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Tag: Talebani

Costruire un’impresa come donna nell’Afghanistan dei Talebani

 Atia FarAzar, Zan Times, 8 aprile 2025
Il mio laboratorio si trovava all’interno di una casa in un villaggio a pochi chilometri dalla città di Faizabad. Nel settembre del 2023, decisi di trasferire la filiale del laboratorio in città, ma per farlo era necessario il permesso del Ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio. Un giorno, io e un amico andammo nel loro ufficio, ma quando arrivammo all’indirizzo indicato non ci fu permesso entrare.

Quel ministero è fondato sull’odio e l’esclusione delle donne. Quel giorno, nemmeno la guardia all’ingresso ci ha guardato, né ci ha parlato direttamente. Quando ho provato a parlargli, se n’è andato senza rispondere e ha portato un altro uomo. Anche quell’uomo ci ha parlato con disprezzo e riluttanza.

A causa del mio genere, mi trattavano con disprezzo, si vergognavano della mia presenza in pubblico e accanto a loro. Mentre iniziavo a spiegare il motivo della mia visita, la guardia mi interruppe e disse: “Il nostro capo non ti riceverà. Vai a casa e fai le faccende domestiche. Cosa c’entra una donna con gli affari? Gli affari sono per gli uomini”. Le sue parole mi sembrarono proiettili al cuore: crudeli e disumanizzanti. Risposi con fermezza: “Ho una licenza del governo talebano, perché non dovrebbe essermi permessa?”. Senza dire una parola o lasciarmi finire, si voltò e scomparve nel suo ufficio.

Di conseguenza, non ho potuto aprire la filiale cittadina della mia officina a Faizabad.

Khatereh racconta

Mi chiamo Khatereh e ho 28 anni. Prima dei talebani, quando studiavo economia all’Università del Badakhshan, gestivo anche una piccola attività parallelamente agli studi. A quel tempo, io e un amico compravamo tessuti a poco prezzo, li facevamo cucire da un sarto e vendevamo i vestiti finiti online, guadagnando un piccolo reddito.

Dopo la laurea, mi sono trasferita a Kabul e ho trovato lavoro in un ufficio governativo. Come migliaia di altre ragazze, avevo molti sogni: costruirmi un futuro, avanzare nella mia carriera e far crescere la mia attività.

Ma nell’estate del 2021, quando i talebani entrarono in città, sembrava che tutte le porte della speranza fossero state sbattute. Il terrore travolse il Badakhshan. La gente era in preda al panico, cercava disperatamente di fuggire dal Paese: l’aeroporto era così affollato che c’era a malapena spazio per stare in piedi. A Faizabad, le notti risuonavano degli spari e dei lanci di razzi celebrativi dei talebani, a suggellare la loro vittoria. Per una come me – che, solo pochi giorni prima, inseguiva i suoi sogni – la vita sotto il dominio dei talebani divenne rapidamente insopportabile.

Col passare del tempo, alle donne vennero imposte sempre più restrizioni. Persero il diritto di studiare, lavorare o camminare da sole in pubblico. Per salvarmi dalla depressione, decisi di riprendere il mio vecchio lavoro, con qualche modifica. Alla fine del 2021, ho avviato un workshop con una formatrice e otto allieve. Non è stato facile: ho dovuto affrontare molte sfide.

Le donne sono sempre più invisibili

I talebani avevano quasi raddoppiato le tariffe per le licenze. La tariffa per le licenze delle ONG è stata aumentata da 30.000 afghani [420 dollari] a 50.000 afghani [700 dollari], e quella per le licenze commerciali da 10.000 [140 dollari] a 18.000 afghani [252 dollari]. Non potevo permettermi la licenza per le ONG, quindi mi sono registrata con una licenza commerciale. Ma con una licenza commerciale non posso candidarmi per progetti o accedere a programmi di sviluppo o assistenza di organizzazioni internazionali a sostegno delle donne.

Quando sono andata all’ufficio delle imposte per pagare la tassa di licenza, non c’era nessuna guardia al cancello. Ho bussato nervosamente ed sono entrata lentamente. Il direttore – un uomo con i capelli lunghi, la barba lunga e gli occhi cerchiati di kajal – ha urlato alle sue guardie non appena mi ha visto: “Perché avete lasciato entrare questa donna?”. Le guardie mi hanno trascinato fuori dal suo ufficio e mi hanno mandata in un’altra sezione.

