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Tag: Diritti delle donne

30° anniversario della Dichiarazione di Pechino, lo storico raduno di donne che ha innervosito il governo cinese

Isabel Choat, The Guardian, 3 marzo 2025

Nel 1995, 30.000 donne provenienti da tutto il mondo si sono riunite nei pressi di Pechino, creando un momento fondamentale per il movimento a favore dei diritti delle donne. Alcune di coloro che erano presenti riflettono su ciò che è stato raggiunto da allora

Nel settembre del 1995, decine di migliaia di donne provenienti da tutto il mondo si riunirono in una sonnolenta cittadina a circa 60 km a nord di Pechino. Il piano originale prevedeva di incontrarsi nella capitale, ma le autorità cinesi, innervosite da un numero così elevato di donne, avevano insistito perché rimanessero a distanza di sicurezza dalla città nell’insediamento di Huairou, in gran parte ancora in costruzione.

La sfiducia del governo era profonda: gli alberghi furono dotati di coperte extra nel caso in cui le donne avessero deciso di inscenare una protesta improvvisa e nuda, gli spostamenti tra Pechino e Huairou furono sottoposti a stretto controllo e le piogge fuori stagione furono attribuite a una concentrazione di donne mestruate.

Ma né il tempo né i dispetti hanno potuto smorzare gli animi in quello che si è rivelato un evento straordinario: il Forum delle ONG sulle donne.

Organizzato parallelamente alla Quarta Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sulle Donne, tenutasi presso il Centro Congressi Internazionale di Pechino, il Forum ha accolto 30.000 leader femministi, sostenitrici dei diritti, attiviste indigene, rappresentanti di ONG e accademiche provenienti da 180 Paesi.

Si è trattato del più grande raduno internazionale di donne mai visto al mondo e di un momento fondamentale per il movimento per i diritti delle donne. “Pechino è stato il culmine di anni di lavoro. Come ha affermato la scrittrice femminista Bell Hooks: «Abbiamo cercato di passare dall’essere ai margini al centro, ed è stato così emozionante». Così dice Charlotte Bunch, direttrice del Center for Women’s Global Leadership della Rutgers University negli Stati Uniti.

Le partecipanti hanno camminato nel fango nella città ancora in costruzione e partecipato a eventi di networking e di strategia nelle tende; si sono inzuppate mentre viaggiavano in autobus turistici scoperti per raggiungere la conferenza ufficiale delle Nazioni Unite a Pechino. Ma tutto ciò ha accresciuto il senso di cameratismo.

Nel corso dei 11 giorni di lavori sono stati discussi e dibattuti temi quali l’affermazione dei diritti delle donne come diritti umani, la violenza contro le donne, i diritti riproduttivi e il benessere delle bambine. Il risultato è stata la storica Dichiarazione e Piattaforma d’azione di Pechino, un documento che copre 12 aree critiche e che, a 30 anni di distanza, rimane il progetto storico per l’uguaglianza di genere.

“È stato incredibile: donne di ogni età, colore della pelle, disabilità e razza che lottavano per l’uguaglianza e lo facevano in modo molto organizzato e coordinato. Avevamo una strategia di advocacy e tutta questa energia che ci dava la sensazione di essere potenti – e siamo davvero riuscite a influenzare l’agenda”, racconta Ana Cristina González, che all’epoca aveva 27 anni, si era appena specializzata in salute riproduttiva ed era parte della delegazione latinoamericana.

“Mi ha fatto sentire che quello che sognavo era possibile. Quell’incontro ha segnato tutta la mia carriera e il mio impegno femminista”, aggiunge.

Una trasformazione personale e politica

La sensazione che Pechino abbia rappresentato una trasformazione, sia personale che politica, è stata ribadita da innumerevoli donne, molte delle quali sono diventate leader del movimento femminile. “L’atmosfera era incredibile. Non mi ero mai seduta con qualcuno proveniente dal Tibet o dal Medio Oriente: c’era eccitazione e la sensazione che avremmo potuto ottenere molto”, racconta Lydia Alpízar Durán, co-direttrice esecutiva di IM-Defensoras, una rete latinoamericana di difensori dei diritti delle donne. “A Pechino abbiamo fatto molto. Al di là dell’accordo governativo, abbiamo dato vita a un movimento globale di donne. Pechino ha catalizzato molti processi”.

Non è stato affatto facile. Mesi di preparazione sono stati dedicati alle strategie nazionali e regionali per garantire che l’agenda riflettesse le richieste della base; i dibattiti sono stati accesi e lunghi. Il testo della dichiarazione è stato analizzato parola per parola fino a raggiungere un accordo. Le autorità cinesi non tolleravano le proteste pubbliche, ma quando le donne pensavano di essere ignorate trovavano il modo di mostrare la loro disapprovazione: a un certo punto la delegazione latinoamericana ha bloccato le scale mobili del centro congressi.

La femminista indiana Gita Sen, fondatrice di Developing Alternatives with Women for a New Era (Dawn), racconta: “Uno dei momenti più importanti è stato quando è arrivato l’allora presidente della Banca Mondiale, James Wolfensohn.

Wolfensohn era considerato più liberale dei presidenti che lo avevano preceduto, sua moglie era considerata una femminista. Credo che pensasse di ricevere le congratulazioni, ma è stato colto di sorpresa: tutte gli urlavano: “Sai cosa hai fatto alle nostre vite? Tu e il FMI ci state distruggendo”. Penso che sia rimasto davvero scioccato, ma è tornato sui suoi passi e ha cercato di ammorbidire alcune delle politiche della banca”.

Quando, nel 1995, Hillary Clinton, moglie dell’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, pronunciò il suo discorso a Pechino dichiarando che “i diritti delle donne sono diritti umani, una volta per tutte”, il mondo ascoltò, ma il merito va alle migliaia di donne che negli anni precedenti avevano lavorato instancabilmente nei loro Paesi e alle principali conferenze delle Nazioni Unite, tra cui Vienna nel 1993 e Il Cairo nel 1994.

“Fino al 1980, gli eventi delle donne erano marginali e non erano considerati al centro di nulla di ciò che le Nazioni Unite facevano. E oggi siamo nella fase di contraccolpo verso tutto quello che stavamo portando avanti”, afferma Bunch.

Bunch era una delle donne che idearono la campagna di 16 giorni di attivismo [contro la violenza di genere] nel 1991. Tra loro c’era anche Everjoice Win, una zimbabwese che lavorava per i diritti delle donne dal 1989. Entrambe le donne andarono a Pechino.

“Ho spesso descritto i primi anni ’90 come l’epoca d’oro dell’organizzazione transnazionale: c’erano questi spazi – Messico, Cairo, Vienna e Pechino – e alcune di noi hanno partecipato a tutte e quattro le conferenze ONU. Ma non si trattava solo di partecipare, bensì di avere un programma collettivo per influenzare il progresso dei diritti delle donne.  Tutte avevamo uno scopo e degli obiettivi”, racconta Win.

Il piano in 12 punti ha galvanizzato governi e società civile e, nel 2015, ha dato vita agli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG) delle Nazioni Unite. “I governi hanno aderito all’agenda di Pechino come le anatre all’acqua, con delle limitazioni. Il mainstreaming di genere è diventato l’approccio preferito dai governi”, aggiunge Win, che nel 2002 è diventata la prima responsabile dei diritti delle donne di Action Aid.

