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Tag: Fondamentalismo

La normalizzazione dell’oppressione sotto il regime talebano

8Am Media, 3 febbraio 2025

“Noi respiriamo e basta, senza essere veramente vive”, mentre l’oppressione diventa normale nel silenzio degli uomini

In questo preciso momento, mentre inizio a scrivere queste righe, sono trascorsi 1.260 giorni da quando i talebani hanno preso il controllo dell’Afghanistan. Ma questi 1.260 giorni non sono più solo un numero: sono una catena, che diventa più pesante di momento in momento attorno al collo del nostro tempo e della nostra stessa esistenza.

Questi giorni raccontano la lenta distruzione di un’intera generazione di donne e ragazze, una generazione che non ha vissuto sotto l’ombra del terrore ma è semplicemente sopravvissuta. Giorni che, invece di assistere allo sbocciare dei sogni, hanno solo visto il loro crollo. Un tempo in cui le aspirazioni non sono state perseguite ma seppellite, una per una.

Questi giorni sono incisi come una fiamma spenta nei cuori di una generazione, una generazione le cui voci di speranza, con ogni frustata sui loro corpi e sulle loro anime, si sono appassite in sussurri senza vita. Per 1.260 giorni, il tempo non è passato per loro né si è fermato; ha solo scavato nuove ferite nel tessuto dei loro spiriti. Questi giorni testimoniano la graduale morte della speranza e la silenziosa sepoltura di grida e voci mai ascoltate.

Talebani è sinonimo di orrore

Abbiamo sempre saputo che i talebani erano un gruppo terroristico a tutti gli effetti, allevato nelle madrase del Pakistan, non per costruire, ma per distruggere. Uomini rozzi, con la barba folta e dall’aspetto spaventoso, fucili a tracolla, crudeltà sfacciata, che frustavano le donne in piazza Spinzar a Kabul con selvaggia brutalità. Nella nostra mente, l’immagine dei talebani è sempre stata sinonimo di orrore. Come si potrebbe non temere un gruppo che si lega le bombe al corpo con precisione esperta, solo per farsi esplodere e fare a pezzi centinaia di vite innocenti?

Ora, da tre anni, viviamo sotto lo stesso incubo che un tempo definiva le nostre peggiori paure. Se questo può anche essere chiamato “vivere”. Perché noi respiriamo e basta, senza essere veramente vive. Chissà? Forse nel loro prossimo decreto, persino respirare sarà proibito “fino a nuovo avviso”.

 

Un regime costruito sulle rovine della dignità umana

Per tre anni, siamo state sistematicamente spogliate della nostra umanità. Scuola, università, lavoro, viaggi, voce, visione, finestre e persino la nostra stessa identità ci sono stati tolti. Siamo state imprigionate nelle nostre stesse case, le nostre voci messe a tacere. E quando abbiamo osato protestare, ci hanno frustato senza pietà, selvaggiamente, imperdonabilmente. Per tre anni, stupro, umiliazione e oppressione non sono stati semplici incidenti; sono stati politica, una strategia deliberata per distruggere lo spirito collettivo, estinguere la speranza e fortificare un regime costruito esclusivamente sulle rovine della dignità umana.

E tuttavia, attraverso tutto questo, sono le donne che hanno tenuto duro in questo campo di distruzione. Donne che si sono inginocchiate davanti ai corpi senza vita dei loro sogni, le loro lacrime e le loro urla hanno messo a nudo la loro impotenza di fronte a un mondo a cui semplicemente non importa.

Non hanno solo protestato. Hanno pagato il prezzo. Con la prigionia, con le frustate, con il loro sacrificio. Sono le donne che si svegliano ogni mattina con il suono dei loro sogni che crollano intorno a loro e ogni notte sono costrette a seppellire le loro aspirazioni nel silenzio soffocante di questa terra oscura.

Un vergognoso silenzio

Ma il dolore non deriva solo dai mostri misogini che si definiscono un governo. No, questo incubo è più grande di un regime. Con l’arrivo di queste bestie, risentimenti sepolti da tempo, ignoranza radicata e misoginia nascosta nel tessuto stesso della società sono emersi. È come se la loro presenza avesse dato una licenza, un permesso distorto a una società che aveva sempre considerato le donne inferiori, per metà viste, per metà ignorate. E ora, apertamente, infligge le sue ferite ai loro corpi e alle loro anime.

Eppure, loro resistono. Donne che sono state abbandonate dalle loro case, dalle loro comunità e persino dalla storia stessa. Sole. Ma orgogliose. Sfidanti di fronte a un’oppressione così grande che ha annegato il mondo in un vergognoso silenzio.

Solo pochi giorni fa, le grida disperate della figlia del nostro vicino risuonavano tra le pareti della loro casa mentre suo padre la picchiava. La chiamerò Farah. Farah era all’undicesimo anno quando arrivarono i talebani. Era una ragazza piena di ambizione, traboccante di sogni, sogni abbastanza grandi da creare un mondo completamente nuovo. Voleva diventare una scrittrice. Aveva imparato a memoria ogni libro di Elif Shafak e Mahmoud Dowlatabadi.

Ma i sogni di Farah furono bruciati, letteralmente. I suoi libri dati alle fiamme. Fu picchiata fino alla sottomissione e costretta a sposare un uomo vedovo, la cui unica qualifica era la sua ricchezza, un uomo che l’aveva trascinata da un mondo di sogni alla schiavitù di una vita imposta. E quando la gente protestò contro la decisione di suo padre, lui ebbe una sola risposta: “Le scuole sono chiuse. Di questi tempi, tenere una figlia nubile è difficile”.

 

L’oppressione è diventata ordinaria

La storia di Farah, per quanto amara e tragica, non sembra più nemmeno un evento degno di nota. Nella realtà soffocante che governa la vita delle donne qui, storie come la sua sono diventate insignificanti. Ogni giorno, centinaia di storie del genere, scritte e non scritte, si dipanano, racconti che, in un altro tempo, avrebbero acceso la rabbia, avrebbero fatto piangere. Ma ora sono diventati solo un’altra parte della routine quotidiana di questa terra.

