Skip to main content

Tag: Diritti delle donne

Comunicato Stampa – 8 marzo 2025: è tempo di liberarsi dal patriarcato in tutto il mondo

Cisda, 4 marzo 2025 

Il secolo corrente deve essere il tempo in cui le donne, in ogni parte del mondo, prendono in mano le loro sorti e lottano insieme per liberarsi dal patriarcato.

Noi donne del CISDA che da oltre 25 anni lavoriamo a fianco delle donne afghane di RAWA

(Revolutionary Association of the Women of Afghanistan), sappiamo che la loro lotta non è altro che un tassello delle lotte delle donne che in ogni angolo del pianeta si ribellano all’oppressione e al patriarcato in tutte le sue forme.

Sotto il regime dei fondamentalisti talebani le donne afghane sono oggi tra le più oppresse al mondo: non possono studiare, lavorare, uscire di casa sole, e quando escono devono coprire il proprio corpo da capo a piedi. Un vero e proprio apartheid di genere che ha l’obiettivo di annientare sistematicamente le donne e la loro volontà di lotta, che è un esempio di coraggio e resistenza.

Ovunque il fondamentalismo crea apartheid di genere. L’Afghanistan, a partire dalla fine degli anni ’70, ha subito ingerenze straniere da parte di potenze internazionali e regionali che hanno finanziato e armato gruppi fondamentalisti per sostenere la propria egemonia coloniale.

Noi lottiamo con loro, ma sappiamo anche che fino a che ci sarà anche una sola donna schiava e oppressa nessuna sarà libera.

Viviamo un tempo disperante, in cui il sistema capitalista e patriarcale sta facendo passare come inevitabili militarizzazione della società, guerre, cambiamenti climatici, disumanizzazione e genocidio di interi popoli, dei migranti e delle persone razializzate. Il fascismo, ormai dilagante in tutto il mondo occidentale e non solo, ha come primo target le donne, a cui viene chiesto di ridurre il proprio ruolo a quello di fattrici e forza di lavoro gratuita o sfruttata e sottopagata.

Questa disperazione, soprattutto per noi donne, deve trasformarsi in una lotta comune contro la violenza, il femminicidio, il fascismo, le politiche genocide e le guerre, tutti tasselli di un medesimo disegno di un sistema in profonda crisi.

Contro l’apartheid di genere in Afghanistan e ovunque nel mondo.

Contro tutti i fondamentalismi che imprigionano le donne

Afghanistan. Dalla lama della “democrazia statunitense”, alla decapitazione islamista

Confronti, Marzo 2025 (Cartaceo)

Di Enrico Campofreda

Il numero di marzo è dedicato alle donne, protagoniste assolute di queste pagine. In apertura Enrico Campofreda ha intervistato l’attivista Shaqiba della Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (Rawa) che denuncia il drammatico peggioramento della condizione femminile sotto il regime talebano. Il Paese è diventato una prigione tra restrizioni, esclusione dall’istruzione e dal lavoro, matrimoni forzati e abusi

L’attivista Shaqiba della Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (Rawa) denuncia il drammatico peggioramento della condizione femminile sotto il regime talebano. Dopo le prime proteste represse con violenza, le donne afghane sono costrette a manifestare in clandestinità, mentre il Paese è diventato una prigione tra restrizioni, esclusione dall’istruzione e dal lavoro, matrimoni forzati e abusi.

Il contesto attuale in Afghanistan, dopo il ritorno al potere dei talebani nell’agosto 2021, è segnato da una drammatica regressione nei diritti delle donne. Le manifestazioni di protesta femminili, che nelle prime settimane dall’ascesa del regime erano vigorose, sono state brutalmente soffocate con arresti, torture e violenze sessuali. Nonostante il regime talebano abbia cercato di rendere impossibile ogni forma di dissenso pubblico, molte attiviste continuano a lottare in modo clandestino, usando i social media come strumento di denuncia.
La situazione delle donne afghane si è progressivamente deteriorata tanto che, a febbraio scorso, il procuratore della Corte penale internazionale, Karim Khan, ha annunciato di aver richiesto due mandati d’arresto per il leader supremo dei Talebani, Haibatullah Akhundzada, e il presidente della Corte Suprema afghana, Abdul Hakim Haqqani, accusati di crimini contro l’umanità per persecuzione di genere.

In questa situazione abbiamo intervistato Shaqiba, un’attivista di Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (Rawa), che ha recentemente intrapreso un tour in Europa per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla drammaticità della condizione femminile nell’Afghanistan talebano. In Italia, Shaqiba è stata ospite del Coordinamento italiano sostegno donne afghane (Cisda – cisda.it), un’associazione che da oltre venticinque anni si batte al fianco delle donne afghane, cercando di portare alla luce le atrocità perpetrate dal regime talebano e sostenendo le attiviste che, a rischio della propria vita, continuano a lottare per i diritti delle donne in Afghanistan.

Dopo le combattive manifestazioni femminili nelle prime settimane del secondo Emirato, le proteste di strada sono ormai impossibili?
Subito dopo l’ascesa al potere dei talebani nell’ago- sto 2021 le donne di diverse aree afghane sono scese in piazza per opporre
Molte di loro sono state arrestate, imprigionate, torturate e, in alcuni casi, sono stati documentati rapporti di stupro e molestie sessuali. I talebani hanno storicamente usato vari mezzi per control- lare e imporre il silenzio fra le persone che catturano o rilasciano.
La strategia di costringere i prigionieri a firma- re accordi sotto minaccia di morte o detenzione è una tattica comune per reprimere il dissenso e mantenere il controllo tramite l’intimidazione. Tuttavia, è difficile documentare queste viola- zioni, poiché i sopravvissuti temono ritorsioni. Alcune donne hanno denunciato crimini durante la detenzione, ma la repressione e le minacce hanno spinto molte a manifestare in spazi chiusi. Le proteste si spostano online, dove le attiviste esprimono il loro dissenso contro un regime misogino. Non c’è nessuna accettazione del sistema, ribadiamo che la ragione per cui le attiviste hanno ridotto le proteste di strada è la coercizione.

Da cosa sono oppresse oggi le donne afghane?
L’Afghanistan è diventato una prigione per le donne, con restrizioni sempre più severe. La disoccupazione, la povertà e le pressioni psicologi- che portano a un aumento dei suicidi femminili. Ogni giorno emergono crimini gravi come esecuzioni pubbliche, femminicidi, matrimoni forzati e vendite di ragazze per miseria. Le studentesse – come nel caso dell’Università Kankor – sono escluse dagli esami di ammissione, le docenti licenziate e gli istituti medici chiusi. Le donne non possono viaggiare senza un accompagnatore maschio [mahram] e le Ong ancora presenti sul territorio sono costrette a rinunciare alle dipendenti femminili. Negli ultimi venticinque anni le donne afghane hanno sofferto sotto la lama della cosiddetta democrazia sostenuta dagli Stati Uniti, ora sono decapitate sotto la maschera dell’Islam.

In che modo, rispetto ai governi precedenti, la protezione delle donne è peggiorata?
Prima del ritorno dei talebani, le donne vivevano già in condizioni precarie. Molti distretti erano sotto il controllo dei fondamentalisti, sebbene go- vernasse Ashraf Ghani e con gli esecutivi sostenuti dagli Stati Uniti. Nell’ottobre 2015, Rukhshana, una giovane di Ghor, è stata pubblicamente lapidata a morte per essere “presumibilmente” fuggita da casa. A quell’epoca i funzionari governativi hanno violentato decine di donne. Auto-immolazione, taglio del naso e delle orecchie alle donne dilaga- vano. A Mazar-e-Sharif una bimba di nove anni venne scambiata con un cane. Parecchi conosco- no la tragica vicenda di Farkhunda che nel marzo 2015 fu assassinata e bruciata a pochi chilometri dal Palazzo presidenziale. La violenza, tra cui suicidi, mutilazioni e matrimoni forzati, era diffusa, mentre i media affermavano che la condizione del- le donne migliorava. È vero che la Costituzione afghana dell’epoca prevedeva la parità fra i generi e che la legge sull’eliminazione della violenza contro le donne è statale, ma questa norma rimaneva solo un pezzo di carta inapplicato e inutilizzato nei tribunali. Tutto ciò accadeva perché diversi jihadisti [signori della guerra come Gulbuddin Hekmatyar, Karim Khalili, Abdul Rashid Dostum] facevano parte dei governi Karzai e Ghani. Al loro fondamentalismo è stato dato un falso volto democratico proprio dalla linea di condotta statunitense. La corruzione e la presenza di jihadisti al potere hanno peggiorato la situazione, culminando nel crollo del governo e nel ritorno del regime tale- bano, che ha eliminato le poche libertà rimaste. Vedove e donne divorziate ora affrontano la stessa sorte delle altre afghane. Le donne che erano sta- te precedentemente separate dai loro mariti sono state costrette a rientrare in casa e le Corti talebane emettono sentenze sulla base della Shari’a.