“Abbiamo messo i diritti delle donne al centro dell’agenda di Action Aid, utilizzando alcuni degli strumenti che avevamo ottenuto durante il processo di Pechino. Una volta compreso il concetto di mainstreaming di genere, siamo riuscite a influenzare la leadership dell’organizzazione, assicurandoci che le donne ricoprissero ruoli di responsabilità”.

Il bilancio sull’uguaglianza di genere

La prossima settimana a New York, la Commissione delle Nazioni Unite sulla condizione femminile (CSW) celebrerà il 30° anniversario della dichiarazione di Pechino.

Lunedì, il Segretario generale dell’ONU, António Guterres, aprirà l’incontro con un discorso sullo stato globale della parità di genere. La dichiarazione si baserà su un rapporto sui progressi compiuti, aggiornato con le informazioni fornite da 159 governi, e riconoscerà i miglioramenti. Oggi, 122,4 milioni di ragazze sono fuori dalla scuola, un dato in calo rispetto ai 124,7 milioni del 2015. La mortalità materna è diminuita da 339 a 223 decessi ogni 100.000 nati vivi tra il 2000 e il 2020. Dal 1995, la percentuale di donne nei parlamenti è più che raddoppiata, passando dall’11% al 27%. I Paesi hanno anche continuato a eliminare le leggi discriminatorie nei confronti delle donne.

Questi bilanci sull’uguaglianza di genere vengono redatti ogni cinque anni, ma quest’anno il senso di urgenza è maggiore, perché, nonostante i miglioramenti in alcune aree, le “crisi a cascata”, tra cui il disastro climatico, gli shock economici, l’aumento dei conflitti e il declino della democrazia, fanno sì che la visione della Piattaforma d’azione – e degli SDG 2030 – rimanga un sogno irraggiungibile.

In questo contesto instabile, si registra un aumento del sentimento e dell’azione contro le donne, alimentato da governi autoritari e dai social media. “Il crescente malcontento è stato rafforzato dallo svuotamento dei meccanismi politici, delle istituzioni e dei processi che la Piattaforma d’azione di Pechino aveva incaricato di promuovere per l’uguaglianza di genere”, si legge nel rapporto.

Il fatto che il Centro per la famiglia e i diritti umani (C-Fam), di destra e antiabortista, tenga la propria conferenza di due giorni in parallelo alla CSW, in una sede di fronte al quartier generale delle Nazioni Unite, è la prova di un movimento antidiritti più strategico, meglio finanziato e più intelligente. Come molte organizzazioni antifemministe, utilizza il linguaggio dello sviluppo femminile per affermare di “dare potere alle donne”, ma allo stesso tempo accoglie con favore la chiusura di USAid da parte del Presidente Donald Trump, che avrà conseguenze devastanti per donne e ragazze.

“A mio avviso, stiamo vivendo una trasformazione epocale”, afferma l’accademica brasiliana Sonia Corrêa, co-presidente di Sexuality Policy Watch. “Non ci sono soluzioni facili. Lo stato del mondo è un problema molto difficile, le condizioni sono determinate dalle forze neofasciste al potere in quello che è ancora uno degli imperi del mondo”.

Potrebbe significare che quest’anno non ci sarà alcun accordo intergovernativo al CSW se gli USA lo bloccano, crede Corrêa. “Non ho bisogno di spiegare quanto profondamente l’estrema destra odi l’ONU”.

“È un momento preoccupante”, concorda Win. “La domanda è: gli altri imiteranno il tiranno arancione – mi rifiuto di usare il suo nome – facendo quello che fa lui o [lo] contrasteranno?”

Ma se il panorama politico contemporaneo è molto diverso dall’“epoca d’oro” degli anni Novanta, caratterizzata dalla fiducia nella democrazia, nel multilateralismo e nelle istituzioni, le lezioni apprese da Pechino sono ancora rilevanti, affermano le donne che erano presenti.

“Non possiamo dimenticare che siamo state noi a respingere un mondo diseguale, un mondo che abbiamo respinto e trasformato. Abbiamo passato anni a spiegare e mostrare al mondo che c’erano disuguaglianze e che volevamo migliorare. Stiamo lottando per le democrazie, quindi non possiamo chiederci solo cosa fare in risposta a una determinata situazione, ma cosa fare in generale”, afferma González, che ora dirige Causa Justa, il gruppo che ha guidato la campagna per la depenalizzazione dell’aborto in Colombia, una battaglia vinta nel 2022.

E’ confortante, dicono, allontanarsi dal caos e avere una visione più a lungo termine. Bunch dice: “Sono cresciuta negli anni ’50 e ho partecipato all’esplosione degli anni ’60; sì, ora il potere di Trump fa paura, ma ci sono alti e bassi e noi siamo in un periodo negativo. Le persone che combattevano il maccartismo avevano fiducia che ci sarebbe stato un momento diverso. Non intendo affatto smorzare l’energia dell’indignazione, ma nel periodo di crisi bisogna prepararsi ad andare avanti per quanto possibile. Viviamo in questo momento e dobbiamo impegnarci al massimo”.

O, come dice Win: “I cambiamenti arriveranno. Ma ricordiamo a noi stessi che il cambiamento non può essere preparato al microonde: il cambiamento deve essere cotto o arrostito, e il microonde non lo farà”.

Immaginare un Afghanistan senza Talebani è possibile

Zan Times, 8 marzo 2025

Il popolo afghano non è condannato a vivere sotto il dominio dei Talebani. Accettare che la mullahcrazia talebana sia un destino inevitabile significa negarne al popolo  l’umanità, la capacità e il diritto a determinare il proprio destino

Quest’anno ricorre la quarta Giornata internazionale della donna in cui i talebani hanno imprigionato donne e ragazze afghane all’interno delle loro case. Da quando i talebani sono emersi come gruppo armato islamico nel 1994, sono diventati famosi per le loro politiche anti-donne.

Durante il loro primo periodo al potere, dal 1996 al 2001, hanno vietato l’istruzione e il lavoro delle donne e hanno sguinzagliato per le strade la loro zelante polizia religiosa, colpendo le donne con cavi se non erano accompagnate da un mahram o se non aderivano al codice di abbigliamento regressivo imposto dai talebani: le donne erano costrette a indossare burqa avvolgenti e scarpe che non facevano rumore.

Una progressione scioccante

Dal loro ritorno al potere nel 2021, i Talebani hanno perseguito senza sosta le stesse politiche misogine volte a rendere le donne invisibili, facendole sparire dalla vita pubblica e imprigionandole nelle loro case. Nella prima settimana di ritorno al potere, hanno imposto il divieto di lavoro per le donne nel settore pubblico. Nel primo mese, hanno imposto il divieto di istruzione per le ragazze oltre la sesta classe. Dopo quattro mesi, hanno imposto alle donne di viaggiare esclusivamente in compagnia di un mahram o di un accompagnatore maschio. Ogni giorno i Talebani introducono un nuovo decreto, un nuovo divieto o un’altra nuova restrizione nei confronti delle donne.

Proprio quando pensavamo di aver visto tutto, nell’agosto 2024 i Talebani hanno introdotto un altro decreto scioccante: il divieto di far sentire la voce delle donne in pubblico. Hanno dichiarato che la voce delle donne è aurat, qualcosa da nascondere. Questo decreto criminalizza di fatto il diritto delle donne di parlare in pubblico o di parlare con estranei.