Come disse una volta Hannah Arendt: “La più grande vittoria degli oppressori è quella di normalizzare l’oppressione”. E qui, nella terra di Farah, l’oppressione non ha più bisogno di giustificazioni. L’ingiustizia cammina per le strade, respira nelle case e si annida nelle menti. Quando l’oppressione diventa ordinaria, nessuno urla più. E così, la storia di Farah, come le storie di innumerevoli altri, è sepolta in quello stesso silenzio mortale. Un silenzio che non riflette altro che la morte dell’umanità stessa.

 

Dentro ogni uomo un talebano nascosto

Ogni volta che abbiamo provato a parlare del silenzio degli uomini di fronte alla crudeltà dei talebani verso le donne, le nostre voci sono state strozzate prima ancora di poter uscire dalle nostre gole. Ci hanno detto: “No, non avete il diritto di dire queste cose”. Hanno sostenuto: “Se gli uomini protestano, verranno uccisi”. Alcuni, persino con orgoglio, hanno detto: “Il semplice fatto che un uomo permetta alla sorella o alla moglie di uscire e alzare la voce è di per sé un atto di sostegno”.

Ma perché? Perché la responsabilità è stata così drasticamente ridotta? Perché l’aspettativa di una decenza umana di base è stata abbassata a un livello così spaventoso? Se domani i talebani dovessero imporre a tutta la società gli stessi decreti che hanno cancellato le donne dalla vita pubblica, questo silenzio e questa indifferenza continuerebbero? No. Questo silenzio non è solo paura. Questo silenzio ha radici più profonde. È radicato nell’accettazione, nella normalizzazione, in un talebano nascosto che ha sempre vissuto nei cuori della maggior parte degli uomini in questa società. Perché nessuno lo dice? Perché nessuno ammette che la maggior parte delle persone in questa società porta dentro di sé un talebano silenzioso e nascosto? Un talebano senza pistola, senza decreto, uno che, attraverso il silenzio e la complicità, spiana la strada stessa dell’oppressione.

Quelle radici patriarcali e fondamentaliste

«Femminicidi d’onore. Dal “processo Saman” ai diritti negati delle donne migranti», a cura di Ilaria Boiano e Isabella Peretti per Futura Editrice

Giuliana Sgrena, Il Manifesto, 16 gennaio 2025

Il femminicidio di Saman Abbas, la ragazza pachistana uccisa dai familiari, ha colpito l’opinione pubblica italiana e ha aperto gli occhi sulla realtà di giovani donne – nate in Italia o arrivate da piccole – la cui libertà è repressa con violenza inaudita da parte dei maschi della famiglia. Nonostante le denunce Saman era stata abbandonata alla sua malasorte, vittima di un rapporto padre-figlia esiziale, basato sul «possesso-dominio», come viene definito da Teresa Manente e Rossella Benedetti, le avvocate di parte civile nel processo per l’omicidio e l’occultamento di cadavere di Saman. Il caso della giovane pachistana è sviscerato nei diversi aspetti in Femminicidi d’onore, dal «processo Saman» ai diritti negati delle donne migranti a cura di Ilaria Boiano e Isabella Peretti (Futura Editrice, pp. 164, euro 15).

SICCOME SAMAN si ribellava alle angherie cui era sottoposta – segregata in casa, divieto di studiare e promessa in sposa a un cugino più vecchio – veniva definita la «pazza» dalla madre. Proprio della madre, Nazia, condannata all’ergastolo insieme al padre Shabbar, colpisce la complicità, dovuta forse al fatto che anche lei era vittima di una segregazione totale, che non le aveva permesso di alzare lo sguardo sul mondo che la circondava. Quindi, «non vi è dubbio alcuno che con l’uccisione della figlia, Nazia uccida anche una parte di sé», secondo Giovanna Fava, anche lei avvocata nel processo.

Ma quante Saman ci sono? Quante le vittime di femminicidio d’onore? Abbiamo sentito parlare di Hina Saleem la prima ragazza pachistana vittima di femminicidio in Italia, di Sana Cheema, altre sono morte nell’indifferenza, come Begun Shahnaz, lapidata, Kaur Balwinder, uccisa e buttata nel fiume.

È Tiziana Dal Pra, fondatrice dell’associazione Trama di Terre, a ricordarcele. Tutte vittime del controllo della sessualità da parte della famiglia ma anche della comunità di appartenenza, all’interno della quale un ruolo importante è spesso giocato dai fondamentalismi religiosi. Ma, come giustamente sostiene Tiziana Dal Pra, quando si trattano questi temi non dobbiamo autocensurarci per paura di essere accusate di islamofobia.

I diritti delle donne sono universali e non si può rinunciare a difenderli per una sorta di relativismo culturale che, questo sì, le condanna a essere sottomesse. Le forze reazionarie che sostengono che le altre «culture» sono barbare e violente lo fanno per difendere l’Occidente, come sostiene Isabella Peretti, e, in Europa, per difendere l’identità cristiana. Tuttavia, non si può negare il ruolo dei fondamentalismi religiosi, tutti, nell’oppressione della donna, anche nell’imposizione di un velo ideologico.

LA RIVOLUZIONE delle donne iraniane contro la teocrazia – che ha fatto del ciador l’identità della donna musulmana – è partita proprio dalla lotta contro l’obbligo del velo. Naturalmente il controllo delle «Saman», non si esercita solo con il velo, però basta guardare le foto di Saman velata o con la fascia rossa tra i capelli per vedere due donne completamente diverse. Quale è stata uccisa? Sicuramente la seconda. Le donne afghane sono quelle che, soprattutto con il ritorno dei taleban al potere – complici gli Usa negli accordi di Doha – soffrono le peggiori condizioni costrette a vivere in un sistema di inflessibile apartheid di genere. Private anche della possibilità di parlare, «la voce è la nudità della donna», non solo nell’islam.
Per eliminare giustificazioni culturali o religiose, le afghane con l’appoggio del Cisda e di una rete europea, hanno avviato una campagna per il riconoscimento del crimine di apartheid di genere intollerabile anche per il diritto internazionale.