LE DONNE ERANO GIÀ IN UNA SITUA- ZIONE PRECARIA, MA ORA L’AFGHA- NISTAN È DIVENTATO UNA GRANDE PRIGIONE PER LE DONNE.

Cosa riesce a fare la rete di Rawa?
Rawa continua a essere attiva in campo politico, sociale e umanitario. Ora opera in clandestinità e perlopiù organizza corsi domestici di alfabetizza- zione, inglese, scienze e matematica per ragazze in età scolare e donne analfabete. Gestisce inoltre istituti per bambini in aree remote e offre assistenza sanitaria tramite una squadra mobile che interviene nei momenti di crisi, come terremoti, inondazioni e altre calamità. Tra le attività umanitarie figura anche la distribuzione di pacchi alimentari a famiglie povere e disoccupati durante le emergenze. L’obiettivo principale è aumentare la consapevolezza politica di donne e giovani, mobilitandoli e organizzandoli. Coordina pro- teste contro il regime dei taliban celebrando anniversari come l’8 marzo o il martirio di Meena Keshwar Kamal [fondatrice di Rawa assassinata nel novembre 1987]. Attraverso la sua rivista e il sito web, diffonde notizie sulla situazione interna, pubblica articoli analitici sul ruolo degli Stati Uniti nel sostenere il fondamentalismo e riporta le attività dei suoi membri in tutto il mondo. Per garantire la sicurezza delle attiviste, le iniziative vengono pubblicizzate con discrezione.

Le attiviste di Rawa possono ancora agire all’interno del Paese o sono costrette a vivere all’estero?
Le attiviste possono muoversi in diverse aree del Paese, ma devono prestare grande attenzione alla sicurezza per evitare di essere individuate e arre- state. Nonostante le difficoltà, Rawa ha scelto di rimanere in Afghanistan, accanto a chi ha perso tutto. Lasciare il Paese e vivere all’estero sarebbe l’opzione più semplice, ma il nostro impegno è es- sere un punto di riferimento per la popolazione, contribuendo alla sensibilizzazione e alla lotta per un futuro migliore.

Perché molti intellettuali e giovani hanno lasciato il Paese e non hanno scelto la resistenza?
Molti intellettuali e persone istruite, che avevano lavorato in importanti istituzioni durante il ventennio dei governi sostenuti dagli Stati Uniti, sono stati successivamente evacuati dopo la riconquista talebana di Kabul. Tuttavia, non hanno pensato alla resistenza, mancando di senso di responsabilità e patriottismo. Molti giovani, spinti dalla mancanza di lavoro, hanno lasciato l’Afghanistan e continuano a farlo, con diverse famiglie che inviano membri all’estero per mantenere con le rimesse i parenti in loco. Ma la scelta di rimanere in Afghanistan e lottare non è limitata al sesso o all’età. Abbiamo visto che tante donne si sono ribellate e hanno combattuto contro il governo talebano più degli uomini. Nelle rischiose circostanze delle proteste gli uomini sono facilmente identificabili, loro non possono celarsi dietro il burqa… Se arrestati rischiano più facilmente la tortura. Ed è il motivo per cui alcune contestazioni maschili restano virtuali, utilizzando i social media.

La crescente precarietà dipende anche dal calo del sostegno esterno e dall’intensificarsi della crisi in Medio Oriente?
Negli ultimi vent’anni di occupazione Nato, in- genti fondi sono arrivati in Afghanistan, ma anziché essere destinati a progetti strutturali come infrastrutture e trasformazioni durature, sono stati sprecati in corruzione e ruberie politiche. Traditori come Abd al-Rasul Sayyaf, Yunus Qanuni, Muhammad Mohaqiq, Karim Khalili e membri dell’Alleanza del Nord che erano al potere, accumulavano grandi ricchezze, mentre la maggioranza della gente diventava sempre più povera. Con l’a- scesa dei talebani, oltre alla cacciata delle donne da lavori pubblici e privati, molte aziende e istituzioni hanno chiuso, peggiorando ulteriormente l’economia. Sebbene i talebani ricevano milioni di dollari settimanali da Stati Uniti e altri Paesi, grazie anche al traffico di oppio e alla cessione di risorse minerarie, è la popolazione a pagare il prezzo, soffrendo sotto un regime oppressivo. Nonostante le gravi condizioni, l’attenzione internazionale è di- minuita, e le crisi umanitarie in Afghanistan vengono raramente riportate dai media globali.

Gli hazara, oltre agli attacchi dell’Isis-K, sono vittime di arresti, privazioni e discriminazioni da parte dei talebani. È possibile fermare questo razzismo?
Sostenendo i fondamentalisti alla Sayyaf, Hekmatyar, Rabbani, Massoud, Mohaqiq, Khalili e i taliban, gli Stati Uniti hanno contribuito a favorire le divisioni etniche e settarie in Afghanistan. Questo ha rappresentato uno dei ruoli distruttivi di Usa, Pakistan, Iran nel dividere le etnie interne e incitarle all’odio. La discriminazione religiosa è stata prevalente durante i quarant’anni di conflitto. Il razzismo, la discriminazione, la tortura e l’uccisione delle minoranze possono essere fermati solo se gli americani e i loro alleati smettono di finanziare e sostenere gruppi terroristici. Nei Paesi in guerra le discriminazioni razziale e religiosa sono fomentate per impedire l’unità delle persone, assicurando che i gruppi etnici e confessionali si combattano e i governi-fantoccio traggano vantaggio dalle divisioni. Il razzismo e la discrimina- zione possono essere sradicati solo con l’istituzione d’un sistema democratico secolarista.

Esistono in Afghanistan progetti politici e leader in grado di allontanare il Paese dal fondamentalismo e dal tribalismo?
Alcune organizzazioni politiche e sociali mira- no a coinvolgere i cittadini contro le limitazioni dell’estremismo religioso e dell’esasperazione etnica. Personalmente cito il movimento Rawa e il Partito della solidarietà, entrambi s’oppongono ai fondamentalismi e li combattono senza timori e compromessi.

SCARICA QUI il pdf dell’articolo

 

“Bettolle: libere di essere”, viaggio nella condizione femminile

SienaPost, 3 marzo 2025

Tra oppressione e lotta per i diritti. Il focus sulle donne afgane. Evento toccante alla Biblioteca BiBet

L’iniziativa, – la prima tra quelle in programma nel ricco calendario dei dieci comuni della Valdichiana – promossa dagli Assessorati Cultura, Politiche di Genere, Politiche Sociali e Pari Opportunità del Comune di Sinalunga, ha offerto uno spaccato della condizione femminile nel mondo, con un focus particolare sulla situazione delle donne afghane.

L’incontro “A tu per tu con Cristiana Cella” ha rappresentato il cuore della serata. La giornalista, scrittrice e sceneggiatrice, da anni impegnata nella difesa dei diritti delle donne afghane, ha condiviso la sua profonda conoscenza della realtà afghana, offrendo un quadro lucido e dettagliato delle sfide che le donne affrontano quotidianamente.

Afghanistan: una lotta per la sopravvivenza
Cristiana Cella ha ripercorso la storia recente dell’Afghanistan, sottolineando come il regime talebano abbia drasticamente limitato i diritti delle donne, relegandole a un ruolo marginale nella società. Ha denunciato le violazioni dei diritti umani, la negazione dell’istruzione e del lavoro, e la repressione di qualsiasi forma di dissenso.

Resistenza, speranza e domande senza risposta
Nonostante le difficoltà, Cella ha evidenziato la resilienza e la forza delle donne afghane, che continuano a lottare per i loro diritti e per un futuro migliore. Ha ricordato figure emblematiche come Meena Keshwar Kamal, fondatrice della RAWA, e le tante attiviste che, anche in condizioni estreme, non rinunciano alla speranza. All’uscita una partecipante ci ha detto: “mi perseguita una domanda: perché questo accanimento crudele e continuato nei confronti delle donne? Qual è l’obiettivo che si vuole perseguire? Perché le vogliamo annientare e rendere invisibili? Perché, le donne fanno tanta paura? L’iniziativa ha cercato di rispondere a queste domande. Ma nessuna risposta ha motivato fino in fondo gli atteggiamenti di distruzione.

Impegno dell’Italia e le mozioni per il riconoscimento dei crimini
L’incontro ha offerto l’occasione per fare il punto sulle iniziative italiane a sostegno delle donne afghane. Il CISDA, rappresenta un punto di riferimento importante, così come le numerose associazioni e organizzazioni che si impegnano a sensibilizzare l’opinione pubblica e a fornire aiuto concreto. In particolare, è emerso l’impegno nel presentare ordini del giorno in tutta Italia per chiedere il riconoscimento dei crimini dei talebani come crimini contro l’umanità di genere. Le rappresentanti istituzionali presenti hanno inoltre promesso che proporranno all’unione dei Comuni della Valdichiana una mozione in tal senso.