I Talebani sono ancora insoddisfatti. Ritengono che la sharia non sia ancora stata pienamente applicata nel Paese. Il loro leader, il Mullah Hibatullah, giura regolarmente di creare le condizioni per un sistema islamico puro e di far applicare la sharia in modo completo. Il sistema talebano della sharia è caratterizzato da punizioni corporali, esecuzioni pubbliche e fustigazioni. Nonostante abbiamo già assistito a diverse esecuzioni pubbliche e a migliaia di fustigazioni, i Talebani hanno promesso al mondo che una brutalità ancora maggiore è in arrivo: Hibatullah ha giurato che le donne saranno presto lapidate pubblicamente.

Il nucleo centrale della leadership talebana insiste nel voler stabilire la propria società ideale, delineata nella Legge sul vizio e la virtù, che non solo vieta la voce delle donne ma anche le immagini e i video. È evidente che i Talebani stanno incontrando difficoltà nell’attuare pienamente le loro politiche, dato che non riescono nemmeno a metterle in atto all’interno dei loro ranghi e delle loro strutture.

Esiste un’ala moderata?

Il mullah Hibatullah si oppone regolarmente alla richiesta di scattargli foto, non permette a nessuno di farlo, perché la Legge sul vizio e la virtù vieta di rappresentare gli esseri viventi. Eppure diversi ministri posano regolarmente per foto e video da utilizzare a scopi di propaganda online. Queste contraddizioni hanno alimentato la speculazione sull’esistenza di un’“ala moderata” all’interno dei Talebani, che rappresenterebbe una “migliore speranza di cambiamento”.

All’interno e all’esterno dell’Afghanistan circolano da sempre voci secondo cui, se questi elementi “moderati” all’interno dei Talebani riuscissero a prendere il comando, a modificare le proprie politiche e a formare un “governo inclusivo”, il loro emirato diventerebbe accettabile.

Questa convinzione deriva dal presupposto che il popolo afghano sia condannato a vivere sotto il dominio dei Talebani. Non riesce a immaginare uno scenario alternativo in cui la popolazione possa vivere in pace e in condizioni normali. Accettare che la mullahcrazia talebana sia il destino inevitabile del popolo afghano significa negarne l’umanità, la capacità e il diritto di determinare il proprio destino. Questa mancanza di speranza porta a un torpore intellettuale e a una sconfitta politica che prolungherà l’oppressione talebana.

Dobbiamo quindi valutare la capacità di resistenza del nostro popolo e apprezzare e rafforzare i modi dinamici e creativi che hanno usato per sfidare i Talebani e mantenere viva la speranza. Dobbiamo anche capire che, a prescindere dalle loro piccole differenze interne, i Talebani sono un movimento e un’ideologia uniti dal desiderio di instaurare una tirannia teocratica. Questa tirannia è progettata per negare alle donne la loro umanità, discriminare le minoranze etniche e fare guerra al popolo, alla scienza e all’istruzione moderna.

Il governo talebano si basa essenzialmente sull’esclusione della popolazione. La loro dottrina prevede una società in cui solo il leader supremo detta le politiche pubbliche e sociali, mentre la popolazione rimane in silenzio e sottomessa. Tale impostazione è dunque in contrasto con gli interessi fondamentali della popolazione del Paese.

Nel celebrare la Giornata internazionale della donna di quest’anno dobbiamo riconoscere che i valori progressisti e democratici sono sotto attacco in tutto il mondo. Misoginia, transfobia, razzismo e fascismo sono in aumento. È importante ricordare a noi stessi che se non saremo vigili sui nostri diritti e sul nostro diritto di governarci da soli, ci saranno sempre forze pronte a toglierceli.

Pertanto, se il popolo afghano, in particolare le donne, vuole riaffermare la propria umanità, deve lavorare e pianificare per prendere in mano il proprio destino collettivo e costruire un Afghanistan pacifico e democratico al di là dei Talebani. Solo costruendo una società democratica e laica, il popolo afghano potrà ottenere pace, diritti umani e libertà.

I talebani stanno rimuovendo la voce delle donne dalla radio afghana

The Guardian, Rawa, 15 marzo 2025

Mentre una delle ultime stazioni gestite da donne nel paese viene messa a tacere, un’ex giornalista offre una visione interna della repressione delle donne che lavorano nei media

Quando i talebani hanno iniziato a marciare verso le città dell’Afghanistan nell’estate del 2021, Alia*, una giornalista afghana di 22 anni, si è ritrovata a svolgere uno dei lavori più importanti della sua breve vita e carriera.

Nelle settimane che hanno preceduto la presa del potere da parte dei talebani in agosto, la voce di Alia alla radio è diventata familiare a molti nel nord dell’Afghanistan. Ha riferito del ritiro delle truppe straniere, dell’assedio degli uffici governativi e della detenzione di ex funzionari nella sua provincia.

Soprattutto, Alia ha raccontato la situazione delle donne e le loro paure e preoccupazioni, emozioni che stava vivendo lei stessa. Mentre i talebani cominciavano gradualmente a imporre loro delle restrizioni, Alia stava documentando la storia che si ripeteva.

“Sono cresciuta con la storia del dominio dei talebani sulle donne [durante il loro primo periodo al potere tra il 1996 e il 2001] e gran parte del mio lavoro si è concentrato sull’impatto che questa ideologia radicale ha avuto sul progresso delle donne in Afghanistan”, afferma.

“Ero entrata a far parte della stazione subito dopo l’università nel 2019 e ho lavorato per due anni prima che i talebani prendessero il potere. Nei mesi successivi, mi sono sentita più appassionata del mio lavoro e della scelta della mia carriera, anche se c’era sempre la paura dei talebani.

Non ci è voluto molto perché i talebani iniziassero a reprimere i media e i giornalisti nel Paese, con 336 casi noti di arresti, torture e intimidazioni tra agosto 2021 e settembre 2024, secondo le Nazioni Unite.

È stato particolarmente duro per i giornalisti radiofonici che possono essere riconosciuti e presi di mira dal loro volto e dalla loro voce. In diverse province, i talebani hanno vietato alle donne di trasmettere in radio.

Nei primi giorni dopo la presa del potere, tra il caos, l’incertezza e gli attacchi dei membri dei talebani, alcuni giornalisti furono costretti a nascondersi o a fuggire dal paese. I datori di lavoro di Alia la tolsero temporaneamente dalle trasmissioni per proteggerla, ma lei continuò a raccogliere notizie, in particolare su questioni femminili, e le sue storie spesso irritarono i nuovi poteri.

La radio è un mezzo potente nel paese in povertà

Nel 2022, dopo che i datori di lavoro di Alia iniziarono a ricevere minacce dai leader talebani locali per aver assunto e trasmesso giornaliste donne, licenziarono Alia per la loro reciproca sicurezza.

“Mi è stato chiesto di andarmene a causa del mio genere. Volevo amplificare le voci delle donne, non immaginavo che un giorno la mia voce sarebbe stata soffocata.”

Nei due anni successivi, le donne hanno continuato a essere escluse dal pubblico e dai media. Prima c’è stato un divieto nazionale alle voci delle donne in pubblico e ora, questo mese, uno degli ultimi media gestiti da donne rimasti è stato messo a tacere, con gli uffici di una stazione radio femminile con sede a Kabul, Radio Begum, perquisiti, il personale arrestato e la stazione tolta dalle trasmissioni.

Mentre i talebani accusano Radio Begum di violare la politica di trasmissione, i membri dello staff di Begum insistono sul fatto che hanno semplicemente fornito “servizi educativi per ragazze e donne in Afghanistan”. Con i recenti divieti alle donne di frequentare l’istruzione superiore, piattaforme come Radio Begum hanno cercato di colmare il vuoto per le ragazze che desiderano continuare a studiare.

