anno dalla Conferenza di Doha che avrebbe dovuto normalizzare i rapporti con il governo de facto dell’Afghanistan, si afferma un nuovo format portato avanti dalla Missione Unama e denominato “Piano Mosaico”. Meno “esposto” mediaticamente non è meno deleterio per i diritti umani e per l’opposizione politica, come denunciano 54 organizzazioni sociali, associazioni e gruppi di attiviste

È passato quasi un anno dalla terza Conferenza di Doha organizzata dall’Onu nel giugno 2024 per normalizzare i rapporti della comunità internazionale con il governo de facto dell’Afghanistan e riaprire ufficialmente le relazioni economiche e politiche.

Un evento che aveva registrato un’importante novità nelle relazioni diplomatiche: la partecipazione diretta dei rappresentanti del governo talebano, invitato per la prima volta a partecipare alla pari con i 25 Paesi che ne fanno parte nonostante la mancanza del riconoscimento ufficiale della sua legittimità.

Una novità scandalosa, non solo perché questa “prima volta” aveva segnato un’accettazione di fatto del governo talebano come rappresentante del popolo afghano nonostante la sua presa del potere non sia avvenuta democraticamente, ma soprattutto perché questa presenza era accettata in cambio dell’estromissione delle donne afghane e dei loro diritti dai temi trattati nella Conferenza, per consentire al diktat dei Talebani che l’avevano posta come condizione per la loro partecipazione. Accettazione che era stata molto criticata non solo dalle donne e dai movimenti per i diritti umani di tutto il mondo ma anche da alcuni esponenti delle stesse Nazioni Unite.

La conferenza si era conclusa senza impegni precisi ma aveva sancito la disponibilità dei negoziatori a proseguire con le discussioni sui temi economici in preparazione di altri appuntamenti e incontri.

Che ne è stato di questi impegni, che seguito ha avuto la Conferenza di Doha? In questi mesi quasi nulla è apparso sui media per aggiornarci sulle trattative in corso tra Onu e governo talebano, sullo stato del processo di riconoscimento del loro governo e sull’avanzamento degli impegni presi.

Questa assenza di notizie non è da imputare all’interruzione dei rapporti o alla mancanza di sviluppi nel dialogo, ma alla scelta di cambiare strategia: si è infatti deciso di togliere visibilità al processo di avvicinamento ai Talebani gestito dall’Onu e delegare invece alla Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) la conduzione dei colloqui e delle proposte di mediazione.

Sono state forse le critiche delle associazioni per i diritti umani e delle donne o la refrattarietà dei Talebani ai cambiamenti a far cambiare strada all’Onu, forse per cercare modalità più coerenti di difesa dei diritti del popolo afghano? Purtroppo no, perché il nuovo format proposto e portato avanti dall’Unama, denominato “Piano Mosaico”, o Roadmap globale per l’Afghanistan, ha ancora una volta l’obiettivo dichiarato di normalizzare il più presto possibile le relazioni con l’Afghanistan, per riportarlo nella comunità internazionale sotto il controllo di “questi” Talebani e di “questo” governo.

E per agevolare le trattative, propone un approccio non più finalizzato a condizionare i Talebani con preliminari tematiche di principio e richieste di aperture democratiche, ma invece scorpora i problemi per affrontarli uno alla volta -fin da subito quelli che interessano ai Talebani, in futuro quelli proposti dalla comunità internazionale- così che sia più facile, senza l’appesantimento di questioni scottanti e divisive, arrivare a stabilire degli accordi. Per ridurre il conflitto viene infatti proposto una strategia che separa i problemi “pratici”, come la lotta al narcotraffico, lo sviluppo del settore privato e la cooperazione economica -che piacciono ai Talebani- da quelli “complessi”, come i diritti umani e delle donne e l’antiterrorismo. Cioè si lasciano le questioni che riguardano i diritti e la democrazia in una formulazione generica e ambigua, da affrontare con “gradualità”, nel futuro indefinito “del prima o poi” -tanto le donne afghane sono resilienti-.