Un messaggio di speranza
La serata “Libere di essere” ha rappresentato un’occasione per riflettere sulla condizione femminile nel mondo e per ribadire l’importanza della lotta per i diritti delle donne. L’incontro con Cristiana Cella ha lasciato un messaggio di speranza: anche nelle situazioni più difficili, la determinazione e la solidarietà possono fare la differenza.

La mostra fotografica “Viosiolapse”
A corollario dell’incontro, la mostra fotografica “Viosiolapse” ha offerto un’ulteriore testimonianza della forza e della bellezza delle donne, attraverso gli scatti di Sofia Pericoli e il make-up di Renata Pappano.

L’evento si è concluso con un aperitivo, un momento di convivialità e di scambio di idee. L’iniziativa “Libere di essere” ha dimostrato come la cultura e l’impegno civile possano contribuire a costruire una società più giusta e inclusiva, dove i diritti delle donne siano pienamente riconosciuti e rispettati.

I talebani mandano le figlie in scuole “occidentali”


L’attore e filantropo scozzese David Hayman ha affermato che i talebani stanno mandando le loro figlie in una scuola in Afghanistan finanziata dalla sua organizzazione benefica, Spirit Aid

Kabul Now, 26 febbraio 2025

In un’intervista al quotidiano scozzese The Herald, Hayman ha affermato che attualmente la scuola accoglie circa 80 studenti, sia maschi che femmine.

“Ho ancora la mia piccola scuola in Afghanistan, che ospita 80 alunni, ragazzi e ragazze. I talebani mandano le loro figlie a scuola”, ha detto.

Hayman ha condannato le azioni dei talebani, definendoli “bastardi doppi” per aver negato l’istruzione alla maggior parte delle ragazze afghane, mentre vi iscrivevano le proprie figlie.

Non ha rivelato l’ubicazione della scuola in Afghanistan.

L’attore, che ha fondato Spirit Aid nel 2001, ha dichiarato che spera di mettere in scena un’opera teatrale che metta in luce la difficile situazione delle donne afghane.

“Le donne sono ormai delle non cittadine, non possono più ridere o cantare nelle loro case, dove l’istruzione è limitata alla scuola primaria e non possono accettare un lavoro”, ha affermato.

Secondo il sito web dell’organizzazione benefica, Spirit Aid è attiva in Afghanistan dal 2002 e fornisce aiuti umanitari, tra cui servizi medici, alle comunità isolate.

Dopo il loro ritorno al potere nel 2021 i talebani hanno vietato l’istruzione alle ragazze oltre la sesta elementare e hanno escluso le donne dalle università e dalla maggior parte dei lavori. Nonostante i ripetuti appelli delle Nazioni Unite, delle organizzazioni per i diritti umani e della comunità internazionale, compresi i paesi islamici, i talebani non hanno ancora invertito le loro politiche.

Tuttavia, diversi resoconti indicano che alcuni membri senior dei talebani stanno silenziosamente assicurando l’istruzione alle proprie figlie. Un‘indagine del 2022 dell’Afghanistan Analysts Network (AAN) ha scoperto che membri di alto rango dei talebani stanno mandando le proprie figlie in scuole e università all’estero.

AAN ha citato un funzionario talebano in Qatar che ha ammesso di aver iscritto le sue figlie nelle scuole locali: “Dato che tutti nel quartiere andavano a scuola, le nostre figlie hanno preteso di andarci anche loro”.

Il rapporto ha anche scoperto che la figlia di un attuale ministro talebano sta studiando medicina presso un’università in Qatar.

“I membri dei talebani e le loro famiglie che vivono qui [in Qatar] hanno forti richieste per un’istruzione moderna, e nessuno si oppone né per i ragazzi né per le ragazze, di qualsiasi età”, ha detto ad AAN un ex funzionario talebano di stanza in Qatar.

Resistenze femminili a Kabul (o Teheran)

Cristina Giudici, il Post, 25 febbraio 2025

«Credo di avere intuito cosa sia il coraggio solamente quando ho cominciato a conoscere le storie di donne afghane e iraniane che si sono ribellate al fondamentalismo religioso per combattere l’apartheid di genere»

Alla fine degli anni Ottanta vivevo a Managua. Per incontrare i gruppi armati controrivoluzionari dei Contras, andai in un territorio minato in una foresta del Nicaragua. Ero convinta di fare la cosa giusta per stare dalla parte dei sandinisti (che hanno fatto una bruttissima fine, ma questa è un’altra storia). Fu un atto di coraggio? Non so, ma ci voleva parecchia incoscienza per trovarsi in quel luogo. Feci molte altre esperienze simili, soprattutto all’inizio del mio lavoro da giornalista.

Sono andata da sola nella foresta amazzonica peruviana, certa di incontrare un leader leggendario dei guerriglieri Tupac Amaru sulla base di una vaga promessa ottenuta da un loro dirigente che si era trasferito in Germania dopo essere rimasto cieco per aver maneggiato ordigni esplosivi rudimentali. Ci rimasi diversi giorni da sola, camminando giorno e notte, senza una rete di sostegno su cui contare. Alla fine il gran capo non si fece vedere. Incontrai solo agguerriti soldati dell’esercito che mi scacciarono dalla zona del conflitto. Anche quella fu una scelta rischiosa che non avrebbe certo reso il mondo migliore.

Racconto questi episodi, magari un po’ deformati dalla memoria, perché non è stato sfidando la ragionevolezza per inseguire il mio spirito di avventura e il desiderio di un giornalismo “in presa diretta” che ho capito cosa sia il coraggio. Credo di averlo intuito solamente quando ho cominciato a conoscere le storie di donne afghane e iraniane che si sono ribellate al fondamentalismo religioso per combattere pacificamente regimi che impongono l’apartheid di genere. Ma non è possibile cogliere appieno la forza di una donna disposta a immolarsi anche solo per ottenere il diritto di vedere una partita di calcio dal vivo.

La forza delle donne

Sahar Khodayari aka Blue Girl si è data fuoco il 2 settembre 2019 per non sottostare al processo che la vedeva imputata per essere entrata in abiti maschili in uno stadio, interdetto alle donne dal 1981, due anni dopo l’ascesa al potere dell’ayatollah Ruhollah Khomeini. Grazie al suo gesto, il 25 agosto del 2022 cinquecento donne hanno potuto assistere a una partita di calcio del campionato nazionale nello stadio Azadi di Teheran e cantare in coro dagli spalti Girl Blue di Stevie Wonder: «Bambina, sei triste. Anche se tutto quello che hai è visibile a te, nel tuo cuore resta una parte che è blu come il cielo».

Samia Hamasi, invece, si è ribellata per giocare. L’ho incontrata in un centro di accoglienza milanese dove era arrivata nell’agosto del 2021 in fuga dall’Afghanistan riconquistato dai talebani e vergognosamente abbandonato dalla missione internazionale guidata dalla NATO (dopo aver spacciato dosi massicce di tesi infondate su come la democrazia potesse essere esportata con le armi). Indossava i jeans e una t-shirt della sua squadra.

La sua passione per il calcio – mi ha raccontato in inglese stentato – era nata guardando Holly e Benji, un cartone animato giapponese, poi era diventata calciatrice e allenatrice della squadra femminile afghana under 17. Il suo racconto si è improvvisamente interrotto quando un altro profugo afghano si è avvicinato. Davanti alla sua espressione corrucciata, ho smesso di farle le domande e ci siamo lasciate con la promessa di risentirci al telefono e rivederci presto. Invece è scomparsa. «Ho preso un treno per Hannover, ho avuto dei problemi. Ti chiamo presto, ciao Sam», mi ha scritto prima di inabissarsi di nuovo.

Semplicemente ineluttabile

È stata lei a dettare i tempi dei nostri contatti, che ho accettato perché sentivo la necessità di conoscere i dettagli della sua storia e di come era riuscita a scappare, mentre gli studenti coranici le puntavano contro il fucile. Sapevo che Samia vagava fra l’Italia, dove ogni tanto tornava per vedere sua madre, e la Germania, dove sperava di ottenere l’asilo e l’opportunità di scendere in campo di nuovo. Ci siamo ritrovate un anno dopo il nostro primo incontro. Era riuscita a ricominciare a giocare con il VfL Bienrode, una squadra di Braunschweig, in Bassa Sassonia. Mi ha mostrato i suoi disegni: si era autoritratta coperta da un burqa ma abbracciata a un pallone, davanti allo sguardo di un talebano con una frusta. «L’ho fatto per ricordarmi come sarebbe andata a finire se non fossi scappata», mi ha detto. Le ho chiesto dove avesse trovato il coraggio, ha alzato le spalle, con un’espressione scanzonata come se fosse stato semplicemente ineluttabile.