Sotto minacce, pressioni immense e persino chiusure forzate, i media afghani si sono notevolmente ridotti negli ultimi tre anni. Prima della presa del potere da parte dei talebani, l’Afghanistan aveva circa 543 punti vendita di media che impiegavano 10.790 lavoratori. A novembre 2021, il 43% di questi punti vendita era chiuso, con solo 4.360 lavoratori dei media rimasti. È stato anche peggio per le donne nei media.

Una stima recente della Federazione Internazionale dei Giornalisti ha documentato che a marzo 2024 in Afghanistan erano presenti solo 600 giornaliste attive, in calo rispetto alle 2.833 donne nel giornalismo prima di agosto 2021.

“Non riesco a esprimere il senso di disperazione e miseria che provo. Devi essere una donna afghana per capire davvero quanto sia stato difficile rinunciare a tutto ciò per cui hai lavorato. Abbiamo mostrato al mondo che i talebani non sono cambiati e non cambieranno. E questo li spaventa”, dice Alia.

Alcune voci femminili rimangono in onda nelle province settentrionali, a causa delle opinioni contrastanti all’interno dei talebani sull’esclusione delle donne dalla società. Alia afferma che la radio in particolare rimane un mezzo potente in un paese con povertà diffusa e scarso accesso a Internet o alla televisione. Molte famiglie si affidano alla radio per notizie e informazioni.

“I media sono l’unica fonte che può esporre i crimini dei talebani alla gente e al mondo, per esporre come hanno deprivato le donne e altri gruppi. E aiuta anche gli afghani a essere più consapevoli attraverso programmi come Radio Begum”, afferma.

*Il nome è stato cambiato per proteggere la loro identità

“Un Paese in guerra: il caso dell’Afghanistan”, il nuovo podcast che racconta la lotta delle donne afghane

pressenza.com 14 marzo 2025

“Vogliamo ricordare la storia di donne che, nonostante i continui tentativi di cancellarne l’esistenza dalla vita pubblica, continuano a resistere ed a combattere per un futuro migliore”

14 Marzo 2025 – Large Movements lancia su Spotify “Un Paese in guerra: il caso dell’Afghanistan”, il podcast che vuole riaccendere i riflettori su un paese in guerra per decenni, poi magicamente dimenticato dalla tragica data del 15 agosto 2021.

“Un Paese in guerra: il caso dell’Afghanistan” è un viaggio tra le vicende storiche e il dramma umano che il conflitto afghano porta con sè. Attraverso 6 puntate, in uscita ogni sabato dall’8 marzo al 12 aprile, racconta la storia dell’avvento dei Talebani, dalle origini del gruppo, risalenti a più di 40 anni fa, fino alla situazione attuale in cui è costretta a vivere la popolazione, quella rimasta in Afghanistan e coloro che sono riusciti a essere evacuati.

“Con questo podcast vogliamo ricordare la storia di donne che, nonostante i continui tentativi di cancellarne l’esistenza dalla vita pubblica, continuano a resistere ed a combattere per un futuro migliore per il loro Paese. Vogliamo raccontare la storia delle donne afghane e delle numerose violazioni dei diritti umani che subiscono” dichiara Rainer Maria Baratti, Vicepresidente di Large Movements.

Il secondo episodio, intitolato “Strade interrotte verso l’equità di genere”, uscirà il 15 marzo e si concentrerà sulla condizione delle donne afghane dopo la presa di potere dei Talebani il 15 agosto 2021. Attraverso testimonianze dirette, il podcast mette in luce la repressione e le difficoltà quotidiane delle donne nel Paese, esplorando anche il ruolo delle organizzazioni internazionali impegnate a sostenere i loro diritti.

Nei successivi episodi, il podcast andrà ad esplorare anche il ruolo della comunità internazionale nella gestione delle varie fasi diplomatiche attraversate dal Paese nonché le motivazioni e gli interessi geopolitici che contribuiscono tuttora a rendere la situazione in Afghanistan di difficile soluzione.

Il podcast, scritto da Martina Bossi, Laura Sacher, Sara Massimi e Rainer Maria Baratti, con il contributo di Mattia Ignazzi, è frutto di un attento lavoro di ricerca e di raccolta di testimonianze. Alla produzione hanno collaborato Nove Caring Humans, mentre la registrazione e la post-produzione sono a cura di William Frezzotti.

L’obiettivo del progetto è offrire un racconto approfondito e umano di un Paese segnato dalla guerra, dando voce a chi vive ogni giorno le sue conseguenze. La serie si compone di sei episodi, in uscita ogni sabato fino al 12 aprile 2025.

Dove ascoltarlo: https://open.spotify.com/show/7slKxrlnBgLIx1zgYcvOfe?si=a217e89b6ce244ce

Sostieni il progetto: Un Paese in guerra è una produzione indipendente. È possibile supportare il lavoro di Large Movements APS partecipando al crowdfunding su www.largemovements.it/sostienici.

Large Movements APS è un’associazione che vuole decostruire le fake news sulla migrazione e promuovere la partecipazione di migranti e rifugiati nei dibattiti politici e nei progetti che li coinvolgono direttamente. Tutto questo tramite la divulgazione, la sensibilizzazione e la progettazione. L’obiettivo principale dell’associazione è informare e sensibilizzare l’opinione pubblica per promuovere, influenzare e/o modificare le politiche pubbliche stimolando la partecipazione attiva sia della società che delle comunità di migranti, rifugiati e della diaspora.

 

 

 

Il tragico destino delle donne afgane in un documentario di straziante bellezza

ilsole24ore.com  Lara Ricci 12 marzo 2025

«Abbiamo tutti perduto l’Afghanistan» afferma la giornalista e regista Najiba Noori mentre sullo schermo scorrono le immagini del suo aereo che atterra a Parigi, all’indomani della caduta di Kabul, il 15 agosto 2021.

Due anni prima aveva iniziato a filmare sua madre, Hawa. Sposata a 13 a un uomo di 30 anni più vecchio di lei con cui aveva avuto due figlie e quattro figli, dopo essere riuscita a far studiare Najiba, aveva deciso di imparare a leggere e scrivere e avviare un commercio di vestiti ricamati. Rifiutava di passare tutte le sue giornate in casa, ancora giovane, ad accudire il marito con la demenza senile. Najiba l’aveva filmata mentre andava al bazar a comprare libri della scuola elementare per esercitarsi e mentre si recava nella regione di origine della sua famiglia, di etnia hazāra, nella zona di Bamiyan (dove si trovavano le tre gigantesche statue di Buddha distrutte dai talebani nel 2001) per trovare delle ricamatrici.

Il progetto di Najiba si è interrotto bruscamente: ha avuto poche ore per decidere se lasciare l’Afghanistan o restare. Non è nemmeno riuscita a salutare Hawa, e ha potuto portare con sé solo una valigia di 10 kg, in cui ha stipato gli hard disk con le registrazioni su sua madre. Il fratello nei mesi successivi ha però continuato a filmarla, inviandole le immagini tramite colleghi giornalisti che venivano inviati a Kabul a coprire lo sprofondare del Paese nella dittatura dei fondamentalisti islamici. Così è riuscita a realizzare Writing Hawa, un documentario di grande delicatezza e struggente bellezza, presentato al Fifdh di Ginevra, il Festival dei film e forum sui diritti umani, che l’ha accolto con un lunghissimo applauso.