Scossa e spaventata, entrai nel reparto successivo, dove fui trattata come un’aliena. Era chiaro che la presenza di una donna nel loro ufficio li metteva profondamente a disagio. Senza dirmi una parola, presero il pagamento della mia licenza e mi fecero uscire in fretta.

Questo tipo di trattamento non si limitava agli uffici governativi. Persino quando andavo a comprare materiali per l’officina, autisti e negozianti si rifiutavano di aiutarmi semplicemente perché non avevo un mahram. Avevano paura dei talebani perché avevano ordinato che nessun autista potesse dare un passaggio a una donna senza un accompagnatore maschile. Quando dovevo andare in città a fare la spesa, spesso dovevo aspettare a lungo sul ciglio della strada, finché un autista di buon cuore non provava finalmente pietà per me e mi portava in città.

Prima che i talebani salissero al potere, avevo avviato la mia attività con soli 2.500 afghani [35 dollari]. Dopo il loro ritorno, ho ripreso il lavoro con 25.000 afghani [350 dollari].

Ho anche aperto un reparto di incisione, parallelamente alla sartoria. Gli incisori incidono motivi decorativi sulle pietre preziose. Dato che l’estrazione e il mercato delle pietre preziose in Badakhshan sono fiorenti, ho potuto dare lavoro a molte donne e ragazze. Oggi, più di 100 donne e ragazze lavorano nel mio laboratorio, ognuna delle quali guadagna uno stipendio mensile che va da almeno 1.000 afghani fino a 15.000 afghani [209 dollari].

Purtroppo, la vita delle donne diventa sempre più limitata. Sotto il regime talebano, noi donne siamo oppresse con vari pretesti, non ci è permesso viaggiare o spostarci senza un accompagnatore maschile e recentemente queste restrizioni hanno raggiunto il punto in cui persino la voce delle donne è stata bandita.

Eppure, nonostante le difficoltà e le numerose sfide che ho dovuto affrontare – essere stata respinta dagli uffici a causa del mio genere, essere stata messa a tacere e licenziata – non ho perso il mio senso di femminilità né la mia determinazione. Al contrario, sento che ogni nuova pressione non fa che rafforzarmi.

Quello che è iniziato come un piccolo workshop con una formatrice e otto studentesse è ora diventato un luogo di lavoro per cento donne. Oltre al workshop, sono anche in contatto con un gruppo di giovani imprenditrici con cui lavoriamo insieme e ci sosteniamo a vicenda.

Atia FarAzar è lo pseudonimo di una giornalista dello Zan Times

Gli esperti delle Nazioni Unite chiedono la fine delle esecuzioni pubbliche in Afghanistan

Ellie Cho, Jurist News, 18 aprile 2025
Giovedì gli esperti delle Nazioni Unite hanno esortato i talebani al potere in Afghanistan a imporre immediatamente una moratoria sulle pene disumane, tra cui le pene capitali e corporali, in risposta alle esecuzioni pubbliche avvenute l’11 aprile.

La scorsa settimana, la corte suprema de facto dei talebani ha imposto quattro esecuzioni pubbliche nelle province di Badghis, Nimroz e Farah. Gli esperti hanno dichiarato: “Le esecuzioni di venerdì rappresentano un preoccupante aumento di questo tipo di punizione. Esortiamo i talebani a introdurre una moratoria immediata sulla pena di morte, in vista della sua abolizione”.

Gli esperti delle Nazioni Unite hanno condannato la pena capitale come una violazione fondamentale della dignità umana e del diritto alla vita. Hanno aggiunto: “Trasformare le esecuzioni in eventi pubblici non può mai essere giustificato, nemmeno per motivi religiosi. Normalizza la brutalità, desensibilizza le comunità alla violenza e crea un clima di paura e intimidazione”.

Nel 2006, il Comitato sui diritti dell’infanzia ha respinto la legge religiosa come giustificazione per le punizioni corporali. Queste punizioni, tra cui la lapidazione e l’amputazione, violano la libertà di religione e la dignità dell’individuo ai sensi del Patto internazionale sui diritti civili e politici . Le punizioni corporali violano anche la Convenzione contro la tortura , ha sostenuto il comitato.

Secondo un rapporto della Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA), le punizioni corporali includono dalle 30 alle 39 frustate per persona condannata, con alcuni casi che arrivano fino a 100 frustate. Gli esperti delle Nazioni Unite hanno espresso preoccupazione per il continuo ricorso alle punizioni corporali in violazione del diritto internazionale dei diritti umani, nonché per la mancanza di accesso alla giustizia sotto il regime talebano.