Ho fatto la stessa domanda ad Atefa Ghafoory, giornalista afghana di Herat, che mi aveva raccontato di quando i talebani avevano devastato la sua casa, picchiato il padre e ammazzato lo zio. Prima di riuscire a oltrepassare i confini e arrivare in Europa, aveva dovuto attraversare il paese con il figlio in braccio e i genitori anziani, cambiando cinquanta rifugi in tre mesi. Era angosciata all’idea di non poter salvare altre donne, alcune delle quali resistono e costruiscono scuole clandestine, rimaste in un paese dove ora alle donne si impedisce perfino di avere una finestra. Anche Atefa Ghafoory mi ha risposto con un sorriso: «Vuol dire fare ciò che è necessario, ma è comunque troppo poco».

Vorrei tanto sapere dove abbia trovato la forza anche Khalida Popal, che nel 2007 ha fondato la nazionale femminile di calcio dell’Afghanistan, ed è stata così abile e intelligente da diventare responsabile finanziaria della federazione afghana di calcio e sfidare gli uomini che preferivano restare senza stipendio piuttosto che prendere l’assegno mensile dalle sue mani. Recentemente ho letto la sua autobiografia, My Beautiful Sisters, non ancora tradotta in Italia. Khalida racconta di aver iniziato a palleggiare in un campo profughi in Pakistan nel 1996, quando aveva solo nove anni, dopo la fuga della famiglia durante il primo emirato dei talebani, e di aver continuato anche una volta rientrata a Kabul, protetta dalle alte mura del cortile della scuola e dalla complicità della madre, insegnante di educazione fisica.

All’inizio di ogni capitolo Khalida Popal, che a scuola veniva soprannominata la «calciatrice matta», riassume la sua filosofia sportiva con un paragrafo che si conclude sempre con la stessa frase: «Apri gli occhi».

“Apri gli occhi”

«La lingua del calcio è la lingua della guerra. Il tuo allenatore è il generale e voi siete i soldati. Strategia e tiri. Difesa e attacco. Devi vincere le tue battaglie. L’inno nazionale suona e la folla versa lacrime patriottiche. Ma è anche un gioco. In questa tensione tra conflitto e gioco, distruzione e creazione, c’è qualcosa di essenzialmente umano. Apri gli occhi».

Dopo essere stata minacciata, aggredita e intrappolata in un conflitto di potere fra il presidente del comitato olimpionico e quello della federazione di calcio, che la teneva sorvegliata in ufficio con una videocamera, nel 2011 Khalida è riuscita a scappare in India con un passaporto falso. Oggi vive in Danimarca, dove ha creato Girl Power, un’organizzazione che usa lo sport come strumento di attivismo politico con lo scopo di connettere, unire e aumentare il potere delle ragazze in tutto il mondo. È stata lei, nell’agosto del 2021, a far evacuare in Australia, in Portogallo e a Londra le calciatrici delle nazionali senior e giovanili dell’Afghanistan, insieme ai loro familiari.

Ho chiesto cos’è il coraggio a molte donne afghane e iraniane che hanno scelto di essere libere di scegliere. Ognuna di loro mi ha dato una risposta diversa. «Quando sono andata a vivere da sola, lasciavo una piccola luce accesa ogni sera per sentirmi al sicuro. Con il passare del tempo mi sono resa conto che in realtà quella luce non mi avrebbe aiutato a superare le mie ansie e l’ho spenta», mi ha detto Sadaf Baghbani, un’attrice iraniana di 29 anni arrivata in Italia per curare le ferite provocate da circa 150 pallini di piombo che le avevano sparato addosso i pasdaran nel settembre del 2022, durante la rivolta scoppiata dopo l’omicidio di Jina Mahsa Amini. «Il coraggio è la paura di non farcela a vivere senza libertà», mi ha detto poi. Quindi si diventa coraggiosi perché si ha paura e si deve imparare a camminare nel buio?

Cristina Giudici
Scrive per Il Foglio, Grazia, Linkiesta. Da diversi anni si occupa di immigrazione e fondamentalismo. Nel 2018 ha fondato la testata online NuoveRadici.world e dal 2022 collabora con la Fondazione Gariwo. Ha scritto diversi libri: con L’Italia di Allah ha vinto il Premio Maria Grazia Cutuli. Nel 2024 ha vinto il Nuovo Premio Guido Vergani. A marzo uscirà il suo nuovo libro, scritto con Fabio Poletti: Vita e Libertà contro il fondamentalismo (Campo Libero, collana della Fondazione Gariwo, Mimesis).

 

L’apartheid di genere non merita il boicottaggio sportivo?

Oliver Marrone, The Teleghaph, 25 febbraio 2025

L’aparthied di genere non viene considerato altrettanto grave dell’apartheid di razza: il boicottaggio sportivo che è stato deciso a suo tempo contro il razzismo in Sudafrica non viene adottato contro la segregazione delle donne in Afghanistan. E il cricket maschile continua la sua corsa facendo finta di niente

“Quello che sta accadendo in Afghanistan”, ha dichiarato Richard Thompson, presidente dell’England and Wales Cricket Board, ‘è a dir poco un apartheid di genere’.

Una parola agghiacciante: apartheid. E storicamente è stata una chiamata alle armi: i 21 anni di esilio del Sudafrica dal cricket internazionale hanno costituito probabilmente il boicottaggio più efficace nella storia dello sport. Se la segregazione razziale sistematica di una nazione ha rappresentato una linea rossa non negoziabile, la schiavitù medievale delle donne di un’altra nazione ha prodotto solo vuota retorica. Infatti, dopo l’indignazione per l’oscena misoginia dei Talebani e la riprovazione per il divieto imposto alle donne dai fanatici al potere di cantare o persino di leggere ad alta voce, l’Inghilterra disputerà una partita del Champions Trophy contro l’Afghanistan a Lahore come se si trattasse di uno spettacolo secondario. Non potrebbe esserci disonore più grande.

Non mi fa piacere dirlo, ma questa partita si sta svolgendo esclusivamente a causa della codardia degli uomini. Negli organi di governo del cricket, a prevalenza maschile, gli uomini non hanno la minima idea dell’orrore di cui sono vittime le donne afghane e sono naturalmente portati a considerarlo un ostacolo allo svolgimento di un torneo maschile. Anche quando tutti e tre gli avversari dell’Afghanistan nella fase a gironi – Inghilterra, Australia e Sudafrica – hanno condannato inequivocabilmente i Talebani, non hanno ancora il coraggio di rifiutarsi di giocare. Anche quando l’Afghanistan viola palesemente lo statuto dell’International Cricket Council non schierando una squadra femminile, l’unica risposta degli uomini al comando è quella di mettersi le mani sulle orecchie e sperare che le proteste si plachino.

Una coraggiosa resistenza

Ma questa è una questione in cui la protesta non verrà soffocata. Mentre alle donne afghane viene proibito qualsiasi tipo di espressione pubblica, c’è chi altrove parla coraggiosamente per loro. Oggi, alle 16:00, davanti ai cancelli del Lord’s, molti si riuniranno per protestare contro la BCE, rea di aver permesso lo svolgimento della partita a Lahore. Uno di loro è Arzo Parsi, nato a Kabul, che, dopo aver lasciato il suo Paese quando i Talebani presero il potere nel 1997, si è dato come missione quella di sottolineare la complicità del cricket nell’imbiancare quel regime infernale. Un’altra è Jean Hatchet, l’attivista femminista che ha fatto pressione sulla BCE affinché cambiasse idea, ricevendo solo il messaggio che, nonostante la situazione “straziante”, non sarebbe stata contemplata alcuna azione unilaterale.

Anche questi manifestanti si espongono a notevoli rischi personali. Di recente, quando ha sventolato un cartello con la scritta “Let Us Exist” fuori dal Parlamento, Parsi ha dovuto affrontare un uomo che brandiva una bandiera afghana e le gridava insulti sessisti in faccia. Hatchet spiega di aver subito minacce violente che l’hanno spinta a chiedere alla polizia di garantire la sicurezza dell’evento di oggi. Uno degli oratori previsti per la protesta era Natiq Malikzada, giornalista e critico di spicco dei Talebani. La settimana scorsa è stato accoltellato nella sua casa di Londra, riportando ferite al petto, alla spalla e alla mano.

“È piuttosto spaventoso, ma per noi si tratta di dimostrare alle donne afghane che non vengono ignorate e che il cricket non è più importante delle loro vite”, afferma Hatchet. “La BCE non sembra pensarla così. Anche quando le atrocità dei Talebani contro le donne sono così numerose da far pensare: “Cosa altro possono sopportare?”. Quindi, questa è la nostra occasione per dire: “Sì, possiamo vederti. E possiamo scegliere di non giocare con voi a questo maledetto cricket”. La situazione è cruenta. Le donne vengono lapidate e picchiate, gli abusi domestici sono diffusi. Il sangue è sui muri delle loro case. Ma a questi uomini non importa. Continueranno a giocare a cricket”.