Nel libro si richiama la responsabilità di chi dovrebbe proteggere le donne in pericolo. Innanzitutto, rendendole visibili, dando loro la parola – come nel Tribunale delle donne migranti – per individuare i problemi e i bisogni. Dalle testimonianze risulta un sistema legale e istituzionale inadeguato a riconoscere e affrontare le violenze – sfruttamento, tratta, prostituzione, matrimoni combinati, pregiudizi – che subiscono le donne migranti lasciate in una condizione di estrema vulnerabilità per il mancato riconoscimento dei loro diritti.

Apartheid di genere

InGenere 10 gennaio 2025, di Marta Abbà

Crimini contro l’umanità. Solo il suono di queste parole fa incrinare l’animo, crea crepe, allarga quegli spiragli troppo sottili per far giungere “qui” l’atrocità di ingiustizie che vengono commesse altrove. Eppure, a livello di diritto internazionale ancora non esiste un preciso trattato che prevenga e sanzioni i crimini contro l’umanità.

Ora la sesta commissione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite sta spingendo sull’acceleratore, anche per contrastare paesi come la Russia che ostacolavano i lavori. Il traguardo si intravede a cavallo tra il 2028 a 2029, e i primi passi per raggiungerlo vanno fatti adesso e bene. Inserendo da subito, nella definizione di crimine contro l’umanità, l’apartheid di genere. Non è qualcosa che possiamo dare per scontata né rimandare, ma deve comparire con l’esattezza dei dettagli che possano trasformare quest’azione in un’efficace leva del mondo legale per cambiare il mondo reale.

Insieme a un gruppo di giuriste, il Coordinamento italiano sostegno donne afghane (Cisda) ha cercato di sistematizzare il crimine di apartheid di genere con una definizione, lanciando la campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere. Quello che possiamo fare noi, come cittadine e cittadini, è cercare di dare volti, significati, potenza e senso all’intento, leggendo, aderendo alla campagna di Cisda, o semplicemente dedicando del tempo a capirne le ragioni e crearci un’opinione indipendente ma consapevole. Ne abbiamo parlato con Patrizia Fabbri, attivista dell’associazione.

Quale definizione suggerite per identificare l’apartheid di genere?

Chiediamo di definire il crimine di apartheid di genere come “qualsiasi atto, politica, pratica o omissione che, in modo sistematico e istituzionalizzato, è commesso da un individuo, uno stato, un’organizzazione, un’entità o un gruppo, con lo scopo o l’effetto di stabilire, mantenere o perpetuare il dominio di un genere sull’altro, attraverso la segregazione istituzionalizzata, l’oppressione o la discriminazione in ambito politico, economico, sociale, culturale, educativo, professionale o in qualsiasi altro ambito della vita pubblica e privata”.

Perché avete scelto proprio questa?

È fondamentale sottolineare che questi atti possono essere commessi anche da attori non statali, prima di tutto, perché esistono molte realtà dove ufficialmente lo stato contrasta l’apartheid di genere, ma lascia che gruppi non istituzionali, ma organizzati, commettano questo crimine. L’idea è quindi di includere il reato di omissione: in quanto garante dei diritti umani, lo stato è perseguibile anche quando omette di perseguire una condotta criminale in questo ambito. L’altro aspetto per noi importante da chiarire riguarda il soggetto passivo di questo crimine: abbiamo incluso qualsiasi gruppo di persone identificate dal loro genere e gli individui non conformi al genere. Questo significa riconoscere tutte le azioni violente di discriminazione anche nei confronti delle persone Lgbtqia+.

Con quale intento avete lanciato la campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere e a chi è rivolta?

Siamo partite con una raccolta firme per chiedere al governo italiano di sostenere tre obiettivi principali e di farsene promotore presso le istituzioni internazionali. Il primo è il riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità, recependo la nostra definizione. Il secondo è il non riconoscimento né giuridico, né di fatto, del regime fondamentalista talebano in Afghanistan: infatti, se nessuno stato riconosce ufficialmente il governo talebano de facto, in realtà poi molti paesi intrattengono rapporti con il regime, per motivi logistici, geografici ed economici.

Che cosa sta accadendo in Afghanistan?

L’Afghanistan è un paese molto ricco di terre rare, ma è anche quello in cui il regime talebano sta attuando la soppressione dei diritti più elementari, soprattutto delle donne. Alle donne non è concesso frequentare la scuola oltre le elementari, lavorare, uscire di casa se non accompagnate da un uomo della famiglia. Non possono frequentare parchi, giardini e bagni pubblici, devono essere integralmente coperte in volto, non possono cantare né pregare ad alta voce. Ora i talebani sono arrivati a proibire loro di “ticchettare” quando indossano i tacchi: siamo veramente alla negazione della persona in quanto tale. La terza richiesta riguarda infatti il sostegno alle forze afghane anti fondamentaliste e democratiche: è particolarmente importante che avvenga, di pari passo con la condanna ai fondamentalismi. Il sostegno della laicità rappresenta l’unico vero e possibile argine alle barbarie commesse.

Da quali rischi ci può proteggere quest’azione?

Da quello di lasciare che i nostri governi appoggino una realtà che si ritiene il male minore, come potrebbe avvenire in Siria, per esempio. Pur gioendo della fuoriuscita di Assad, non va tralasciato il fatto che le forze del gruppo che ha preso il potere, l’HTS, sono forze fondamentaliste che erano alleate con Al Qaeda. Anche se si sono “dati una ripulita”, l’origine resta quella, e il terrore è che vengano sdoganati, lasciando che si formi una società basata su principi di nuovo fondamentalismo.

Puoi farci qualche altro esempio?

È un tema delicato e, proprio per questo, da non trascurare. L’Occidente, a mio avviso, nella maggior parte dei casi è in malafede e appoggia determinati gruppi perché potenti, ma anche quando non lo è, non bada alla provenienza di determinati personaggi, gruppi o associazioni. E in certi contesti non si può essere superficiali, non si può pensare di aiutare alcune realtà indipendentemente da chi ci sta dietro, anche per un rischio di corruzione. Un esempio estremo ma esplicativo è il fatto che all’inizio del 2024 l’ONU abbia accettato il diktat dei talebani contro la presenza delle associazioni afghane contrarie al loro governo, “perché col nemico si deve parlare”. Alcuni compromessi possono essere necessari, ma altri aspetti non si possono accettare.