Un lungometraggio che riesce a penetrare nell’esistenza di Hawa con naturalezza, tanto che proprio davanti alla telecamera rivela alla figlia di essere stata innamorata, almeno una volta nella vita (di un cugino del padre). Un’opera completamente priva di quella retorica sull’emancipazione femminile cui siamo abituati.

«Con questo film entriamo nell’intimità di una donna, ed è la storia di tutte le donne afgane, oltre che un importante documento storico su come abbiamo ancora una volta perso il nostro Paese e le nostre speranze» ha affermato, nella tavola rotonda che ha seguito la proiezione, Hamida Aman, fondatrice di Radio Begum e Begum accademy, un’attivista afgana che pochi mesi prima della caduta di Kabul aveva dato vita a un’emittente per far arrivare l’istruzione alle donne tramite la radio e la tv satellitare. Da lì a poco i Talebani avrebbero vietato a tutte le bambine di più di 12 anni di andare a scuola.

«Dopo il 15 agosto 2021 nessuna radio libera trasmetteva più. In quel momento ero in Francia e mi sono chiesta cosa fare. Avevo messo tutti i dipendenti sulle liste di evacuazione, ma siccome non sono stati evacuati siamo andati avanti. Abbiamo 18 antenne e riusciamo a coprire 20 province su 34. Avevamo già iniziato a portare la scuola in casa quando c’era stato il Covid, e per via dell’insicurezza crescente – non sono tre anni che i bambini non vanno a scuola, sono cinque! E le lezioni che facciamo noi non sostituiranno mai quelle fatte in classe» afferma Aman. «È molto importante che le università del mondo diano borse di studio alle ragazze afgane perché possano seguire i corsi online, molte non lo potranno comunque fare, ma almeno avranno la speranza di poterlo fare – aggiunge -. Stiamo offrendo anche sostegno psicologico alle donne via radio. Ci chiamano da ogni regione, riceviamo 20 chiamate all’ora. Le donne sono veramente perdute. I talebani usano l’islam per dire loro che non sono nulla».

«Istruirsi non era facile neanche prima. Non è mai stato facile avere un’educazione. C’erano poche scuole, pochi insegnanti, bisognava lottare in famiglia per dimostrare che ce lo meritavano, poi lottare per dimostrare che ci meritavamo il lavoro. Dobbiamo combattere per tutto, niente ci è dato» ha aggiunto Fereshta Abbasi, che lavora per Human rights watch occupandosi proprio del suo Paese di origine. Non un lavoro facile al momente capire cosa sta accadendo a Kabul: chi parla con loro viene torturato o fatto sparire, e anche i familiari sono minacciati.

Noori, nei due anni di riprese prima della caduta di Kabul aveva anche filmato lo straziante ritorno di sua nipote Zahara. Ormai tredicenne, dopo che il padre l’aveva cacciata di casa, era ricomparsa a casa della madre. Non la vedeva da quando aveva due anni, perché questa aveva dovuto lasciarla quando aveva divorziato dal padre, cui sono affidati i figli in questi casi. Senza sapere che stesse arrivando, quando l’ha vista sulla porta, sua madre ha capito subito che quella ragazza era sua figlia.

Zahara viene poi affidata alla nonna: il nuovo marito della madre aveva paura che l’ex marito potesse vendicarsi sui suoi figli, o che creasse loro problemi legali, non avendo loro nessun diritto di ospitarla, e non avendo lei neppure i documenti. Subito Hawa l’aveva fatta studiare, insieme si esercitavano a scrivere. Noori ritrae tutti questi avvenimenti in presa diretta, mentre la tv nella stanza enumera le province che giorno dopo giorno cadono nelle mani del talebani e la preoccupazione crescente della sua famiglia. Quando i talebani sono alle porte, Zahara è in pericolo, si sa che i fondamentalisti nelle città rastrellano le case per trovare bambine che abbiano più di 12 anni e portarle via. Sono perciò costretti a rimandarla dal padre, che sta nelle campagne, dove questo non accade. Le danno un telefono, ma risulta subito spento. In esilio Noori apprende che Zahara è stata costretta dal padre a sposarsi.

Dopo che il fratello di Hawa viene picchiato per avere girato delle immagini, la famiglia decide di partire, e dopo un anno e mezzo in Iran riesce a raggiungere Najiba in Francia. Ma non c’è lieto fine nel film. «Non l’ho voluto, perché non ho nessuna speranza che le cose possano migliorare. L’unica speranza sono le donne dell’Afganistan. Ma il mio è l’unico Paese al mondo dove gli è impedito di potersi istruire!» afferma Noori.

Presidio. Le donne afghane: «No all’apartheid di genere, sia riconosciuto come crimine»

 avvenire.it Elisa Campisi 7 marzo 2025

Sono studentesse o rifugiate afghane, molte delle quali sono fuggite dal proprio Paese nell’agosto 2021 e adesso si stanno rifacendo una vita in Italia anche grazie all’aiuto della Fondazione Pangea. Sono scese in piazza a Roma, nell’ambito di una mobilitazione che sta toccando diversi Paesi in vista della Giornata internazionale delle donne. «Solidarietà per le donne afghane», gridano in più lingue. In alto i cartelli, anche questi in afghano, inglese e italiano. Chiedono il riconoscimento dell’apartheid delle donne come crimine contro l’umanità da parte dell’Unione europea e delle Nazioni unite. Perché, come riporta uno dei tanti cartelli al presidio, “il silenzio alimenta la crudeltà”.

Proprio loro che in qualche modo ce l’hanno fatta, avvertono il forte senso di responsabilità verso le altre e ora chiedono diritti per tutte le donne al mondo e specialmente per quelle rimaste nel loro Paese di origine. «In Afghanistan le donne non possono studiare, lavorare o uscire liberamente di casa», spiega Muzhda che oggi è qui grazie alla Fondazione, ma ricorda bene la fuga in aeroporto in quelle tragiche ore che sono passate alla storia come “la caduta di Kabul”. Dall’Italia, insieme a tutte le donne scese in piazza, «chiedo il riconoscimento della discriminazione subita come crimine contro l’umanità» perché anche in Afghanistan, come nel resto del mondo, «ognuno ha un sogno per la sua vita, ognuno ha i suoi diritti» e bisogna restituire una voce a chi ne è privato. Anche Nooria è riuscita a scappare nell’agosto 2021 grazie a Pangea, ma nonostante la paura di quei momenti allora «non riuscivo ancora a immaginare cosa sarebbe successo dopo».

«Sono passati 30 anni dalla Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sulle donne di Pechino, ma le richieste di allora sono ancora attuali», ricorda Simona Lanzoni, vicepresidente della Fondazione Pangea. «Tutto il mondo resta inerte davanti alla disumanizzazione delle donne che si sta compiendo in Afghanistan, una delle più vergognose negazioni dei diritti fondamentali e delle libertà delle donne, da quello alla formazione a quello semplicemente di cantare, per esempio», ribadisce Lanzoni.