I soldi guidano le decisioni

C’è poi il fatto che il Champions Trophy sarebbe stato un momento logico per un boicottaggio. Si tratta di un evento che non viene disputato da otto anni, che coinvolge solo otto squadre e ha un prestigio relativamente scarso nel calendario sovraffollato del cricket. Quale migliore piattaforma, quindi, per i Paesi che non nutrono rispetto per i Talebani, per dare seguito ai loro presunti principi con un’azione che sarebbe stata ascoltata in tutto il mondo? Purtroppo, però, è proprio qui che scatta l’ipocrisia. L’anno scorso, Richard Gould, amministratore delegato della BCE, ha annunciato che non sarebbero state programmate serie bilaterali tra Inghilterra e Afghanistan finché alle donne afghane non fosse stato permesso di praticare sport. Ma nove mesi dopo, un Champions Trophy li mette faccia a faccia e tutte le convinzioni morali volano fuori dalla finestra.

Lo stesso vale per l’Australia. Dal ripristino del dominio talebano nel 2021, si sono rifiutati di giocare contro l’Afghanistan tre volte, rinunciando a un Test, a tre partite Internazionali di un giorno e a una serie T20 che avrebbe dovuto svolgersi negli Emirati Arabi Uniti l’anno scorso. Se l’idea di scendere in campo è stata inconcepibile in tutte queste occasioni, perché non dovrebbe essere così anche per la Coppa del Mondo o il Champions Trophy?

Il denaro è la sgradevole risposta. Il Champions Trophy può avere un cachet discutibile, ma l’incentivo finanziario è innegabile: ogni squadra incassa 110.000 sterline semplicemente per essersi presentata e i vincitori finali possono guadagnare 1,77 milioni di sterline. Quindi, pur riconoscendo che la BCE ha donato 100.000 sterline al Global Refugee Fund per aiutare le giocatrici di cricket afghane in esilio, per lo più in Australia, quanto è credibile la sua affermazione di essere “affranta” dalla condizione delle donne sottoposte alla violenza dei talebani? “È evidente che non lo sono”, afferma Hatchet. “I loro cuori sono stati messi in vendita. Sia la BCE che l’ICC avrebbero potuto fare ciò che andava fatto per le donne. E hanno scelto, indipendentemente ma tutti e due, di non farlo”.

Un’ulteriore, ineludibile dimensione di questo dibattito è rappresentata dall’India. È l’India a detenere il dominio quasi totale sul cricket a livello globale, come dimostra l’accordo per i diritti mediatici per sette anni di eventi ICC del valore sbalorditivo di 2,4 miliardi di sterline, circa 115 volte l’equivalente accordo britannico con Sky Sports. Ed è l’India che ha esplicitamente cercato di riparare le relazioni con l’Afghanistan, con il segretario agli Esteri, Vikram Misri, che si è spinto fino a incontrare la controparte talebana a Dubai il mese scorso. In questo contesto, è inconcepibile che l’India approvi qualsiasi richiesta di estromettere l’Afghanistan da un torneo sportivo. Al contrario, è più probabile che il partito di governo indiano Bharatiya Janata, guidato da Narendra Modi, consideri le obiezioni sollevate dall’Inghilterra e dall’Australia come un’opportunità per affermare la propria posizione.

L’Inghilterra è troppo arrendevole

In Inghilterra, perlomeno, c’era una manifesta volontà politica di fare la cosa giusta. Solo sei settimane fa, oltre 160 parlamentari hanno firmato una lettera in cui si chiedeva alla BCE di boicottare la partita in Afghanistan in segno di protesta per la “spaventosa oppressione delle donne e delle ragazze e la rimozione dei loro diritti che continua senza sosta” da parte dei Talebani. Il messaggio diceva che l’organo di governo nazionale non poteva restare inattivo mentre si stava svolgendo una “insidiosa distopia”. Eppure, è proprio quello che si è verificato. Dopo aver scritto la lettera, la laburista Tonia Antoniazzi ha mantenuto, a suo merito, la linea di fermezza. Tuttavia, con il passare del tempo, il sostegno iniziale si è affievolito e molti politici hanno deciso che questa è una causa troppo spinosa da portare avanti. Ad oggi, David Lammy, ministro degli Esteri, non ha rilasciato dichiarazioni.

I giocatori di cricket inglesi si trovano a giocare contro una squadra che utilizza l’immagine di un regime tra i più riprovevoli del pianeta. Dimenticate l’idea che la squadra afghana, allenata dall’ex battitore numero 3 inglese Jonathan Trott, esista in qualche modo come entità distinta dai Talebani. Lo scorso agosto, diversi giocatori di alto livello, tra cui Rashid Khan, sono stati fotografati mentre prendevano il tè con Anas Haqqani, un alto funzionario talebano. Mentre in principio la loro ascesa dalle devastazioni della guerra poteva essere incorniciata come una storia emozionante, la realtà è cambiata. Ora hanno uno scopo più sinistro, fornendo una foglia di fico di legittimità a spietati persecutori di donne.

Si percepisce che l’Inghilterra questa volta è a disagio nell’essere associata all’Afghanistan. Alla vigilia della partita, hanno deciso di non affrontare il tema. L’unico commento degno di nota è stato quello di Joe Root, che ha dichiarato: “È chiaro che ci sono cose laggiù che sono difficili da sentire e da leggere, ma il cricket è una fonte di gioia per tante persone”. E per le donne? Quando nel 2021 l’Afghanistan ha raggiunto le semifinali della Coppa del Mondo T20 ci sono stati festeggiamenti di giubilo in ogni grande città. Tuttavia, tutti i partecipanti a queste feste erano uomini. Le donne, come in ogni altra sfera della loro vita sotto il regime talebano, erano state completamente cancellate.

L’Inghilterra non dovrebbe avere alcuna parte in tutto questo. Non stiamo parlando di qualche fugace preoccupazione internazionale, ma della distruzione totale delle libertà di 14 milioni di donne a cui è vietato cucinare vicino alla propria finestra o ricevere un’istruzione superiore alla scuola primaria. Nello sport esiste il fenomeno dell’imperativo morale. È stato applicato al Sudafrica, ma è stato ignorato per l’Afghanistan, come se i dirigenti del cricket avessero deciso che le donne non sono abbastanza importanti da meritare un boicottaggio. E ora, allo Stadio Gheddafi di Lahore, si è giunti al macabro epilogo: un giorno di vergogna senza precedenti.

In Afghanistan: è apartheid di genere contro le donne

laredazione.net  

Per aiutare le donne afghane CISDA – coordinamento italiano sostegno donne afghane ha lanciato la campagna “Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere”.

Senza volto. Senza voce. Senza volto e senza voce sono le donne afghane. Costrette a stare segregate nelle loro case con finestre oscurate, in Afghanistan è in atto un apartheid di genere. Con apartheid di genere si intende un sistema istituzionalizzato di dominazione e oppressione, che relega in modo sistematico le donne a una condizione di inferiorità e privazione dei diritti fondamentali. Le donne afghane sono seppellite vive tra le mura domestiche e lasciate sole nel divieto di lavorare, istruirsi e condurre una vita, sia privata che sociale, dignitosa e umana.

Con il ritorno dei talebani in Afghanistan, nell’Agosto del 2021, le donne, neanche troppo progressivamente, sono state private dei loro diritti fondamentali; obbligate a subire una costante repressione, la loro esistenza si è ridotta quasi alla funzione del respiro e della procreazione.

Le donne afghane e i diritti negati

I divieti che i talebani hanno inflitto alle donne sono moltissimi: non possono cantare e far sentire la loro voce, devono indossare il burqa, non possono frequentare luoghi pubblici, non possono guidare, non possono lavorare, non possono viaggiare da sole oltre la distanza di 72 chilometri e per questo devono essere accompagnate da un mahram (membro della famiglia di sesso maschile). I recenti decreti hanno invece stabilito il divieto di iscriversi e frequentare gli studi negli istituti medici, mentre quello introdotto nel Dicembre 2024 proibisce alle donne di farsi vedere all’interno delle loro case: nelle nuove costruzioni verranno quindi vietate le finestre che si affacciano su strade pubbliche e in quelle vecchie le finestre saranno oscurate.

Anche la condizione delle bambine è preoccupante: dopo i 12 anni è infatti vietato loro qualsiasi forma di istruzione. Esattamente come le loro madri sono costrette in casa, perché se uscissero da sole rischierebbero di essere rapite dai talebani per darle in sposa ai loro uomini. L’Afghanistan è uno di quei paesi in cui i matrimoni precoci (la famigerata pratica delle spose bambine) e forzati sono legittimati. Matrimoni che spesso, ma non solo, coinvolge le famiglie povere che vendono una delle loro figlie per sostenere materialmente gli altri componenti della famiglia; ovviamente queste pratiche hanno delle forti ripercussioni psicologiche sulle giovani afghane. Un reportage della BBC di Giugno 2023 (ripreso anche dal dossier di Cisda I diritti negati delle donne afghane pubblicato nel settembre 2023), parla di una vera e propria “pandemia di pensieri suicidi”: «Voglio solo che qualcuno ascolti la mia voce. Soffro e non sono l’unica. La maggior parte delle ragazze della mia classe ha avuto pensieri suicidi. Soffriamo tutte di depressione e ansia. Non abbiamo speranza», sono le parole di una giovane studentessa universitaria che ha tentato il suicidio dopo che il talebani hanno impedito alle ragazze di frequentare l’università.