Cisda insiste nel parlare di fondamentalismi, al plurale.

Serve a ribadire e ricordare che non esiste solo il fondamentalismo islamico e che, in generale, il concetto di fondamentalismo non va per forza collegato alla religione. Spesso siamo assuefatti e consideriamo l’apartheid di genere, ogni oppressione e discriminazione sulla base del genere della persona, come una diretta conseguenza di un approccio tipico solo del fondamentalismo islamico, quando in realtà non è così.

Che significato ha questa scelta?

Per noi è importante che si parli sempre di fondamentalismi in generale, perché lo sono tutti i fenomeni che portano a un’interpretazione conservatrice e a un’attuazione rigida e intransigente di una religione, come anche di un pensiero politico, scientifico, filosofico, eccetera. Il problema sta nelle modalità in cui si crede e si porta avanti un’idea, non tanto nell’idea stessa. Esiste un limite invalicabile che divide le profonde convinzioni interiori, un “fondamentalismo individuale”, dal vero e proprio fondamentalismo con cui si arriva a imporre la propria visione a un’intera società, con azioni a livello di stato o di gruppi di potere. Un esempio “occidentale” sono gli antiabortisti americani, che uccidono i medici che procurano aborti.

Di fondamentalismi ce ne sono in diverse parti del mondo; la “i” è un dettaglio indispensabile per tenere gli occhi aperti su ogni crimine contro l’umanità, per aprire crepe, per non chiudere gli occhi e la porta davanti a chi sta subendo una violenza.

“Stop fondamentalismi. Stop apartheid di genere”. La campagna del Cisda

Altreconomia, 23 dicembre 2024 di Patrizia Fabbri

Il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane ha lanciato una petizione per chiedere al governo italiano e alle Nazioni Unite di riconosce l’apartheid di genere come crimine contro l’umanità al pari delle discriminazioni su base etnica. E di non riconoscere il governo dei Talebani, sostenendo invece i movimenti democratici del Paese. Una lotta che non si “limita” all’Afghanistan

Apartheid di genere significa qualsiasi atto, politica, pratica o omissione che, in modo sistematico e istituzionalizzato, è commesso da un individuo, uno Stato, un’organizzazione, un’entità o un gruppo, con lo scopo o l’effetto di stabilire, mantenere o perpetuare il dominio di un genere sull’altro, attraverso la segregazione istituzionalizzata, l’oppressione o la discriminazione in ambito politico, economico, sociale, culturale, educativo, professionale o in qualsiasi altro ambito della vita pubblica e privata”.

È la definizione di crimine di apartheid di genere che il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda), con il supporto di un team di giuriste, ha elaborato e inviato direttamente attraverso la delegazione italiana alla VI Commissione delle Nazioni Unite che sta lavorando all’elaborazione di un Trattato globale per la prevenzione e la punizione dei crimini contro l’umanità.

È un lavoro complesso, sul quale l’Onu si sta confrontando da sei anni. Alla fine del 2024, tuttavia, nonostante l’ostruzionismo di alcuni Paesi, è stato delineato un percorso che definisce una tempistica per le proposte che gli Stati membri e la società civile possono sottoporre alla Commissione, anche se le negoziazioni vere e proprie sul Trattato sono previste solo nel 2028 e 2029.

Per sostenere il proprio contributo a questo processo, il Cisda, con la rete di associazioni con la quale collabora in Italia e in Europa, ha lanciato la “Campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere“, evidenziando la stretta connessione tra fondamentalismi e apartheid di genere.

Nell’ambito di questa campagna è stata avviata una raccolta firme per una petizione con la quale si chiede al governo italiano di sostenere una serie di obiettivi e di farsene promotore presso le istituzioni internazionali. Iniziando dal riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità (al pari di quello su base etnica) all’interno dei Trattati internazionali e di come sia applicato sistematicamente e istituzionalmente in Afghanistan; al non riconoscimento, né giuridico né di fatto, del regime fondamentalista talebano, sostenendo l’azione presa da alcuni Paesi di deferimento dell’Afghanistan alla Corte internazionale di giustizia per violazioni della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne e quella alla Corte penale internazionale per ulteriori indagini sulle continue violazioni dei diritti delle donne compiute dai talebani.

Infine, il Cisda chiede il sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e i partiti fondamentalisti. E contestualmente di negare la rappresentanza alle esponenti e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta.

Ma entriamo nel dettaglio di ciascuno di questi obiettivi e cerchiamo di capire perché sono così fortemente connessi.

Prima di tutto bisogna ricordare che il concetto di “apartheid di genere” non è ancora codificato nel diritto internazionale come crimine in quanto quello di apartheid, come definito nello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, si concentra sulla discriminazione razziale.

Le violazioni dei diritti umani basate sul genere, come la violenza sessuale, lo stupro, la negazione dei diritti riproduttivi e la segregazione di genere hanno invece caratteristiche uniche distinte dalla discriminazione razziale e il loro riconoscimento come crimine consentirebbe di affrontare, a livello giuridico internazionale, le violazioni sistematiche che colpiscono ragazze, donne e individui non conformi al genere, come le persone Lgbtqi+.

Nella definizione proposta dal Cisda, gli elementi chiave sono la segregazione istituzionalizzata, l’oppressione e la discriminazione, caratteristiche fondamentali dei regimi storici di apartheid, ma si sottolinea che tali atti possono essere commessi anche da attori statali, come gruppi organizzati. Si tratta di una precisazione importante che evidenzia il ruolo che questi ultimi possono svolgere nel commettere e perpetuare gravi violazioni dei diritti umani. A tutto ciò si aggiunge l’inclusione dell’omissione come forma di condotta criminale, in cui le autorità non agiscono per prevenire o punire la discriminazione o la violenza di genere.