Il presidio a Roma e quelli in contemporanea in più città sono solo una tappa in un percorso più ampio di iniziative per la rivendicazione dei diritti e della libertà di tutte. La vicepresidente serve un lavoro trasversale per la prevenzione della violenza e il rafforzamento del sistema di protezione internazionale, sia nei Paesi in pace che in quelli in conflitto, sia nei processi migratori che in quelli di integrazione negli Stati di arrivo. È in quest’ottica che Pangea sarà tra le tante realtà che parteciperanno alla sessantanovesima sessione della Commissione sulla condizione delle donne che si terrà presso la sede delle Nazioni Unite a New York dal 10 al 21 marzo 2025. «In quest’occasione chiederemo in particolare l’applicazione di quanto stabilito dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea che il 4 ottobre 2024, con una decisione storica, ha affermato che le restrizioni imposte dai talebani alle donne afghane si qualificano come “atti di persecuzione” sufficienti per ottenere automaticamente lo status di rifugiato ai sensi della Direttiva 2011/95/UE che stabilisce i parametri per la concessione della protezione internazionale nell’Ue», specifica Lanzoni. Un altro focus importante dell’appuntamento all’Onu saranno i matrimoni precoci che riguardano non solo l’Afghanistan o i contesti socio-economici più svantaggiati: «Nonostante decenni di battaglie da parte delle attiviste femministe, questo fenomeno continua impunemente e la strategia per porre fine all’impunità è fondamentale per smantellare il patriarcato e garantire che le donne siano al sicuro da qualsiasi forma di violenza». Tuttavia, se non si riesce a fare squadra non ci sarà mai il superamento di questi ostacoli, mette in guardia Lanzoni, che conclude: «”Ripartire da Sé” è il claim di Pangea, senza dimenticare nessuna e nessuno. Dobbiamo costruire una nuova stagione di diritti, proprio quella che tarda ad arrivare».

 

 

 

 

Le donne afghane fuggite dai talebani per studiare all’estero rischiano il ritorno imminente dopo i tagli all’USAID

bbc.com Yogita Limaye* 8 marzo 2025

 

«La casa per noi è come una tomba». L’Afghanistan tre anni e mezzo dopo

Il Manifesto, 8 marzo 2025, di Sara Segantin, Lorenzo Tecleme

Il racconto da Kabul «Ogni giorno ci impongono nuove leggi. Non possiamo uscire senza un parente maschio. Non possiamo lavorare. Se qualcuna protesta, viene arrestata o sparisce»

Sono passati tre anni e mezzo da quando l’esercito talebano è entrato a Kabul, ponendo fine al debole governo filo-occidentale di Ashraf Ghani e instaurando un regime di repressione e violenza che ha privato le donne dei diritti fondamentali alla libertà, all’istruzione e, spesso, anche alla vita e alla dignità.

«PRIMA DELL’ARRIVO  dei Talebani non eravamo al sicuro, era pericoloso c’erano attentati, ma almeno potevamo rivendicare i nostri diritti. Io studiavo perché volevo diventare medica. Poi non c’è stato più niente». Asmira – nome di fantasia per motivi di sicurezza – parla da Kabul. «I Talebani dicono che ‘la casa è il posto per una donna’, ma la casa è una tomba. Sono viva, ma non vivo. Ogni giorno ci impongono nuove leggi. Non possiamo uscire senza un mahram – un parente maschio. Non possiamo lavorare. Anche andare al parco è vietato. Se qualcuna protesta, viene arrestata o sparisce. Una mia amica è stata frustata perché il suo velo si era leggermente spostato mentre camminava. Io sono fortunata, la mia famiglia è ancora qui. Le donne i cui uomini sono morti o sono dovuti fuggire, come fanno? Non possono neanche fare la spesa».

I talebani controllavano ampie zone dell’Afghanistan da ben prima della presa di Kabul. Ma con la ritirata definitiva delle truppe occidentali – decisa da Donald Trump e attuata da Joe Biden – nel 2021 le grandi città sono cadute e l’esercito regolare afghano si è arreso, a una velocità che nessun analista aveva previsto. L’ex presidente Ghani è fuggito e l’Emirato Islamico dell’Afghanistan è tornato in vita.

FRA I TANTI GIOVANI che si sono battuti per la libertà dell’Afghanistan c’è Shaheen Hussian Zada, poco più di vent’anni, uno dei pochi riusciti a fuggire. «Ho sempre odiato la guerra eppure sono stato costretto a crescere in guerra. Sono l’opposto di coloro che hanno portato via la gioia e i sogni di milioni di famiglie», ci racconta. «La mia scelta l’ho fatta quando ho sacrificato tutto per difendere la mia città: o libero o morto. Per la libertà di tutti e di tutte mi batterò sempre. Ero molto giovane quando ho scelto di combattere per resistere, avevo paura, ma non volevo che i Talebani portassero via tutto. Uccidono, torturano, stuprano. Io c’ero quando nel 2021 hanno preso Herat e poi una dopo l’altra le province sono cadute. Il 15 agosto sono entrati a Kabul. Io e la mia famiglia vivevamo lì. Mi ricordo il terrore. Ho lasciato la capitale alle 13.00, circa due ore prima che arrivassero. Sono andato nel Panshir, dove ancora si resisteva. Abbiamo tenuto duro un paio di settimane, ma il mondo se n’era andato e i Talebani disponevano di armi leggere e pesanti, mentre noi avevamo poche attrezzature e poca esperienza: non eravamo soldati, eravamo solo ragazzi che volevano difendere la libertà».

SHAHEEN rappresenta un pezzo di società afghana – urbana, istruita – che da sempre guarda con ostilità all’iper-conservatorismo islamico, ma che non è riuscita ad essere un contraltare sufficiente ai Talebani. «È chiaro che se uccidi tutti quelli che la pensano diversamente e chiudi in casa metà della società magari hai meno “instabilità” e le persone forse si sentono più sicure. Ma qual è il prezzo?». «Oltre a essere ingiusto non ha senso! – gli fa eco Asmira – come fa una società a stare in piedi senza metà del suo popolo? Se queste restrizioni continueranno, il Paese dovrà affrontare problemi economici, sociali e politici sempre più gravi».

LE CANCELLERIE europee non paiono particolarmente turbate. Tra il 2018 e il 2020 circa la metà delle richieste di asilo presentate da afghani sono state respinte, il governo di Ghani prima di cadere era stato finanziato dall’Ue perché trattenesse i migranti e a poco tempo dal ritorno dei Talebani diversi Paesi – Germania, Belgio – hanno dichiarato l’Afghanistan «posto sicuro» per il rimpatrio dei migranti. «Chi è rimasto, chi è riuscito a fuggire, non è un numero in un telegiornale. Siamo persone con speranze, sofferenze, sogni. Abbiamo un’identità e una storia: vogliamo imparare, ma anche raccontare e dirvi di non dimenticare», dice Shaheen. «L’Afghanistan quello lontano e quello poco oltre le vostre porte di casa, non vuole pietà né compassione, chiede rispetto e giustizia nella sua lotta per la libertà. Sono solo un ragazzo e non ho risposte, ma ho visto cose che non volevo vedere e non voglio più che esistano. Ho visto anche la forza e il coraggio. Nelle donne afgane, che resistono a una condizione che nessuno di noi qui può immaginare. In chi in Europa non si arrende all’odio. Possiamo essere forti e liberi solo insieme, donne e uomini da ogni paese, oltre gli stereotipi e i pregiudizi per costruire un mondo in cui l’umanità sia più forte delle frontiere».

«PERCHÉ questo silenzio?», si chiede Asmira. «Le ragazze afgane non interessano a nessuno? Noi stiamo resistendo. Ma siamo sole. Più c’è libertà più c’è responsabilità. Chiedo a voi, popoli d’Europa, di unirvi alla voce del popolo afgano e di lottare contro le ingiustizie».