Con questa strategia il coinvolgimento dei Talebani nel dialogo non punta più a un evento-manifesto che dia visibilità all’intervento conciliatore dell’Onu, ma preferisce un processo in sordina, strisciante, fatto di incontri bilaterali o poco più, che non dia nell’occhio, nella speranza che sia finalmente possibile accordarsi con i Talebani e fare affari con loro senza fastidiosi interventi critici, quegli affari che per ora sono solo nelle mani delle piccole e grandi potenze regionali che sgomitano per arrivare per prime.

Nelle intenzioni l’obiettivo di questo processo dovrebbe essere “un Afghanistan in pace con sé stesso e con i suoi vicini, pienamente reintegrato nella comunità internazionale e in grado di rispettare gli obblighi internazionali”, si dice nel Piano, basato sulle raccomandazioni della valutazione indipendente di Feridun Sinirlioglu e in applicazione della Risoluzione 2721 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 2023.

Le associazioni di donne e per i diritti umani hanno criticato questo nuovo piano. Sostengono che l’Unama sta di fatto facilitando la legittimazione dei Talebani anziché difendere i diritti del popolo afghano e che in questa roadmap non sarebbe stato previsto alcun ruolo per le donne, la società civile e le reali vittime del governo.

In una dichiarazione congiunta, 54 organizzazioni sociali, associazioni e gruppi di attiviste hanno denunciato l’accettazione dei Talebani come principali interlocutori e avvertito che l’iniziativa garantisce al governo concessioni concrete mentre chiede in cambio poco più che vaghe e inattuabili promesse. Inoltre, dicono che l’Unama, rendendo i diritti umani un oggetto di contrattazione, ne compromette l’universalità e l’inviolabilità, venendo meno alla missione imparziale e umanitaria delle Nazioni Unite che le è propria.

Le Nazioni Unite hanno sottolineato che il loro impegno con i Talebani non deve essere frainteso con un riconoscimento politico. L’Unama ha dichiarato che il piano è ancora in fase di revisione e di voler coinvolgere nella sua gestione tutte le parti interessate, dai Paesi che fanno parte del Processo di Doha alle altre componenti che giocano un ruolo chiave nella regione, come il G7, i governi che detengono risorse afghane, il team delle sanzioni dell’Onu e i cosiddetti gruppi “non talebani” menzionati vagamente alla fine del piano. Ma l’Unama ha rifiutato di specificare esattamente quali, al di fuori dei Talebani, siano state le parti finora coinvolte.

Intanto i Talebani, ben felici di essere al centro dell’attenzione diplomatica, puntano in alto e rispondono alle aspettative del Piano chiedendo la revoca delle sanzioni Onu, attualmente imposte a oltre 130 membri del gruppo ed entità affiliate; il recupero dei beni congelati dagli Usa; l’assunzione della rappresentanza diplomatica all’estero, cioè il seggio all’Onu, attualmente in mano ai rappresentanti del governo della precedente Repubblica. Insomma, un vero e proprio riconoscimento di legittimità.

In cambio il Piano chiede riforme globali, come la formazione di un governo inclusivo, il rispetto dei diritti umani e l’impegno nella lotta al terrorismo, ma, non prevedendo meccanismi di applicazione o inclusione, queste richieste rimangono generiche e vuote. Come osserva l’opposizione politica, “le richieste dei Talebani sono concrete e misurabili: vogliono legittimità diplomatica, accesso alle riserve estere e revoca delle sanzioni. Al contrario, le aspettative della comunità internazionale rimangono indefinite”.

Il “Piano Mosaico” dichiara di puntare, per ottenere cambiamenti nella politica talebana, sulla reciproca fiducia e la dimostrazione dei vantaggi che la cooperazione può portare alla governance e al popolo afghano. Ma come può esserci collaborazione con un governo fondamentalista che ritiene che non sia sua responsabilità provvedere ai bisogni dei cittadini perché crede che il benessere e la sopravvivenza del popolo provengano direttamente da dio? Come si può avere fiducia in un regime che si preoccupa solo di ottenere con la violenza l’obbedienza a quella che pretende sia la vera religione?