Importante è poi la definizione del “soggetto passivo” nella quale è compreso qualsiasi gruppo di persone identificate dal loro genere e gli individui non conformi al genere: una definizione fondamentale per estendere le protezioni oltre il tradizionale concetto binario uomo-donna e andare a perseguire la discriminazione e le azioni violente rivolte alle persone Lgbtqi+.

Il Cisda ha voluto collegare strettamente il concetto di “fondamentalismi” (il plurale non è un caso) a quello di apartheid di genere perché ritiene che la discriminazione e l’oppressione sulla base del genere della persona siano diretta conseguenza di un approccio fondamentalista alla società. Approccio che non riguarda esclusivamente l’Islam o le religioni in generale.

Ormai assuefatti ad associare il fondamentalismo all’Islam, dimentichiamo infatti che il termine nasce da un movimento religioso protestante diffuso soprattutto negli Stati Uniti a fine Ottocento, che, in opposizione al protestantesimo liberale e a tutte le tendenze razionalistiche e critiche, impone l’accettazione rigida e intransigente dei “fondamentali” del Cristianesimo. E per venire all’oggi, basti pensare ai movimenti estremisti cristiani antiabortisti per comprendere quanto il fondamentalismo non sia esclusiva peculiarità di alcune interpretazioni dell’Islam.

E non è un fenomeno circoscrivibile alla sola religione perché il termine fondamentalismo indica “l’atteggiamento di chi persegue un’interpretazione estremamente conservatrice e un’attuazione rigida e intransigente di una religione, un pensiero politico, scientifico, letterario”. Per questo il Cisda ha scelto di utilizzare il plurale, perché vuole dire “Stop” a qualsiasi forma di fondamentalismo, sia esso religioso o politico o razziale o ideologico.

Concretamente la campagna, e di conseguenza la petizione, si focalizza sulla condanna al regime fondamentalista talebano, responsabile della soppressione dei più elementari diritti umani della popolazione civile, in particolare delle donne e degli individui Lgbtqi+, frutto del deliberato proposito di tradurre in sistema di governo un’idea fondamentalista che ha come principale obiettivo l’annientamento sistematico e istituzionale delle donne.

L’Afghanistan è il Paese che rappresenta il caso più emblematico di “apartheid di genere”. Qui le donne non possono andare a scuola, lavorare, uscire da sole, frequentare parchi, giardini o bagni pubblici, mostrare il volto in pubblico, cantare, pregare ad alta voce e sono bandite dalla vita pubblica e sociale per rimanere segregate in casa.

Anche se in Afghanistan l’apartheid di genere è un crimine perpetrato quotidianamente, l’autodeterminazione della donna vede drammatiche limitazioni ovunque nel mondo, anche in quello occidentale. Per questo la condanna ai fondamentalismi va di pari passo con la promozione del valore della laicità, unico argine efficace alla barbarie.

Ed ecco che veniamo al terzo obiettivo indicato nella petizione del Cisda: il sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e con i partiti fondamentalisti.

Quello della laicità e dell’adesione ai principi democratici delle forze di opposizione a un regime assolutista e fondamentalista è un tema vitale che, in un momento in cui l’Afghanistan è ormai uscito dai radar dei media, è prepotentemente tornato alla ribalta in Siria dove la gioia per la caduta del criminale Bashar al-Assad rischia di trasformarsi in nuovo terrore per la salita al potere del gruppo fondamentalista Tahrir al-Sham.

La storia dell’Afghanistan può dunque essere un monito per chi guarda l’attualità con occhi superficiali. Dalla fine degli anni Settanta ha subito ingerenze straniere da parte di potenze internazionali e regionali che hanno finanziato e armato gruppi fondamentalisti. Questi drammatici eventi, comuni a molti Paesi, hanno generato decenni di guerre provocando migliaia di vittime civili, corruzione endemica, traffico di droga, devastazione del tessuto sociale e ambientale e migrazioni forzate.

Ma in Afghanistan ci sono anche organizzazioni democratiche che, fin dagli anni Settanta, si sono attivate per l’uguaglianza e la giustizia sociale delle donne, per i diritti fondamentali all’istruzione, alla difesa legale, alle cure mediche e per la liberazione dalla povertà e dalla violenza. Come ad esempio l’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane (Rawa) o l’Associazione umanitaria per l’assistenza alle donne e ai bambini dell’Afghanistan (Hawca) che il Cisda sostiene dalla loro nascita.

Uomini e donne che, nonostante avessero l’opportunità di lasciare il Paese dopo il ritorno dei talebani, hanno deciso di rimanere, sfidando i rischi quotidiani del regime repressivo talebano, e continuano a operare in Afghanistan a fianco delle donne, dei bambini, di una popolazione che per la maggioranza vive in condizioni di estrema povertà oltre che di oppressione e di negazione di ogni diritto umano.

Ed è importante che, insieme al sostegno alle forze democratiche e antifondamentaliste, non venga riconosciuta alcuna rappresentanza politica alle esponenti politiche e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta. Troppo spesso infatti si vedono assurgere al ruolo di difensori dei diritti delle donne afghane personaggi ambigui e compromessi con i precedenti regimi.

Patrizia Fabbri è attivista per il Cisda, il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane, che da tempo collabora con Altreconomia. Per seguire i progetti del Cisda e sostenerne l’operato clicca qui

 

SBS Australia – Il regime dei talebani “considera le donne come un pericolo per la società”

La campagna “Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere”, mira a sensibilizzare l’opinione pubblica e a sollecitare azioni concrete da parte del governo italiano e della comunità internazionale contro i fondamentalismi, con un focus particolare sul regime talebano.

SBS Australia – 20 dicembre 2024

Il CISDA (Coordinamento Italiano di sostegno alle donne afghane) è un’organizzazione che da 25 anni si dedica a sostenere la lotta delle donne afghane, anche attraverso il finanziamento di progetti segreti per garantire la loro sicurezza.

“I progetti sono segreti perché il regime talebano ha cancellato ogni diritto delle donne, come quello di studiare oltre i 12 anni, lavorare fuori casa o viaggiare, e negli ultimi giorni ha anche tolto loro la possibilità di lavorare come ostetriche”, racconta Beatrice Biliato del CISDA ai microfoni di SBS Italian.