8 marzo. Mahdia e le ragazze senza scuola nell’Afghanistan delle madrase

Avvenire, 8 marzo 2025, di Zahra Joya, direttrice di Rukhshana Media, Londra

Alle adolescenti è vietato studiare, così l’unica alternativa all’isolamento sono le scuole religiose. Si impara a memoria il Corano «ma non abbiamo altre possibilità»

Dare voce alle donne. Quando e dove non ne hanno. Perché della loro condizione ancora troppo svantaggiata si sappia e si parli. Dal Libano all’Iraq, dal Messico alla Nigeria, dall’Afghanistan alla Somalia, dall’India al Perù: sono 10 le reti indipendenti di giornaliste che hanno aderito alla nostra proposta “Donne senza frontiere”, il progetto di Avvenire per l’8 marzo 2025. A partire da oggi pubblicheremo ogni 15 giorni un reportage di ciascuna delle reti coinvolte. Questa prima puntata è stata realizzata dalla direttrice della rete Rukhsana Media, Zahra Joya. La redazione si trova a Londra, le croniste scrivono in segreto da Kabul.

Mahdia aveva 14 anni quando, nel 2021, i taleban sono tornati al potere. Frequentava la sesta classe, l’ultimo anno della scuola primaria pubblica. Quell’agosto, non immaginava che la sua vita sarebbe cambiata drasticamente. Tra le prime azioni della nuova dittatura è arrivato il divieto di istruzione secondaria per tutte le ragazze.

Le lacrime di Mahdia e Hakima

Per le adolescenti che vivono oggi nell’Emirato islamico dell’Afghanistan non restano che le madrase. Non ci sono alternative : prendere o lasciare. Mahdia è andata a scuola solo per altri quattro mesi. L’anno successivo nulla. Lontana dai banchi, costretta a rimanere tutto il giorno a casa, è scivolata in una devastante depressione. La madre Hakima, 37 anni, ricorda ancora il dolore di quei giorni: «Vedevo mia figlia rimanere seduta in un angolo della sua stanza a piangere tutto il giorno. I taleban avevano vietato a donne e ragazze anche di uscire di casa da sole. Non avevamo nessun posto dove andare. A un certo punto si è ammalata e l’abbiamo dovuta portare in ospedale. È stato il medico, lì, a dirci che soffriva di un forte stato depressivo e che il rischio di degenerare in una grave malattia mentale era alto. Ero terrorizzata e, pensando che avrei potuto perderla, ho pianto».

Hakima ha così cominciato a cercare un modo per aiutare la figlia a uscire dal buio. «Ho parlato con alcune donne del quartiere e mi hanno suggerito – ricorda – di mandarla alla madrasa affinché potesse, almeno, rivedere le sue amiche di scuola, tenere la mente occupata e sentirsi meglio». Così è stato. Nonostante le tante perplessità, Mahdia è stata iscritta alla scuola religiosa. Come lei hanno fatto tante altre ragazze pur consapevoli che non avrebbero studiato né matematica né letteratura ma che si sarebbero dovute dedicare all’apprendimento mnemonico del Corano. Niente di paragonabile alla scuola vera. «Le materie tradizionali sono più utili ed essenziali di quelle impartite in una madrasa – insiste -. Scienza e tecnologia, per esempio, hanno un impatto più positivo sulla vita e sullo stato mentale di una persona». Tuttavia, ammette amaramente, «noi non avevamo alternative». Chi, in famiglia, non era particolarmente d’accordo con questa decisione è stata Farrokh-Liqa, la nonna 51enne. «Non ho mai mandato i miei figli alle scuole religiose – racconta – perché non sono luoghi di istruzione moderna». Mahdia stessa non è interessata all’istruzione religiosa. Per lei, andare in una madrasa è eseguire i consigli del medico e della sua famiglia, l’occasione per trascorre qualche ora fuori casa ogni giorno e visitare una moschea nei pressi della propria abitazione. «Le lezioni sono ripetitive – ammette – sempre le stesse di generazione in generazione». La giovane continua a sognare una scuola vera: «Mi piace la tecnologia e vorrei tanto studiare informatica – confida – ma finché i taleban saranno al potere so che sarà impossibile». Da quando le è stato vietato di andare a scuola, Mahdia è rimasta in contatto solo con una delle sue ex compagne: Razia. «Non era solo un’amica di classe – precisa – ma anche la persona a me più cara. Lei, che come me non può più studiare, ora trascorre il tempo tessendo tappeti con i suoi fratelli. La maggior parte delle altre è caduta in depressione».

La posa della prima pietra di una scuola religiosa nella provincia di Bamiyan, alla presenza di un gruppo di studentesse. Normalmente alle alunne non è consentito uscire dalle classi ma le autorità le invitano alla cerimonia per propaganda
La posa della prima pietra di una scuola religiosa nella provincia di Bamiyan, alla presenza di un gruppo di studentesse. Normalmente alle alunne non è consentito uscire dalle classi ma le autorità le invitano alla cerimonia per propaganda – Rukhshana Media

La grande rete delle scuole coraniche

Sotto il dominio dei taleban, le istituzioni educative del Paese hanno subito cambiamenti significativi, con un maggiore supporto ed espansione delle scuole religiose, gestite dal ministero degli Affari Religiosi, a scapito di quelle tradizionali. Attualmente, in Afghanistan, il numero delle madrase supera quello degli istituti di istruzione pubblici e privati. Secondo il ministero dell’Istruzione, questi ultimi sono circa 18mila; quelli religiosi superano quota 21.257 con oltre tre milioni di giovani iscritti. All’inizio dell’anno scolastico 1401 del calendario afghano (marzo 2022 in Occidente) il leader dei taleban, Hibatullah Akhundzada, ha emesso un decreto per la creazione di “scuole jihadiste” incoraggiandone l’istituzione in ciascuna provincia, con una capacità di accogliere fino a 1.000 studenti. Tre mesi dopo, la prima di questo tipo è stata inaugurata nell’area di “Pul-e-Charkhi”, a est di Kabul. Le autorità l’hanno definita la più grande del Paese. Entro la fine dell’anno, i funzionari taleban hanno annunciato che una scuola jihadista centrale era stata istituita in tutte le 34 province dell’Afghanistan.

Il governo islamico non si è opposto all’istruzione laica in senso assoluto. I ragazzi possono ancora andare a scuola ma non le giovani che devono concludere il ciclo di studi al sesto (e ultimo) livello della formazione primaria, tra 12 e 14 anni. L’Afghanistan è ora l’unico Paese al mondo in cui le bambine sono private del fondamentale diritto allo studio. A loro sono precluse le classi secondarie e l’università. Per tutta risposta, il ministero dell’Istruzione ribadisce che non ci sono «restrizioni di età» per l’educazione femminile nelle scuole religiose. Le donne, questo racconta la cronaca che arriva da alcune comunità, come quella di Bamiyan, vengono invitate alle cerimonie di inaugurazione delle nuove madrase, o alla deposizione della prima pietra di quelle che verranno costruite, solo per propaganda. A loro, in genere, è proibito uscire dalle aule.

Quaderno e penna per Sharifa

Sharifa, 13 anni, attualmente frequenta la sesta classe e, durante le vacanze invernali, per quattro ore al giorno segue anche le lezioni di una madrasa a Kabul. «Gli studi religiosi sono utili, imparo molte cose ma – precisa – ma sono preoccupata perché alla fine di quest’anno non potrò più proseguire il mio percorso di istruzione. Spero che il regime talebano cada». Fatima, la madre 51enne, dice che può permettersi di mandare a scuola solo una delle sue figlie femmine. «Mio figlio ha studiato fino alla nona classe ma – confessa – non avevamo la disponibilità economica per poterlo aiutare a proseguire». La donna spiega che andava a scuola anche un altro dei suoi maschietti ma quattro anni fa, ricorda, «al suo istituto c’è stato un attentato suicida, si è molto spaventato e non è mai più tornato in classe». «Mio marito lavora alla giornata ma – conclude – non in maniera continuativa perché a volte non trova nessuno che lo ingaggi. La sua paga, quando ce l’ha, è di 60 afghani al giorno. All’inizio dell’anno scolastico sono riuscita a comprare per Sharifa un quaderno e una penna per 50 afghani».