L’UNAMA ha inoltre denunciato la fustigazione pubblica di oltre 60 persone da parte del regime talebano nel giugno 2024. La punizione faceva seguito alla condanna di un tribunale per reati quali sodomia, furto e rapporti immorali in uno stadio sportivo nella provincia settentrionale di Sari Pul.

Cresce la preoccupazione per la natura autoritaria del governo talebano e per le diffuse violazioni dei diritti umani, in particolare per l’oppressione istituzionalizzata di donne e ragazze. Le Nazioni Unite hanno espresso costante preoccupazione per la situazione dei diritti umani in Afghanistan, soprattutto per quanto riguarda le donne.

Sotto il regime dei talebani, donne e ragazze in Afghanistan ricorrono alla droga a causa della crescente depressione

8AM Media, Rawa, 10 aprile 2025

Una conseguenza dell’affrontare solo un futuro desolante e del vedersi negato il diritto allo studio e al lavoro

Questo articolo è stato scritto da Behnia per Hasht-e Subh Daily e pubblicato il 27 marzo 2025. Una versione modificata dell’articolo è pubblicata su Global Voices nell’ambito di un accordo di media partnership.

A seguito dell’imposizione da parte dei talebani di restrizioni all’istruzione, agli studi e all’occupazione femminile, molte donne e ragazze in Afghanistan si sono rivolte a diverse sostanze stupefacenti. Un’inchiesta di Hasht-e Subh Daily ha rivelato che ragazze e donne fanno uso di  tabacco, nonché di farmaci sedativi e ansiolitici, per sfuggire a pressioni psicologiche, stress mentale e depressione.

Il rapporto include interviste con 30 persone: ragazze a cui è stata negata l’istruzione, donne che hanno subito la prigionia dei talebani e donne che vivono in esilio. I risultati sono stati raccolti negli ultimi sei mesi nelle province di Kabul, Herat, Balkh, Takhar, Jawzjan, Ghazni e Sar-e Pul.

Diversi psicologi, medici e farmacisti hanno riferito di aver visto, nell’ultimo anno, un numero significativo di giovani donne e ragazze adolescenti ricorrere a sigarette, droghe sintetiche, antidolorifici e farmaci antidepressivi a causa di una grave depressione. Secondo queste fonti, nell’ultimo anno, fino a 500 giovani donne e ragazze hanno cercato un trattamento, utilizzando questi farmaci per alleviare la depressione, forti mal di testa e la solitudine e per prevenire l’autolesionismo.

Le prospettive degli psicologi sulla crescente dipendenza

Uno psicologo dell’Ospedale Mentale di Kabul riferisce che nell’ultimo anno, più di 100 ragazze provenienti da Kabul e da altre province hanno visitato la struttura a causa di una grave depressione. Solo nell’ultimo mese, sono stati registrati due casi di consumo di Tablet K, un tipo di metanfetamina. Lo psicologo ha spiegato in un’intervista con Hasht-e Subh Daily: “Due clienti, di 22 e 19 anni, si sentivano chiuse le porte e usavano Tablet K per ridurre la pressione psicologica e mentale”.

Lo psicologo aggiunge che lo stato mentale ed emotivo delle ragazze peggiora ogni giorno e che le ragioni principali del consumo di tabacco tra le giovani donne e le adolescenti sono la chiusura delle opportunità educative e l’incapacità di realizzare le proprie aspirazioni.

Uno psicologo della provincia nord-occidentale di Balkh, che lavora presso un centro di salute mentale della provincia, afferma che, oltre al suo lavoro presso il centro, collabora con organizzazioni e assiste personalmente ragazze e donne a cui viene negato l’accesso all’istruzione e al lavoro e che soffrono di depressione grave. Nell’ultimo anno, ha avuto più di 130 clienti donne presso il suo studio privato. Osserva che alcune di queste clienti si sono rivolte alle sigarette a causa delle restrizioni imposte dai talebani alle donne.

Perché le studentesse si sono rivolte alle sigarette e alle droghe?

Diverse studentesse e universitarie affermano che le pressioni psicologiche ed emotive derivanti dalla negazione dell’istruzione, unite alle pressioni esercitate dalle loro famiglie, le hanno spinte a fumare. Raccontano che, senza fumare, soffrono di forti mal di testa, solitudine e un senso di soffocamento, che le porta a sentirsi disperate nel continuare la propria vita.