Nella campagna “Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere”, lanciata in concomitanza con la giornata mondiale dei diritti umani, il CISDA ha inviato una richiesta all’ONU affinché l’apartheid di genere venga riconosciuto come crimine contro l’umanità.

“Questo sarebbe un passo fondamentale per sensibilizzare la comunità internazionale sulla grave situazione delle donne afghane”, spiega Beatrice Biliato ai microfoni di SBS Italian.

Oltre alla richiesta all’ONU, il CISDA, nella sua campagna, ha anche inoltrato una richiesta al governo italiano di intervenire contro il regime talebano.

“Lo stato italiano non dovrebbe riconoscere né di fatto né di diritto il governo dei talebani, condannando quanto sta avvenendo in Afghanistan”, afferma Beatrice Biliato mentre spiega anche quanto sia importante fermare i finanziamenti al regime.

La desolante realtà degli afghani che tornano in patria: la condizione delle donne non li interessa

Arrivano dall’estero per la prima volta dal ritorno dei talebani al potere. Il Washington Post ha raccolto testimonianze: sono colpiti dalla sicurezza o dai nuovi centri commerciali, c’è disinteresse per i diritti negati. Luca Lo Presti (Pangea) a Huffpost: “Fuori da Kabul non si incontra mai una donna per strada, ma ai maschi non importa. I talebani vogliono accreditarsi all’estero, mostrando il volto di un governo libertario, che consente di vivere meglio di prima”

Silvia Renda, HUFFPOST, 29 novembre 2024

Per le strade di Kabul non si trova una carta per terra. I muri anti-esplosione sono stati smantellati, rivelando la presenza di alberi di melograno, ora maturi. Le bancarelle dei mercati offrono una ricca scelta di prodotti ortofrutticoli. Nuovi centri commerciali ospitano negozi di moda dal gusto occidentale. È un volto diverso, inatteso ed entusiasmante della città, per chi l’aveva conosciuta prima del ritorno dei talebani. Sono afghani di nascita con passaporto oggi straniero, che in numero crescente stanno ritornando in visita nel paese e raccontano sorpresi il cambiamento della città. Quello che non notano, o che ad alcuni non interessa notare, è che le strade sono tenute così pulite sfruttando il lavoro dei carcerati o contando sulla paura di un popolo timoroso di punizioni severe. Che se percepiscono maggiore sicurezza, è sicuramente anche perché il pericolo prima era in gran parte costituito dagli attacchi dei talebani stessi, oggi al potere. Che le bancarelle saranno anche piene di prodotti, ma povere di acquirenti, perché non possono permettersi quel cibo. Che nei centri commerciali vedere una donna passeggiare è veramente raro.

Il Washington Post ha raccolto le testimonianze di afghani con passaporti e visti stranieri rientrati nel paese per fare visita ai parenti, per la prima volta da quando nell’agosto 2021 i talebani sono tornati al potere. Nei loro racconti non c’è preoccupazione per le terribili restrizioni imposte alle donne, alle quali nel paese non è più concesso alcun diritto. Si meravigliano piuttosto del senso di sicurezza percepito per le strade, della possibilità di fare acquisti al nuovo duty-free dell’aeroporto o nei centri commerciali oggi ricchi di prodotti. Anche se la maggior parte dei residenti fatica a guadagnarsi da vivere, chiunque se lo possa permettere può scegliere tra una serie di ristoranti alla moda, molti così vuoti che ogni ospite ha un cameriere personale. Sono visitatori che spesso trascorrono così tanto tempo a casa dei parenti da non notare, o disinteressati a notare, la quasi totale assenza delle donne per le strade. Alcuni parenti in visita, scrive il Washington Post, vengono ingannati da quella che sembra un’applicazione poco severa delle regole, ignorando la strategia dei talebani: far rispettare le norme solo a intermittenza e confidare nella paura per ottenerne il rispetto.

“A Kabul si respira un’aria di sicurezza maggiore rispetto all’agosto 2021 semplicemente perché la guerra che era combattuta dai talebani non c’è più”, commenta ad HuffPost Luca Lo Presti, presidente di Pangea, associazione che si occupa dei diritti delle donne afghane, “L’economia della città sta ripartendo e questo ha fatto nascere centri commerciali con beni di lusso, strade più ordinate. C’è una percezione di ordine, pace e sicurezza sicuramente superiore rispetto a quella che si percepiva durante la presenza dei militari occidentali”. Allo stesso tempo, spiega Lo Presti, si è creata una forbice sociale ampissima: in questa economia, chi aveva i soldi si ritrova a essere ricchissimo, e chi non ne aveva si ritrova poverissimo: “La microeconomia non esiste più, non esistono le fasce medie della società. Gli impiegati statali hanno stipendi bassissimi che permettono a malapena di sopravvivere”.
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Dall’Iraq all’Afghanistan: come i diritti fondamentali delle donne vengono erosi in tutto il mondo

Nessun paese al mondo ha ancora raggiunto l’uguaglianza di genere. Donne e ragazze continuano a subire discriminazioni in tutti gli angoli del mondo, e la situazione sembra peggiorare, ma nonostante tutto continuano a resistereLa conversazione

Hind Elhinnawy, NDTV Word, 22 novembre 2024

Dall’Iraq all’Afghanistan fino agli Stati Uniti, le libertà fondamentali delle donne vengono erose mentre i governi cominciano ad abrogare le leggi esistenti.

Solo pochi mesi fa, il divieto alle donne afghane di parlare in pubblico è stata l’ultima misura introdotta dai talebani, che hanno ripreso il controllo del paese nel 2021. Da agosto, il divieto ha incluso cantare, leggere ad alta voce, recitare poesie e persino ridere fuori casa.

Il ministero dei talebani per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio, che attua una delle interpretazioni più radicali della legge islamica, fa rispettare queste regole. Fanno parte di un insieme più ampio di leggi “vizio e virtù” che limitano severamente i diritti e le libertà delle donne. Alle donne è persino vietato leggere il Corano ad alta voce ad altre donne in pubblico.