Rukhshana Media è una piattaforma in lingua inglese e dari specificatamente dedicata alla questione femminile in Afghanistan. L’ha fondata nel 2020 la giornalista Zahra Joya che oggi continua a dirigerla da Londra, dove vive in esilio. Della rete fanno parte reporter che, da Kabul, lavorano in segreto e sotto pseudonimo per motivi di sicurezza. Rukhshana è il nome di una diciannovenne, di un villaggio della provincia di Ghor, che nel 2015 è stata brutalmente lapidata e uccisa per adulterio: aveva deciso di rompere un matrimonio forzato e fuggire con l’uomo che amava. Il video di 30 secondi che documentava i suoi ultimi istanti di vita, in una fossa scavata sulla collina brulla con un gruppo di uomini a guardarla morire, fece allora il giro del mondo. «In una società che punisce le scelte fondamentali delle donne – si legge nella presentazione del portale – raccontare le loro storie è una sfida che accogliamo per generare dibattiti e informare, per analizzare e indagare le problematiche legate alla condizione femminile nel nostro Paese». La direttrice Joya, oggi 33enne, racconta che da bambina, durante il primo regime taleban, si travestiva da ragazzo per poter andare a scuola. Costretta a fuggire da Kabul nel 2021, con il ritorno al potere dei fondamentalisti islamici, la giornalista continua a lottare dal Regno Unito per i diritti delle donne afghane e per raccontare le loro sofferenze e denunciare il regime di apartheid di genere imposto dai taleban. Nel 2022 è stata nominata “Donna dell’Anno” dalla rivista Time proprio per il suo lavoro. Le storie pubblicate da Rukhshana Media sono il frutto di inchieste realizzate in tutte le province dell’Afghanistan, anche in quelle più remote, essenziali ad aprire una finestra di informazione qualificata utile anche ai media internazionali e alla diaspora afghana nel mondo.

Crimini di genere in Afghanistan: la CPI contro i leader talebani

Il Caffè Geopolitico, 7 marzo 2025, di Federica Leone

In 3 sorsi – Lo scorso 23 gennaio la richiesta di mandato d’arresto alla Corte Penale Internazionale (CPI) contro i leader talebani per il trattamento riservato alle donne afghane ha rappresentato una pietra miliare nella tutela dei diritti umani. I talebani, all’indomani dell’ascesa al potere nel 2021, hanno imposto regole draconiane sulle donne, rendendole sempre più escluse dalle attività istituzionali, lavorative e pubbliche. Un’apartheid di genere che ha sollevato accuse di crimini contro l’umanità, inducendo la comunità internazionale a ricorrere ad azioni giudiziarie contro la leadership talebana.

1. L’AFGHANISTAN E IL SUO CONTESTO POLITICO
Cerniera diplomatica tra Pakistan, Uzbekistan, Iran, Turkmenistan e Cina, la natura geografica afghana ha influenzato e influenza ancor oggi la storia di questo Stato. L’Afghanistan ha da sempre rappresentato un crocevia strategico tra Asia Meridionale e mondo occidentale, divenendo teatro di conflitti e di innumerevoli invasioni. Da mosaico etnico frammentato, si consolidò in un’unica entità statale nel 1746, mantenendo per oltre due secoli una relativa stabilità sotto il potere monarchico, nonostante le tensioni tribali. Il 1973 segnò una svolta con il colpo di Stato di Mohammed Daoud, il quale tentò una politica di equilibrio tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Tuttavia, nel 1978 il partito comunista Khalq rovesciò il regime, instaurando un Governo sostenuto da Mosca e caratterizzato da profonde divisioni interne. L’occupazione sovietica trovò resistenza nei mujaheddin, ai quali si affiancarono i talebani, militanti formatisi nelle scuole coraniche sotto la guida del Mullah Omar. Con il supporto di Osama bin Laden e Al Qaeda, i talebani imposero un regime fondamentalista, dominando il Paese fino all’intervento internazionale del 2001. Tuttavia, il ritiro delle truppe americane nell’agosto 2021 ha segnato il ritorno dei talebani al potere, riportando il Paese sotto un regime autoritario. Nel novembre 2022, il Governo talebano ha promulgato il Codice Akhundzada, un corpus normativo composto da trentacinque articoli e sottoscritto dal “Comandante dei fedeli”, con l’obiettivo dichiarato di promuovere la virtù e reprimere il vizio. Tale documento ha introdotto un ulteriore irrigidimento delle restrizioni sui diritti delle donne e sulle libertà individuali. In particolare, le disposizioni colpiscono le donne, imponendo loro non soltanto l’obbligo di coprire interamente il corpo negli spazi pubblici, ma anche il dovere di osservare il silenzio, poiché la voce femminile è ritenuta un potenziale strumento di corruzione morale.

2. APARTHEID DI GENERE
Le misure adottate dai fondamentalisti afghani, nei confronti delle proprie donne, sono state profondamente criticate da diverse organizzazioni per i diritti umani. Queste ultime hanno denunciato le politiche estremistiche dei talebani come una forma di persecuzione di genere, un crimine contro l’umanità ai sensi dello Statuto di Roma, ratificato nel 2003 dall’Afghanistan. Una reale apartheid di genere che vede l’esclusione delle donne da quasi ogni aspetto della vita pubblica compresi l’accesso all’istruzione, al sistema giudiziario e alle cure mediche. Persino la Procura della Corte Penale Internazionale ha giudicato il comportamento del regime talebano come una repressione pianificata contro una parte specifica della popolazione, istituendo un vero e proprio regime discriminatorio e oppressivo nei riguardi delle donne.

3. PROVVEDIMENTO DELLA CORTE E IMPLICAZIONI INTERNAZIONALI
L’eventuale decisione della Corte Penale Internazionale di emettere un mandato di arresto nei riguardi dei leader talebani rappresenterebbe un punto di svolta nella dottrina in materia di diritti umani. Ciononostante, ai fini di ottenere la possibilità concreta di arrestare e processare il regime talebano, questi mandati richiedono una solida cooperazione tra gli Stati membri. A giocare un ruolo determinante è pertanto la risposta della comunità internazionale. In particolare, Cina, Russia e Pakistan potrebbero influenzare l’esito del procedimento, ponendo effettivamente ostacoli sull’applicazione delle misure della Corte. In ottica diplomatica, l’istanza in oggetto potrebbe richiedere maggiori pressioni su Governi e Istituzioni affinché adottino rigide sanzioni contro il regime
talebano. Certamente, l’impatto di tali provvedimenti dipenderà dall’impegno tangibile degli attori coinvolti. In definitiva, l’iniziativa della CPI segna un passo cruciale nella condanna delle discriminazioni di genere e, più precisamente, nella difesa dei diritti delle donne afghane. Sebbene il percorso rimanga complesso, la comunità internazionale potrebbe intensificare la pressione sul regime afghano, favorendo un miglioramento delle condizioni di vita delle donne del Paese. Un intervento che potrebbe rappresentare un primo passo verso una giustizia effettiva e duratura, in grado di poter rompere il silenzio delle innocenti vittime afghane.