Il governo talebano non può essere un interlocutore credibile. Non vi è garanzia che il popolo afghano possa ottenere dai Talebani il rispetto dei suoi diritti umani, economici e sociali. Come hanno giustamente sostenuto le donne e le associazioni democratiche, “questo piano deve essere fermato, le nostre voci devono essere ascoltate”.

Beatrice Biliato fa parte del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda)

Gruppi per i diritti umani chiedono un’inchiesta sulla moglie di Khalilzad per le sue dichiarazioni sui talebani

amu.tv Ahmad Azizi 25 maggio 2025

Sessantaquattro gruppi per i diritti umani e la giustizia di transizione hanno firmato una lettera aperta che sollecita un’azione legale contro Cheryl Benard, moglie dell’ex inviato speciale degli Stati Uniti per la pace in Afghanistan Zalmay Khalilzad, accusandola di complicità in presunti crimini contro le donne afghane.
Nella lettera, indirizzata alla Corte Penale Internazionale (CPI), i firmatari – tra cui il Civil Service Women’s Movement, l’Afghan Republican Women’s Network, Afghan Women for Peace and Freedom e altre organizzazioni della diaspora afghana e femministe – sostengono che la Benard abbia svolto un ruolo di promozione e partecipazione in quella che descrivono come la sistematica cancellazione dei diritti delle donne sotto il regime talebano.
I gruppi sostengono che il loro appello si basi su quadri giuridici internazionali, rapporti delle Nazioni Unite e testimonianze documentate delle vittime. Sostengono che Benard abbia “sbiancato” le politiche dei Talebani, negato la violenza strutturale contro le donne e sostenuto il ritorno dei rifugiati in quello che descrivono come un “regime di apartheid di genere”. Benard, analista politica e scrittrice, si è recata a Kabul all’inizio di quest’anno e ha recentemente fatto notizia per un controverso editoriale pubblicato su The National Interest, in cui ha minimizzato le preoccupazioni sul trattamento riservato alle donne dai Talebani e ha liquidato come esagerate alcune notizie diffuse dai media sulla questione.
Pur riconoscendo che i divieti all’istruzione imposti dai Talebani a ragazze e donne sono “inaccettabili e privi di giustificazione religiosa”, Benard ha messo in dubbio la gravità delle restrizioni. Ha incoraggiato i rifugiati di ritorno a prendere in considerazione l’idea di iscrivere i propri figli a scuole private e ha criticato l’isolamento internazionale del governo talebano definendolo “ingiusto e bizzarro”. Ha inoltre sottolineato che le donne in India affrontano condizioni peggiori rispetto a quelle nell’Afghanistan governato dai Talebani, affermando: “Il trattamento riservato alle donne [dai Talebani] non è minimamente paragonabile a quello in India, un Paese potente e avanzato”.
I suoi commenti hanno scatenato una forte reazione tra i sostenitori dei diritti delle donne afghane, molti dei quali vedono le sue dichiarazioni come parte di un più ampio sforzo per legittimare un regime che ha sistematicamente privato le donne del diritto al lavoro, all’istruzione e alla vita pubblica.
Benard non è un funzionario statunitense e non ricopre una posizione formale in alcun governo. Tuttavia, i critici sostengono che il suo stretto legame con Khalilzad – che ha supervisionato i negoziati che hanno portato all’accordo tra Stati Uniti e Talebani a Doha – le abbia fornito una piattaforma che amplifica le narrazioni pro-talebani nel dibattito occidentale.
Al momento, né Benard né Khalilzad hanno risposto pubblicamente alla lettera. La CPI non ha commentato se accoglierà la richiesta di indagine presentata dai gruppi.

Quando il “femminismo” difende i Talebani

zantimes.com Zahra Nader 22 maggio 2025

Il recente commento di Cheryl Benard sulla fine dello Status di Protezione Temporanea (TPS) per i rifugiati afghani ha indignato molti afghani. Sostiene che l’Afghanistan non è perfetto, non è “la Riviera”, ma “migliorato”, “stabilizzato” e, soprattutto, abbastanza sicuro da costringere 8.000 rifugiati afghani a tornare a causa della nuova politica di deportazioni di massa del governo statunitense.