Negli ultimi tre anni, in Afghanistan, i talebani hanno privato le donne che vivono lì di molti diritti fondamentali, al punto che è loro concesso fare ben poco.

Dal 2021, i talebani hanno iniziato a introdurre restrizioni all’istruzione delle ragazze, iniziando con il divieto di classi miste e poi con il divieto di frequentare le scuole secondarie. A ciò è seguita la chiusura delle scuole per ragazze cieche nel 2023 e l’obbligo per le ragazze dalla quarta alla sesta elementare (dai nove ai 12 anni) di coprirsi il viso mentre si recano a scuola.

Le donne non possono più frequentare università o ricevere un certificato di laurea a livello nazionale, o seguire corsi di formazione in ostetricia o infermieristica nella regione di Kandahar. Alle donne non è più consentito fare le assistenti di volo o accettare un lavoro fuori casa. Le panetterie gestite da donne nella capitale Kabul sono state ora vietate. Le donne non sono più in grado di guadagnare denaro o di uscire di casa. Nell’aprile 2024, i talebani nella provincia di Helmand hanno detto ai media di astenersi persino dal dare voce alle donne.

L’Afghanistan è all’ultimo posto nel Women, Peace and Security Index e i funzionari dell’ONU e di altri enti lo hanno definito “apartheid di genere” . Le donne afghane stanno mettendo a rischio la propria vita, affrontando sorveglianza, molestie, aggressioni, detenzioni arbitrarie, torture ed esilio, per protestare contro i talebani.

Molti diplomatici discutono di quanto sia importante “impegnarsi” con i talebani, ma questo non ha fermato l’assalto ai diritti delle donne. Quando i diplomatici “si impegnano”, tendono a concentrarsi sulla lotta al terrorismo, alla lotta alla droga, agli accordi commerciali o al ritorno degli ostaggi . Nonostante tutto quello che è successo alle donne afghane in questo periodo , i critici suggeriscono che questo raramente rientra nella lista delle priorità dei diplomatici.

L’età del consenso in Iraq

Nel frattempo, in Iraq, il 4 agosto 2024, il parlamentare Ra’ad al-Maliki ha proposto un emendamento alla legge sullo status personale del 1959, che potrebbe abbassare l’età del consenso per il matrimonio da 18 a 9 anni (o 15 con il permesso di un giudice e dei genitori), sostenuto dalle fazioni conservatrici sciite nel governo.

La legge avrebbe il potenziale di far sì che questioni di diritto di famiglia, come il matrimonio, siano giudicate dalle autorità religiose. Questo cambiamento potrebbe non solo legalizzare il matrimonio infantile ma anche privare le donne dei diritti relativi al divorzio, all’affidamento dei figli e all’eredità.

In Iraq si registra già un tasso elevato di matrimoni precoci : il 7% delle ragazze si sposa prima dei 15 anni e il 28% prima di aver raggiunto la maggiore età.

I matrimoni non iscritti, non legalmente registrati in tribunale ma celebrati attraverso autorità religiose o tribali, impediscono alle ragazze di accedere ai diritti civili e lasciano donne e ragazze vulnerabili allo sfruttamento, agli abusi e all’abbandono, con limitate possibilità di ottenere giustizia.

Molti gruppi di donne si sono già mobilitati contro la legge . Ma l’emendamento ha superato la seconda lettura in parlamento. Se introdotto, potrebbe aprire la strada a ulteriori modifiche che approfondiscono le divisioni settarie e allontanano ulteriormente il paese da un sistema legale unificato. Sarebbe anche un passo indietro particolarmente preoccupante nella protezione dei diritti dei bambini e dell’uguaglianza di genere.

Diritti all’aborto negli Stati Uniti

Nel frattempo, negli Stati Uniti, l’accesso delle donne all’aborto è stato notevolmente eroso negli ultimi anni. Verso la fine del 2021, gli Stati Uniti sono stati ufficialmente etichettati come una democrazia in declino da un think tank internazionale.

Sei mesi dopo, la storica sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti Roe v Wade, che aveva salvaguardato il diritto costituzionale all’aborto per quasi 50 anni, è stata ribaltata. Ciò ha portato a una cascata di leggi restrittive, con più di un quarto degli stati degli Stati Uniti che hanno promulgato divieti assoluti o severe restrizioni all’aborto .

La deputata repubblicana degli Stati Uniti Marjorie Taylor Greene ha suggerito, a maggio 2022, che le donne dovrebbero rimanere celibi se non vogliono rimanere incinte . Se solo tutte le donne avessero questa scelta. Infatti, negli Stati Uniti si verifica un’aggressione sessuale ogni 68 secondi . Una donna americana su cinque è stata vittima di un tentativo di stupro o di uno stupro completato . Dal 2009 al 2013, le agenzie dei servizi di protezione dell’infanzia degli Stati Uniti hanno trovato forti prove che indicavano che 63.000 bambini all’anno erano vittime di abusi sessuali .

Questi sviluppi riflettono un modello preoccupante. Ci sono prove dal primo mandato di Donald Trump che potrebbe esserci un’ulteriore erosione dei diritti delle donne nella sua seconda presidenza. Durante il suo mandato precedente ci sono stati tentativi significativi di indebolire l’accesso all’assistenza sanitaria , con la sua politica estera che ha ripristinato la Global Gag Rule che limita l’accesso all’assistenza sanitaria riproduttiva delle donne in tutto il mondo tramite limitazioni di finanziamento.

Fragilità dei diritti delle donne

Se il mondo riesce a tollerare gli abusi dei talebani, le leggi restrittive dell’Iraq e le restrizioni statunitensi all’accesso all’aborto, ciò rivela la fragilità dei diritti delle donne e delle ragazze a livello globale e quanto sia facile negarli.