Nilab (pseudonimo), una studentessa del decimo anno, è sotto pressione a causa dell’esclusione scolastica e delle pressioni familiari, che l’hanno portata a una grave depressione. Questa, unita all’eccessiva preoccupazione per il suo futuro incerto, le ha causato forti mal di testa. Inizialmente ha fatto ricorso a sonniferi e sedativi e ora fuma anche sigarette.

Aggiunge che quattro sue amiche si trovano nella stessa situazione e fumano anche loro di nascosto dalle loro famiglie.

I risultati del rapporto indicano che il consumo di tabacco è più diffuso tra le giovani donne e le adolescenti di età compresa tra 18 e 25 anni.

Anche farmaci antidolorifici e antidepressivi come Tramadolo, Zeegap, Zoloft, Prolexa, Sanflex, Zing, Arnil, Amitriptilina, Brufen, Paracetamolo e iniezioni di sedativi sono ampiamente utilizzati. Negli ultimi tre anni, l’uso di questi farmaci ha portato molte ragazze a sviluppare dipendenza, assumendoli da una a quattro volte al giorno.

Dipendenza tra le donne che hanno vissuto la prigionia

L’esperienza della prigionia talebana è un fattore significativo nella dipendenza dal tabacco delle donne. Le pressioni psicologiche ed emotive che le donne portano con sé in esilio dopo aver sopportato le prigioni talebane le hanno portate a usare non solo sedativi prescritti dagli psichiatri, ma anche vari prodotti del tabacco, come sigarette e narghilè elettronici.

Una donna imprigionata dai talebani e ora residente in Pakistan racconta che molte donne con esperienze simili hanno subito gravi danni psicologici ed emotivi, ricorrendo a sigarette e narghilè elettronici per gestire la loro tensione mentale. Il consumo di questi prodotti del tabacco tra queste donne è diffuso e, secondo lei, alcune consumano un intero pacchetto di sigarette in un solo giorno.

Secondo lei, sebbene l’uso del tabacco non curi alcun dolore, le donne si sentono costrette a farlo per sfuggire all’intensità delle loro pressioni psicologiche.

Automedicazione, costi elevati e accesso ai farmaci

Il consumo di droghe tra ragazze e donne avviene in due modi distinti. Alcune, avendo accesso a psicologi, consultano neurologi o psichiatri e utilizzano sedativi, antistress, ansiolitici e sonniferi prescritti come parte del trattamento.

Sebbene l’uso prolungato di questi farmaci non sia raccomandato dagli psichiatri, molte ragazze, attratte dai loro effetti immediati, smettono di consultare il medico e iniziano a procurarseli autonomamente in farmacia. La maggior parte delle donne e delle ragazze, soprattutto a Kabul e in esilio, continua a usare questi farmaci anche dopo la fine del trattamento prescritto.

Tuttavia, la maggior parte delle ragazze e delle donne afferma di usare antidolorifici, sedativi e antidepressivi senza consultare uno psicologo o uno psichiatra. Paracetamolo e ibuprofene, economici e facilmente reperibili in farmacia, sono ampiamente utilizzati dalle ragazze.

Questo è particolarmente comune nelle province con accesso limitato a psichiatri e farmacie. Mahdia, della provincia sudorientale di Ghazni, ad esempio, ottiene questi farmaci dopo una camminata di tre ore fino a una farmacia locale e li assume per forti mal di testa – non ha mai visto uno psichiatra. Anche Fatima, della provincia nordorientale di Takhar, riceve gratuitamente antidolorifici e antidepressivi dall’ospedale locale della sua provincia.

Razia, residente a Kabul, afferma di pagare 1.500 AFN (21 dollari) per uno dei suoi farmaci, l’equivalente del costo di un sacco di farina per la sua famiglia. Se dovesse comprare tutti i suoi farmaci, costerebbe 4.000 AFN (56 dollari) al mese. Maryam, una studentessa di Kabul, aggiunge che spende tra i 400 e gli 800 AFN (6-12 dollari) al mese per i suoi farmaci, un prezzo elevato che deve sostenere nonostante la sua difficile situazione economica.

La crescente tossicodipendenza e dipendenza da farmaci tra donne e ragazze in Afghanistan è uno dei tanti effetti distruttivi involontari delle politiche restrittive dei talebani. Con più tempo e ulteriori ricerche, verranno svelate altre implicazioni sociali ed economiche negative dei maltrattamenti subiti dalle donne in Afghanistan.