Afghan Witness a proposito di questo tema ha rilevato che: «Ci sono stati almeno 195 casi di suicidio in Afghanistan dall’aprile 2022. I casi di suicidio in Afghanistan sembrano aumentare ogni anno, probabilmente a causa dell’escalation della crisi economica, della disoccupazione, della violenza domestica, dei matrimoni forzati, dei disturbi mentali, restrizioni dei talebani, violenze e violazioni dei diritti umani ad essa connesse». Dati, questi, che però appaiono sommari proprio per la forte censura presente nel Paese, è molto probabile quindi che i casi di suicidio siano molti di più e registrati come incidenti o morti naturali.

A peggiorare la condizione delle donne e delle ragazze afghane è anche il fatto che all’interno del contesto famigliare non è raro che subiscano violenza proprio da parte di quei mariti che sono state obbligate a sposare: una violenza domestica che nella società afghana – misogina, conservatrice e patriarcale – è giustificata e tollerata. La situazione non cambia di molto nel caso in cui una donna sposata subisca molestie o violenza sessuale da parte di un uomo che non sia suo marito: anche in questo caso la colpa ricadrà sulla donna, in quanto è la donna che detiene “l’onore familiare”, d’altronde l’unica legge in vigore nel paese è la sharìa, interpretata dai talebani nella sua forma più rigida.

Situazione attuale dell’Afghanistan

L’Afghanistan è un paese estremamente carente non solo dal punto di vista dei diritti umani, ma anche dal lato economico: non c’è lavoro e c’è povertà; gli uomini infatti (gli unici che possono lavorare) sono costretti a emigrare nei paesi vicini o nelle aree urbane lasciando così le donne da sole e impossibilitate a muoversi. Oltre questo aspetto però si aggiungono pure calamità naturali frequenti, come inondazioni e siccità che rendono l’Afghanistan un territorio critico. Nonostante questo, tuttavia, resistono in maniera coraggiosa associazioni di donne laiche e femministe, come ad esempio Rawa, organizzazione sociopolitica indipendente che dal 1977 si occupa della tutela dei diritti delle donne afghane. Meena Keshwar Kamal, la sua fondatrice, fu uccisa nel febbraio del 1987 da agenti del Khad (il braccio afgano del Kgb) durante l’occupazione sovietica, tuttavia la sua lotta per le donne si è cristallizzata e continua tutt’ora tra le donne afghane, sebbene con modalità diverse.

CISDA – coordinamento italiano sostegno donne afghane, è un’associazione che collabora con Rawa. Le donne del Cisda sono attive nella promozione di progetti di solidarietà a favore delle donne afghane sin dal 1999. Le loro finalità si collocano nell’ambito della solidarietà sociale, della formazione, della promozione della cultura, della tutela dei diritti civili e dei diritti delle donne in Italia e all’estero. Per sostenere queste finalità, il Cisda promuove la raccolta fondi a sostegno di progetti in Afghanistan come scuole segrete per bambine, ragazze e donne, corsi di cucito per aiutare l’autonomia lavorativa femminile, unità mobile sanitaria, coltivazione di zafferano da parte di una cooperativa femminile e tanti altri. A proposito vale la pena descrivere le scuole segrete: piccoli gruppi di ragazze che si riuniscono in un’abitazione privata (spesso quella di un’insegnante) per studiare e imparare quelle materie che a scuola erano loro vietate, tipo le scienze, la matematica e l’inglese. Per evitare di essere scoperte in queste case sono presenti molti libri religiosi da tenere a portata di mano in caso i talebani dovessero fare irruzione nell’abitazione e controllare cosa stanno facendo le donne; a quel punto le ragazze fingeranno di essere in un gruppo di preghiera. Molto problematico appare il tema della sanità. A causa dell’impossibilità per le donne a viaggiare, e quindi di curarsi o semplicemente per farsi dei controlli, è stata creata un’unità sanitaria mobile che si reca nei villaggi per offrire assistenza alle donne e alle ragazze. Va precisato che l’unità mobile funziona per le visite e conferimento di medicinali. Le donne che dovranno operarsi ma non possono viaggiare saranno private del diritto alla salute.

La campagna del Cisda: Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere

Prosegue la Campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere del Cisda avviata il 10 Dicembre 2024 in occasione della Giornata mondiale per i diritti umani. Chiedo alla Presidente del Cisda, Graziella Mascheroni, di parlarmi di questa campagna.

Graziella Mascheroni: la campagna si pone ambiziosi, ma fondamentali obiettivi:

Riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità e della sua sistematica applicazione in Afghanistan.
Non riconoscimento, né giuridico né di fatto, del regime fondamentalista talebano –
Sostegno alle forze afghane anti-fondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e i partiti fondamentalisti – Contestualmente è importante che alle esponenti politiche e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta, non venga riconosciuta alcuna rappresentanza politica.
Cisda tramite questa campagna propone:

Sottoscrivere la Petizione “STOP FONDAMENTALISMI-STOP APARTHEID DI GENERE” collegandoti al sito del Cisda.
Far approvare nei vari Consigli comunali la mozione
Sostenere a tutti i livelli istituzionali la Campagna
I fondamentalismi, nelle loro diverse forme e caratterizzazioni, creano sempre apartheid di genere e l’Afghanistan è il Paese che ne rappresenta il caso più emblematico, anche se non è il solo. L’autodeterminazione della donna e degli individui LGBTQI+ vede infatti drammatiche limitazioni ovunque nel mondo, anche nel mondo occidentale. La promozione del valore della laicità è l’argine più efficace ai fondamentalismi, e quindi all’apartheid di genere, come indicano le organizzazioni progressiste, democratiche e anti-fondamentaliste anche in Afghanistan.

Il regime fondamentalista dei talebani è responsabile della soppressione dei più elementari diritti umani della popolazione civile, in particolare delle donne e degli individui LGBTQI+, frutto del deliberato proposito di tradurre in sistema di governo un’idea fondamentalista che ha come principale obiettivo l’annientamento sistematico e istituzionale delle donne come traduzione pratica della legge divina (sharia).

L’Afghanistan, a partire dalla fine degli anni ’70, è stato un Paese che ha subito ingerenze straniere da parte di potenze internazionali e regionali che hanno finanziato e armato gruppi fondamentalisti per sostenere la propria egemonia coloniale. Questi drammatici eventi, comuni a molti paesi, hanno generato decenni di guerre che hanno provocato migliaia di vittime civili, corruzione endemica, traffico di droga, devastazione del tessuto sociale e ambientale e migrazioni forzate – il brodo di coltura del terrorismo e del fondamentalismo.

 

La Corte penale internazionale apre uno spiraglio di giustizia per le donne afghane

altraeconomia.it 17 febbraio 2025

Il procuratore capo della Cpi Karim Khan ha richiesto a fine gennaio un mandato di arresto per i leader dei Talebani, accusati di aver commesso il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere. Un atto importante per le donne perseguitate e per certi versi inedito ma che per essere efficace richiede che i Paesi occidentali e i firmatari dello Statuto di Roma rinnovino il sostegno alla Corte. Il commento del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane

Il 23 gennaio 2025 il procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi) Karim Khan ha lanciato un forte atto d’accusa nei confronti dei Talebani: ha richiesto l’arresto del leader supremo, Mullah Hibatullah Akhundzada, e per il suo giudice capo, Abdul Hakim Haqqani, perché ritenuti responsabili del crimine contro l’umanità di persecuzione di genere.

La documentata accusa sta in due lunghi e dettagliati documenti che danno il quadro dei crimini commessi dai Talebani in questi ultimi tre anni e mezzo e del ruolo diretto dei due accusati nell’architettare e sostenere la sistematica violazione dei diritti delle donne e delle persone Lgbtqi+, persecuzione commessa almeno dal 15 agosto 2021 e fino a oggi in tutto il territorio dell’Afghanistan.

È una decisione storica: per la prima volta una richiesta di indagine della Cpi è incentrata sul crimine di persecuzione di genere come reato principale, e non solo per le azioni persecutorie contro le donne e le ragazze ma anche per quelle messe in atto nei confronti delle persone Lgbtqi+

Un atto coraggioso, che supera i tentennamenti e le politiche contraddittorie dell’Onu e degli Stati cosiddetti democratici che rifiutano formalmente il riconoscimento del governo talebano ma intanto invitano i propri esponenti ai convegni internazionali e con loro fanno affari.