L’agenzia delle Nazioni Unite, UN Women, afferma che potrebbero volerci altri 286 anni per colmare i divari di genere globali nelle tutele legali. Nessun paese ha ancora raggiunto l’uguaglianza di genere , in base al divario retributivo di genere, all’uguaglianza legale e ai livelli di disuguaglianza sociale . Donne e ragazze continuano a subire discriminazioni in tutti gli angoli del mondo, e la situazione sembra peggiorare. Ma nonostante tutto le donne continuano a resistere .La conversazione

(Autore:  Hind Elhinnawy , docente di ruolo, Facoltà di Scienze Sociali, Università di Nottingham Trent )

Il governo talebano elimina i libri “non islamici”

Il governo dei talebani censura 400 libri “in conflitto con i valori islamici e afghani”. Nell’elenco dei libri vietati è incluso un libro pubblicato da RAWA (evidenziato nell’immagine).

AFP, Rawa, 20 novembre 2024

Le autorità talebane stanno lavorando per rimuovere dalla circolazione la letteratura “non islamica” e antigovernativa, controllando i libri importati, rimuovendo i testi dalle biblioteche e distribuendo elenchi di titoli proibiti.

Gli sforzi sono guidati da una commissione istituita presso il Ministero dell’Informazione e della Cultura subito dopo che i talebani sono saliti al potere nel 2021 e hanno applicato la loro rigorosa interpretazione della legge islamica, o sharia.

A ottobre, il Ministero ha annunciato che la commissione aveva individuato 400 libri “in conflitto con i valori islamici e afghani, la maggior parte dei quali erano stati ritirati dai mercati”.

Il dipartimento responsabile dell’editoria ha distribuito copie del Corano e di altri testi islamici per sostituire i libri sequestrati, si legge nella nota del ministero.

Il Ministero non ha fornito cifre relative al numero di libri rimossi, ma due fonti, un editore di Kabul e un dipendente governativo, hanno affermato che i testi sono stati raccolti nel primo anno di governo dei talebani e nuovamente negli ultimi mesi.

“C’è molta censura. È molto difficile lavorare e la paura si è diffusa ovunque”, ha detto l’editore di Kabul all’AFP.

Anche sotto il precedente governo sostenuto dall’estero, detronizzato dai talebani, i libri erano soggetti a restrizioni, quando c’erano “molta corruzione, pressioni e altri problemi”, ha affermato.

Ma “non c’era paura, ognuno poteva dire quello che voleva”, ha aggiunto. “Che riuscissimo o meno a fare qualche cambiamento, potevamo far sentire la nostra voce.”

 

Proibito quanto è in contrasto con la religione

L’AFP ha ricevuto da un funzionario del Ministero dell’Informazione l’elenco di cinque titoli vietati.

Tra questi rientrano “Gesù, figlio dell’uomo” del celebre autore libanese-americano Khalil Gibran, per il contenuto di “espressioni blasfeme”, e il romanzo “contro culturale” “Il crepuscolo degli dei orientali” dell’autore albanese Ismail Kadare.

Anche “Afghanistan and the Region: A West Asian Perspective” di Mirwais Balkhi, ministro dell’istruzione del precedente governo, è stato bandito per “propaganda negativa”.

Durante il precedente governo dei talebani, dal 1996 al 2001, a Kabul c’erano relativamente poche case editrici e librai, poiché il paese era già stato devastato da decenni di guerra.

Attualmente ogni settimana vengono importati migliaia di libri solo dal vicino Iran, che condivide la lingua persiana con l’Afghanistan, attraverso il valico di frontiera di Islam Qala, nella provincia occidentale di Herat.

La scorsa settimana le autorità talebane hanno rovistato tra le scatole di una spedizione in un deposito doganale della città di Herat.

Un uomo sfogliava un voluminoso titolo in lingua inglese, mentre un altro, che indossava un’uniforme mimetica con l’immagine di un uomo sulla toppa della spalla, cercava immagini di persone e animali nei libri.

“Non abbiamo vietato libri di nessun paese o persona in particolare, ma li studiamo e blocchiamo quelli che sono in contraddizione con la religione, la sharia o il governo, o che contengono foto di esseri viventi”, ha affermato Mohammad Sediq Khademi, funzionario del dipartimento di Herat per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio (PVPV).

“Non permetteremo l’importazione di libri contrari alla religione, alla fede, alla setta, alla sharia”, ha detto il trentottenne all’AFP, aggiungendo che le valutazioni dei libri importati sono iniziate circa tre mesi fa.

Le immagini di esseri viventi, vietate da alcune interpretazioni dell’Islam, sono limitate in base alla recente legge sui “vizi e le virtù” che codifica le regole imposte da quando i talebani sono tornati al potere, ma le norme sono state applicate in modo non uniforme.

Gli importatori sono stati informati sui libri da evitare e, quando alcuni libri vengono ritenuti inadatti, viene data loro la possibilità di restituirli e riavere indietro i soldi spesi, ha affermato Khademi.

“Ma se non ci riescono, non abbiamo altra scelta che sequestrarli”, ha aggiunto.

“Una volta abbiamo ricevuto 28 cartoni di libri che sono stati scartati.”

 

Liberarsi delle scorte

Le autorità non sono andate di negozio in negozio per controllare se ci sono libri proibiti, hanno affermato un funzionario del dipartimento provinciale per l’informazione e un libraio di Herat, che hanno chiesto di restare anonimi.

Tuttavia, alcuni libri sono stati rimossi dalle biblioteche di Herat e dalle librerie di Kabul, ha detto all’AFP un libraio, chiedendo anche lui l’anonimato, tra cui “La storia dei gruppi jihadisti in Afghanistan” dell’autore afghano Yaqub Mashauf.

Nei negozi di Herat si possono ancora trovare libri con immagini di esseri viventi.

A Kabul e Takhar, una provincia settentrionale dove i librai hanno dichiarato di aver ricevuto la lista di 400 libri proibiti, su alcuni scaffali continuavano a comparire titoli non ammessi.

Molte opere non afghane sono state vietate, ha affermato un venditore, “quindi guardano l’autore e, se risultano straniere, vengono per lo più bandite” .

Nella sua libreria erano ancora disponibili le traduzioni di “Il giocatore” dello scrittore russo Fëdor Dostoevskij e del romanzo fantasy “La figlia della dea luna” di Sue Lynn Tan.

Ma lui era ansioso di venderli subito “a un prezzo molto basso”, per liberarsene.