Esprime una lieve disapprovazione per il divieto di istruzione per le ragazze, eppure sostiene che le scuole private sono “autorizzate a operare a qualsiasi livello”. (Non sono sicura da dove abbia preso queste informazioni, ma nel dicembre 2022 abbiamo riferito che i Talebani hanno vietato i centri educativi privati, comprese le scuole private per ragazze oltre la sesta elementare). Forse intende dire che le madrase sono aperte a “qualsiasi livello” per fare il lavaggio del cervello alla prossima generazione di afghani. Quando Cheryl Benard suggerisce che le ragazze afghane potrebbero frequentare le scuole private se quelle pubbliche fossero chiuse, le sue parole riecheggiano il famigerato “Lasciate che mangino brioche” di Maria Antonietta, ma con una crudeltà ancora più acuta, dato che si tratta di una visitatrice.

Benard paragona il trattamento riservato dai Talebani alle donne alla situazione in India, sostenendo che la violenza di genere in India è più estrema, eppure l’India rimane accettata a livello internazionale. Cita esempi come le morti per dote e gli stupri di gruppo in India per suggerire che la condanna internazionale delle politiche talebane sia applicata in modo selettivo e forse ingiusto. Non menziona le politiche di apartheid di genere dei Talebani, quegli editti e quelle leggi che mirano a cancellare sistematicamente le donne dalla vita pubblica. Se le statistiche sulla violenza contro le donne altrove possono giustificare l’oppressione sistematica delle donne in Afghanistan, può fare l’esempio dell’America, dove ogni giorno almeno tre donne vengono uccise da un partner attuale o ex partner.

Nel suo tentativo di difendere la deportazione dei rifugiati afghani in Afghanistan, Benard offre “rassicurazioni” ai critici dei Talebani. Ma ciò che offre è propaganda. È la razionalizzazione a bassa voce del regime talebano da parte di qualcuno la cui famiglia ha contribuito a plasmare le condizioni politiche che hanno rafforzato questo regime brutale.

Benard si definisce femminista. Ma quale tipo di femminismo liquida come “istrionica” la paura delle donne afghane che vivono sotto il controllo dei talebani? Quale tipo di femminista indica alcune commesse di Kabul come prova del fatto che le cose non vanno poi così male per circa 20 milioni di donne e ragazze a cui i talebani hanno sistematicamente impedito di studiare, lavorare, viaggiare e persino di recarsi in clinica senza un accompagnatore maschile? Quale tipo di femminista si dà l’audacia di parlare a nome delle donne i cui oppressori si sforza di legittimare? Questo non è femminismo. È una manipolazione imperiale da parte di qualcuno che si guadagna da vivere con il complesso militare-industriale.

Sostiene che l’Afghanistan si stia “stabilizzando”. Si, perché coloro che un tempo uccidevano quotidianamente ora sono al comando, e coloro che hanno potuto resistere sono stati imprigionati, torturati o fatti sparire. Quando un gruppo terroristico monopolizza la fonte della violenza, allora, naturalmente, la situazione sembra calma. E si, la calma che Benard e alcuni turisti potrebbero sperimentare a Kabul non è la realtà per il popolo afghano, soprattutto per le donne. Mentre Benard, in quanto donna bianca e moglie di Zalmay Khalilzad, l’uomo che ha negoziato il ritorno al potere dei talebani, è rispettata, protetta e può muoversi liberamente per la città, a milioni di donne afghane viene negato il diritto di esistere in pubblico. Il mese scorso, abbiamo raccontato di come alcune donne siano state arrestate, torturate e frustate in pubblico per essersi recate in una clinica con un cugino maschio o per essersi sedute in un bar. L’anno scorso, abbiamo raccontato di come i talebani abbiano violentato alcune delle donne costrette a mendicare per strada. Queste brutali realtà non sono state incluse nel suo articolo sull’Afghanistan “stabilizzato”.