Negazione delle donne, glorificazione della povertà e idealizzazione della vita rurale nel sermone del Mullah Hibatullah

Younus Negah, Zan Times, 7 aprile 2025
Durante il mese di Ramadan e l’Eid che segue, le discussioni su fame e povertà si intensificano. Religiosi e politici offrono conforto ai poveri mentre predicano ai ricchi. Parlano di come la fame purifichi l’anima e rafforzi la fede, e incoraggiano i benestanti a fare l’elemosina e a mostrare compassione.

Eppure, in questo mese, raramente i mullah dal pulpito – o i leader politici nelle società musulmane – parlano di equa distribuzione delle risorse, lotta allo sfruttamento o sforzi concreti per ridurre la povertà. Piuttosto, il messaggio dominante accetta la disuguaglianza come volontà di Dio

Nella retorica dei mullah, la povertà non ha alcuna connotazione negativa. Al contrario, è rappresentata come un vantaggio spirituale. Il termine faqir (povero) è spesso usato in modo intercambiabile con “mistico”.

Nell’Emirato dei Talebani – un’alleanza di mullah, sottoproletari, contrabbandieri e uomini d’affari – la povertà viene apertamente elogiata e il governo si dissocia da qualsiasi responsabilità per la sicurezza alimentare della popolazione. I leader talebani hanno ripetutamente affermato di non aver preso il potere per portare prosperità o benessere, spiegando che le persone devono chiedere a Dio il loro sostentamento di base e insistendo sul fatto che la quota di ciascuno è stata scritta all’alba dei tempi sulla tavola divina e che è dovere dei poveri essere pazienti e grati.

Eppure proprio questi mullah, personaggi di basso profilo e  contrabbandieri non contano su Dio per il proprio sostentamento. Invece, mettono le mani nelle tasche sia di chi ha fame, sia di chi non ce l’ha in tutto l’Afghanistan, estorcendo elemosine e tasse a venditori ambulanti, contadini, negozianti e commercianti. Pianificano il loro arricchimento, combattono e persino uccidono per ottenere quei fondi.

La competizione per la distribuzione del bilancio nazionale, i profitti derivanti dalle entrate minerarie, il controllo di redditizi uffici doganali e fiscali e l’accesso agli aiuti esteri palesi e occulti hanno portato potenti fazioni talebane, in particolare i campi del Mullah Hibatullah e della rete Haqqani, sull’orlo del conflitto aperto.

La misericordia dei ricchi e la preghiera dei poveri

Il peso della povertà della gente ha oscurato la gioia dell’Eid, persino durante il sermone del Mullah Hibatullah. Ha parlato a lungo ai poveri che si erano riuniti all’Eidgah per ascoltarlo e, attraverso loro, alla stragrande maggioranza degli affamati, di cui esige l’obbedienza incondizionata. Il suo messaggio era incentrato sulla virtù della preghiera e della pazienza tra i poveri.

Il mullah Hibatullah ha affermato che lo stesso Dio che ha creato le Sue creature provvede anche a loro, e che i poveri non dovrebbero lamentarsi o incolpare nessuno per la loro povertà. “Tizio e Caio non possono farci niente”, ha detto. Ma i “tizio e caio” a cui si riferisce sono proprio coloro che riscuotono le tasse religiose (usher) e i contributi economici dalla gente, mentre negano loro libertà, istruzione e lavoro. Se qualcuno non paga puntualmente l’usher o ritarda a dare da mangiare ai mullah e ai loro alleati, andrà incontro a una punizione severa, che non sarà rimandata al Giorno del giudizio.

Mullah Hibatullah ha sottolineato che sia la fame che l’abbondanza sono prove di Dio. I ricchi dovrebbero essere grati per ciò che hanno, e i poveri dovrebbero essere grati per la loro mancanza di sostentamento. Secondo lui, il rapporto tra musulmani ricchi e poveri dovrebbe basarsi sulla misericordia e sulla preghiera, come definito dalla legge islamica, : “I ricchi devono mostrare compassione verso i bisognosi e i poveri dovrebbero pregare per i ricchi ed essere contenti della loro condizione”.

Nella sua visione del mondo, la ricchezza è solo un dono divino. Nessuno può incrementarla o diminuirla, perché il sostentamento di ognuno è scritto nel suo destino. Ai suoi occhi, furto, saccheggio, sfruttamento, contrabbando e appropriazione indebita non sono le cause della povertà diffusa o dell’estrema concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. “Dio ha ordinato ogni cosa all’inizio dei tempi”, afferma.