Finalmente qualcosa si muove anche a livello istituzionale in difesa delle donne afghane e del loro diritto all’esistenza. Qualcuno si è accorto della loro quotidiana insopportabile sofferenza e, andando oltre le astratte dichiarazioni in difesa dei diritti umani, si è esposto con un atto concreto.

Di fronte all’assoluta impermeabilità del governo talebano alle ingiunzioni delle istituzioni internazionali che richiedono il ritiro dei provvedimenti e il ripristino dei diritti delle donne, la risposta non può essere quella di cancellare il problema dalle agende politiche e recedere dalle pressioni per ingraziarsi i Talebani con concessioni commerciali e aiuti economici. E nemmeno quella di scommettere su una divisione del fronte talebano per poterne appoggiare gli esponenti più moderati, perché non ci sono Talebani cattivi e Talebani buoni: sono tutti comunque fondamentalisti.

La provata continuata oppressione delle donne in quanto genere e delle persone che non si conformano alla visione del mondo dei Talebani sarebbe stata meglio definita dal termine “apartheid di genere” (Adg), con il quale ormai da tutti viene nominata la persecuzione sistematica delle donne che avviene in Afghanistan, e in modo meno eclatante anche in altri Paesi. Ma la Cpi non poteva usare questo termine perché l’Adg non è un reato previsto dallo Statuto di Roma, che contempla l’apartheid basato sulla discriminazione etnica ma non sul genere.

Sebbene la Cpi abbia cercato di aggiornare e integrare il reato di persecuzione di genere, l’Adg rimane una definizione più ampia e comprensiva di tutte le sfaccettature e gli aspetti politici che le differenze di genere comprendono. Perciò da varie parti si avanza la richiesta di rivedere lo Statuto di Roma integrandolo con il crimine specifico di Adg. Anche il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda) si unisce a questa richiesta nella sua “Campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere” già avviata da novembre 2024.

Nel settembre dello scorso anno Canada, Germania, Australia e Paesi Bassi, seguiti successivamente da altre 20 nazioni, hanno annunciato la loro intenzione di deferire i Talebani presso il più alto tribunale delle Nazioni Unite, la Corte di giustizia internazionale, per le diffuse violazioni dei diritti umani contro le donne nel mancato rispetto della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw) di cui l’Afghanistan è firmatario. La procedura è in corso, vedremo nei prossimi mesi come andrà avanti.

Intanto, il 28 novembre scorso Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico hanno esortato il procuratore della Cpi a indagare sulle violazioni sistematiche e continue dei diritti delle donne e delle ragazze da parte dei Talebani.

Accogliendo la loro richiesta, a fine gennaio, il procuratore, che aveva già annunciato la ripresa delle indagini sulla situazione in Afghanistan dopo un periodo di differimento, ha presentato le richieste di arresto per i due Talebani.

I giudici della Cpi hanno tempo tre mesi per decidere se accogliere la richiesta. Se i mandati venissero emessi, i due uomini potrebbero essere arrestati in qualsiasi Paese membro della Corte, anche se, data la loro propensione a rimanere all’interno di Paesi amici, gli arresti e i processi sono in realtà una prospettiva lontana.

Potrebbe sembrare quindi un atto con scarse ricadute pratiche. Tuttavia, anche se questi mandati non dovessero portare all’arresto immediato e al perseguimento dei leader Talebani, avrebbero comunque l’effetto di danneggiare la loro posizione politica di fronte all’opinione pubblica mondiale. Rappresenterebbero un passo significativo nella lotta contro il riconoscimento internazionale del governo talebano, in un momento in cui molti Stati e l’Onu stesso si stanno adoperando per trovare giustificazioni umanitarie ed economiche che permettano di riconoscere al governo talebano il diritto a rientrare di fatto nella comunità internazionale nonostante la loro visione fondamentalista, condannata a parole da tutti gli Stati ma subita nei fatti in nome del pragmatismo.

La presa di posizione della Cpi ci costringe a ricordare che è ancora viva la tragedia delle donne in Afghanistan, un Paese uscito dai radar mediatici sulla spinta di altre catastrofi più recenti e dalla consapevolezza che l’opinione pubblica spesso facilmente dimentica le tragedie appena escono dall’immediato presente.

Ma soprattutto dovrebbe rendere evidente ai politici e alle istituzioni mondiali che impegnarsi con il governo dei Talebani, convocarli ai convegni internazionali, mediare con loro significa dare credibilità a un governo di criminali.

Per le donne vittime della persecuzione di genere la prospettiva aperta dalla Cpi rappresenta una speranza di riconoscimento della gravità della loro sofferenza e del loro coraggio. Ma se la giustizia vuole essere giusta non deve dimenticare le responsabilità dei Paesi occidentali. Nei vent’anni di guerra e occupazione le forze della coalizione, Stati Uniti in testa, si sono macchiate di numerosi atti di violenza e torture sulla popolazione civile.

Human rights watch (Hrw) e Amnesty international ricordano giustamente che tutte le vittime sono uguali e hanno uguale diritto al riconoscimento e al risarcimento. Perciò la Cpi non deve limitarsi a prendere in considerazione le vittime recenti del governo talebano ma deve invece riconsiderare le responsabilità di tutti gli attori in campo colpevoli di atti di barbarie, violenze, torture e ingiustizie che hanno provocato le numerosissime vittime civili.

L’Afghanistan ha aderito nel 2003 al Trattato di Roma che ha istituito la Cpi. Era il 2006 quando venne avviato un esame preliminare sui possibili crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Afghanistan dalle varie parti, cioè l’esercito degli Stati Uniti e la Cia, le forze di sicurezza afghane e la rete dei Talebani e degli Haqqani. Ma fu solo nel 2017 che l’allora procuratore Fatou Bensouda chiese ai giudici della Camera preliminare di autorizzare l’indagine ufficiale.

Passarono anni di immobilismo in attesa che si decidesse quale ambito di inchiesta fosse consentito effettuare. E quando nel 2023 è stato concesso di includere nelle indagini anche i recenti “nuovi attori” oltre ai responsabili dei venti anni precedenti, Khan ha deciso di concentrare le sue inchieste sui Talebani e sull’Iskp, escludendo di fatto la Cia, l’esercito statunitense e le forze della Repubblica afghana dalla sua competenza, considerando troppo oneroso condurre ricerche su casi di così ampia portata.

Una decisione forse realistica ma che ha creato una “gerarchia nelle vittime” determinata dall’identità del presunto autore, invece che dalla portata e gravità dei crimini. “Un insulto a migliaia di vittime di crimini commessi dalle forze governative afghane e dalle forze statunitensi e della Nato”, come l’ha giustamente definita un’attivista afghana.

La Cpi sta affrontando in questi giorni una pressione significativa a livello internazionale, che potrebbe avere conseguenze sulle sue indagini e sulla sua stessa esistenza. Gli Stati parte dello Statuto di Roma che governa la Corte, tra cui l’Italia, dovrebbero confermare l’importanza di questa istituzione e supportare concretamente l’esercizio del suo mandato indipendente, garantendole con il sostegno e l’assistenza pratica la possibilità di espandere le sue indagini in Afghanistan.

Beatrice Biliato fa parte del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda)

Radio Begum: il silenzio assordante dell’Occidente

Antonella Mariani, Avvenire, 6 febbraio 2025

“Avvenire” ben interpreta lo sgomento e l’interrogativo di tutti davanti alla chiusura di Radio Begum nel silenzio dell’Occidente: a chi importa?

«All’inizio ci hanno incoraggiate, dicevano che poiché non potevano garantire la frequenza alle ragazze era utile che la scuola arrivasse nelle loro case. E abbiamo iniziato. Non ci hanno fermato». Così raccontava Hamida Aman ad Avvenire nell’aprile 2024. Poco meno di un anno dopo è accaduto: le hanno fermate. La notizia è di martedì, ma come spesso accade quando si tratta dell’Afghanistan, nei media internazionali non ha avuto il rilievo che avrebbe richiesto la sua rilevanza. Il complotto del silenzio, che ha violentemente zittito Radio Begum, l’unica radio e televisione di donne per le donne nell’Emirato islamico, ha complici anche in Occidente.

Martedì, dunque, un drappello di ufficiali dell’intelligence, assistiti da rappresentanti del Ministero dell’informazione e della cultura, ha fatto irruzione nella sede di Kabul. Gli uomini hanno sequestrato computer, telefoni, hard disk, e arrestato due dipendenti maschi. Le giornaliste, le psicologhe, le teologhe, le educatrici e le dottoresse che dai microfoni dell’emittente nata l’8 marzo 2021 e finanziata anche dall’Unesco (a proposito, ecco a cosa servono i “carrozzoni” da cui Trump sta scendendo precipitosamente: a dare voce a chi non ce l’ha più) non erano presenti negli studi radiofonici e televisivi, perché nemmeno i media sono stati risparmiati dall’odio misogino del regime integralista afghano. Ma lavoravano da casa e resistevano, come tutte le ragazze e le donne in quella prigione a cielo aperto che è diventato l’Afghanistan dal 15 agosto 2021, quando i taleban si sono impadroniti del potere.