Capisco che Benard probabilmente non leggerebbe mai i nostri reportage, perché per lei siamo solo un gruppo di donne “istrioniche”, che presumibilmente esagerano la realtà della vita sotto il regime talebano. Che comodità. Ma che dire dei rapporti della Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan? Del Relatore Speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani? Di Human Rights Watch? Di Amnesty International? Documentano tutti che i talebani stanno commettendo crimini contro l’umanità. Ma per Benard, anche queste devono essere drammatizzazioni eccessive. Ignora completamente i crimini dei talebani non perché non li conosca, ma perché interrompono la narrazione che sta cercando con tutte le sue forze di vendere.

Benard non solo fraintende l’Afghanistan, ma cancella anche le voci delle stesse donne che afferma di sostenere. Parliamo di quelle donne che ha visto lavorare per le strade di Kabul. Sì, ci sono donne che cercano di guadagnarsi da vivere. Queste donne non lavorano con il permesso dei talebani, lavorano sfidando le loro regole. Fanno il possibile per sopravvivere, per sfamare i propri figli, per ritagliarsi un barlume di dignità sotto un regime che le vuole cancellare. Quello che non dice è che migliaia di donne sono state licenziate dal pubblico impiego, tra cui, di recente, anche alcune professoresse. Persino a centinaia di migliaia di donne che lavoravano in professioni interamente femminili come panetterie, bagni pubblici femminili e centri estetici è stato vietato di lavorare. Solo per fare un esempio, 60.000 donne in tutto il Paese hanno perso il loro sostentamento a causa della chiusura di 12.000 centri estetici per ordine dei talebani. La maggior parte di queste donne era il capofamiglia e proveniva da comunità emarginate.

E Kabul non è l’Afghanistan. Purtroppo, nella maggior parte dell’Afghanistan, nemmeno queste minime opportunità di resistenza esistono. E dovremmo ricordare che Kabul è il luogo in cui i Talebani sono disposti a tollerare visitatori come la Benard, la cui presenza è loro utile. I Talebani sanno esattamente cosa stanno facendo: permettono a donne come Cheryl Benard di entrare, partecipare ai loro tour curati e tornare a casa per scrivere editoriali entusiasti che contribuiscono a insabbiare i loro crimini e a normalizzare il loro governo.

A giudicare dal suo articolo, Cheryl Benard e suo marito sono apparentemente gli unici a fare la cosa giusta per l’Afghanistan, senza alcun interesse per il denaro o l’influenza! Che ironia, considerando che sta scrivendo un intero articolo per normalizzare un regime brutale e ignorare la sofferenza sistematica di milioni di persone.

Se dipendesse dal popolo afghano, i Talebani non governerebbero. L’ascesa al potere dei Talebani è stata facilitata dal marito della Benard. L’accordo di Khalilzad a Doha ha dato loro tutto: legittimità, una scadenza e nessun impegno per i diritti delle donne. Ancora oggi, si rifiuta di ammettere che sia stato suo marito a negoziare il ritorno al potere dei talebani. Il popolo afghano, soprattutto le donne afghane, non è mai stato consultato. Il nostro futuro è stato deciso da uomini in giacca e cravatta, lontano dalle nostre strade. E ora Cheryl Benard ha l’audacia di spiegarci che in realtà non è poi così male.

L’articolo di Benard non è un’analisi. È un atto di selezione, una distorsione elaborata per confortare i politici occidentali che vogliono sentirsi tranquilli nel confrontarsi con i talebani e legittimare il loro regime. Seleziona aneddoti, travisa i dati e mette a tacere proprio le donne che finge di difendere.

Cheryl Benard, non abbiamo bisogno delle tue rassicurazioni. Non abbiamo bisogno dei tuoi racconti di viaggio. E di certo non abbiamo bisogno di un’altra ondata di femministe imperialiste che ci spiegano che le persone che ci opprimono non sono poi così cattive perché ti hanno sorriso mentre ci hanno privato dei nostri diritti e delle nostre libertà.

Se il governo degli Stati Uniti sceglie di rimandare migliaia di afghani nelle mani di un regime che ci priva dei nostri diritti, delle nostre libertà e della nostra dignità, allora fatelo, ma non fingete che sia per il nostro bene. E per favore, risparmiateci la lezione di donne come Cheryl Benard, che affermano di conoscere il nostro Paese meglio di noi.