L’unico contatto con la realtà

Radio Begum, che da un anno era diventata anche una tv satellitare, trasmetteva, in parte da Parigi, le lezioni previste dai programmi scolastici ufficiali nelle due lingue più diffuse, il pashtun e il dari. In un Paese in cui l’analfabetismo femminile è all’80 per cento contro il 51 per cento di quello maschile, la radio era una opportunità unica per le ragazze di continuare a imparare e per le donne adulte di aprire la mente. Radio Begum, che per volontà della fondatrice Hamida Aman, giornalista afghana-svizzera residente in Francia, aveva preso il nome della nonna – “Principessa” –, non diffondeva solo istruzione, ma attraverso le 18 antenne installate in 20 delle 34 province afghane raggiungeva tre quarti del Paese, trasmetteva dibattiti sull’educazione dei bambini, sui rapporti di coppia, su cosa prevede l’islam rispetto all’età del matrimonio, sulla salute fisica e mentale, e approfittando dei minimi spazi che gli occhiuti controllori concedevano, forniva nozioni utili alle donne e alle ragazze che per lo più vivono isolate in casa, aprendo agli interventi delle ascoltatrici da casa.

Che infatti chiamavano numerose. Hamida Aman aveva raccontato ad Avvenire che una delle ascoltatrici più assidue era Fatima, 16enne di Bamyan, cieca dalla nascita e praticamente analfabeta. «Non aveva mai frequentato scuole speciali, né imparato l’alfabeto Braille. Ora non si perde una delle nostre lezioni, e ci ha detto che così ha la sensazione di andare a scuola. La radio è il suo unico contatto con la realtà».

Tutto finito?

Tutto finito? Se la parola più citata dell’anno è speranza, allora l’augurio è che sia solo una prova di forza, come già in passato era accaduto con alcuni programmi che erano stati sospesi o cancellati dopo il mancato imprimatur dei taleban. Ma questa volta ci sono gli arresti, ci sono le accuse di aver abusato della licenza diffondendo contenuti di reti televisive straniere: un’accusa pesantissima per chi sostiene che tutto ciò che viene dall’esterno è fonte di corruzione.

Restiamo con le nostre domande aperte: a chi davvero interessa che Radio Begum sia stata chiusa? Al silenzio imposto a una delle più importanti emittenti indipendenti in Afghanistan corrisponde l’assordante silenzio dell’Occidente. A parte le doverose dichiarazione di Reporter senza frontiere e dell’Associazione per la protezione dei giornalisti afghani, che lamentano il recente giro di vite alla libertà (sic) di stampa nel Paese (nel 2024 sono state chiuse 12 testate, con numerosi arresti arbitrari), a chi davvero interessa che una emittente di donne per le donne sia stata silenziata? Domanda senza risposta, come quella d’altronde che la giornalista afghana Nazira Karima ha posto l’altro ieri al presidente Donald Trump sull’esistenza di un piano per il futuro del suo popolo. Ed ecco la replica: «Lei ha una bella voce e un bell’accento. L’unico problema è che non capisco una parola di quello che dice. Ma le dirò questo: buona fortuna. Vivi in pace». C’è in gioco davvero più che una radio tv. C’è in gioco il destino di metà della popolazione di un intero Paese. C’è in gioco, in fondo, l’umanità di ciascuno di noi.

 

La vita di una bambina ceduta in risarcimento

Shamsia, Zan Times, 3 febbraio 2025

Questa è la storia di una bambina che è stato data via come risarcimento e che ora vende penne per le strade di Kabul per sopravvivere. È stata scritta da una giornalista con lo pseudonimo di Shamsia.

Il mio cuore batte forte ogni giorno quando esco di casa e mi dirigo a Pul-e-Surkh, vicino all’Università di Kabul. Temo che i talebani possano fermarsi accanto a me e trascinarmi di nuovo nel loro veicolo. Sono distrutta per essere stata imprigionata dai talebani e per aver dovuto spiegare perché lavoro come venditrice ambulante. La prima volta che mi hanno arrestata, sono riuscita a liberarmi piangendo e supplicando, ora mi nascondo dietro i muri e nei vicoli di Pul-e-Surkh, aspettando che passino i loro veicoli. Mi copro il viso con un velo nero prima di scendere in strada per vendere penne.

So che il mio aspetto rende le persone sospette, pensano che io sia una mendicante. Vendere penne è l’unico lavoro che posso fare al momento. Vorrei avere un lavoro migliore, ma devo portare il cibo a casa e comprare le medicine per mia suocera.

Ogni giorno alle sei del mattino cammino da Company (un quartiere di Kabul) a Pul-e-Surkh. Non posso permettermi il biglietto dell’autobus e vendo penne lungo la strada. Alle sei di sera torno a casa a piedi. Quando dico “casa”, potresti immaginare una casa con un tetto, finestre e porte, ma invece viviamo in una tenda. In inverno, non abbiamo abbastanza carburante per stare al caldo. Mio marito e io usiamo il nostro magro reddito per soddisfare i bisogni di base. Riusciamo a malapena a comprare olio, riso e farina per non morire di fame. Mia suocera prende i miei guadagni e a volte mi dà un po’ di soldi per comprare una sciarpa o dei vestiti. È malata, ma non possiamo permetterci un medico e nessuno la curerà gratis.

Una bambina in cambio

Avevo 12 anni quando mi hanno data in sposa, ora ne ho 14. All’inizio non avevo idea di cosa significasse il matrimonio. Non avrei mai immaginato che sarei stata separata dalla mia famiglia così giovane, ma la mia famiglia non aveva scelta. Mio zio ha avuto una relazione con la sorella di mio marito e i due sono scappati insieme. In cambio della loro figlia che era scappata con mio zio, la famiglia di mio marito ha preteso me.

La mia famiglia mi ha dato via come risarcimento. Mio zio e mia cognata vivono in un posto sconosciuto, ma io sono qui, a pagare il prezzo delle loro azioni. A casa non ho autorità: faccio tutto quello che gli altri mi dicono di fare.

Anche mio marito è vittima della decisione di sua sorella. Eravamo entrambi bambini e ora ci siamo sposati controvoglia. Anche mio marito è un venditore di penne. A volte andiamo insieme al mercato, altre volte lavora a Sar-e-Kotal. A volte, invece di vendere penne, vende acqua.

Compro penne a cinque afghani l’una e le vendo a 10. I miei guadagni giornalieri sono imprevedibili. A volte vendo un pacchetto completo di 12 penne, altre volte ne vendo molto meno. Nei giorni in cui vendo qualche penna in più, torno a casa più felice.

La paura dei talebani

Dopo che i talebani mi hanno arrestato per aver lavorato per strada, ero terrorizzata e non volevo più lavorare. Sono rimasta a casa per qualche giorno, ma mia suocera mi ha detto che dovevo lavorare, altrimenti saremmo rimasti con la fame. Ho dovuto tornare in strada. Ora, sono estremamente attenta, anche se la paura di essere arrestata e imprigionata è sempre con me. Non so se è maggiore la preoccupazione di mettere il cibo in tavola o di come scappare dalla prigione dei talebani.

Quando le forze talebane mi hanno arrestata vicino all’Università di Kabul mi hanno portata in un luogo sconosciuto. Anche mio marito e diversi altri bambini lavoratori sono stati trattenuti. Siamo rimasti sotto custodia per due giorni. Ci hanno dato pochissimo cibo e avevamo costantemente fame. Alcuni bambini sono stati picchiati.

“Non lavorate. Restate a casa. Vi aiuteremo”, ci hanno detto i talebani. Ma non ci hanno aiutato per niente. Invece, ci hanno fatto promettere che non avremmo mai più lavorato e hanno minacciato che ci avrebbero torturati e imprigionati se fossimo stati sorpresi per strada una seconda volta.

Durante l’interrogatorio, ho implorato e pianto, spiegando la mia disperazione per il fatto che avevo una persona malata a casa e nessuno che la nutrisse o si prendesse cura di lei. Dopo due giorni, mi hanno rilasciata ma hanno tenuto mio marito in prigione.

Sogno di diventare mamma un giorno. Non ho ancora pensato a quante figlie o figli vorrei avere, ma mia suocera vuole che diventi mamma presto. Mi manca sempre mia madre. Non mi è permesso andare a trovare a casa i miei genitori, che sono lontani, ma a volte lei viene a trovarmi di nascosto.

Ogni volta che vedo bambini che vanno a scuola, vorrei essere uno di loro. Più di ogni altra cosa, vorrei diventare un medico. Non sono mai andata a scuola, ma so che l’istruzione è una cosa molto buona.

Vorrei che nessun’altra ragazza dovesse subire la mia stessa sorte. Spero che nessun’altra venga data via come risarcimento come è successo a me.