Predicava che i poveri dovessero rimanere in silenzio e che fosse religiosamente illegittimo per loro protestare per la propria condizione. “Quando un bambino viene concepito nel grembo materno”, diceva, “Dio comanda all’angelo di scrivere il suo destino: se sarà ricco o povero, quanto sostentamento avrà e con quali mezzi lo guadagnerà”.

A suo avviso, i poveri non hanno il diritto di chiedersi perché altri ottengano la loro ricchezza attraverso furto, contrabbando, saccheggio o violenza – perché l’angelo, per ordine di Dio, lo ha scritto così fin dall’inizio. I poveri non dovrebbero chiedere al Mullah Hibatullah perché le sue spese d’ufficio nel secondo trimestre dell’ultimo anno fiscale siano ammontate a due miliardi di afghani – quasi il 6% dell’intero bilancio operativo del suo Emirato. Né dovrebbero chiedersi perché, sotto il suo governo, oltre l’80% della popolazione – secondo alcune stime, 28 milioni di persone – soffra di fame e abbia urgente bisogno di aiuti.

Secondo il Mullah Hibatullah, i poveri dell’Afghanistan devono unirsi ai comandanti talebani, ai sottoproletari loro alleati, ai contrabbandieri e ai saccheggiatori perché si trovano ad affrontare nemici ancora più grandi.

Jinn e umani: i nemici dei musulmani

Il giorno in cui il Mullah Hibatullah ha tenuto il suo sermone all’Eidgah di Kandahar, sui media è circolato un breve video. Mostrava diverse donne che gridavano aiuto mentre sedevano a terra lungo il sentiero che portava all’Eidgah.

Nell’Emirato dei Talebani, le donne sono trattate come jinn, esseri soprannaturali che devono esistere ma rimanere invisibili. Ci si aspetta che le donne siano presenti, obbedienti e fedeli, ma invisibili. Non devono essere viste pregare nelle moschee o partecipare alla vita religiosa pubblica come fanno gli uomini.

Per i talebani, le donne – come i jinn – possono essere buone o cattive. Eppure, che siano considerate buone o cattive, ci si aspetta comunque che rimangano nascoste. Proprio come Dio ha creato i jinn e li ha tenuti nascosti agli occhi umani, comandando loro di agire in amicizia o inimicizia nell’ombra, anche le donne devono vivere lontane dagli occhi degli uomini.

Nel sermone dell’Eid del Mullah Hibatullah, la presenza dei jinn era più evidente di quella delle donne. Invitò i credenti, poveri e ricchi, a unirsi, avvertendo che “tra i jinn e gli umani i nemici ” dei musulmani sono in agguato . Secondo lui, “le forze sataniche – sia jinn che umane” – sono unite e diffondono la discordia e la cospirazione nei paesi islamici.

Pertanto, ha esortato i musulmani a superare le loro divisioni personali e sociali e a prendere coscienza della minaccia. Povertà, disoccupazione, mancanza di istruzione e ingiustizie: queste, a suo avviso, non sono le vere preoccupazioni dei musulmani afghani, insistendo sulla necessità di forgiare l’unità contro i “jinn satanici e le forze umane”, minacce che superano tutte le altre.

Gli abitanti del villaggio sono amici, gli abitanti della città sono nemici

Negli ultimi quattro anni, il mullah Hibatullah non ha fatto alcuno sforzo per nascondere la sua ostilità verso la città e la vita urbana. Considera Kabul un covo di demoni – un luogo di peccato e corruzione – e ha fondato il suo Emirato a Kandahar, dove dominano costumi e codici rurali.

Sebbene nei suoi sermoni nomini jinn, diavoli, infedeli e occidentali come nemici, la lama dei suoi decreti e delle sue sentenze disumane si è abbattuta quasi esclusivamente sugli abitanti delle città. Lui e i suoi alleati hanno lavorato sistematicamente per trasformare le città afghane in villaggi.

Nel suo sermone per l’Eid, ha descritto la democrazia come “ignoranza velenosa” che è stata infine sradicata grazie ai “mujaheddin in prima linea” e alla “gente comune delle campagne”.

Ha dichiarato: “Se la jihad dovesse essere divisa, metà andrebbe ai combattenti nelle trincee e l’altra metà agli abitanti dei villaggi”. Secondo lui, gli abitanti dei villaggi hanno sostenuto la guerra contro le città e la democrazia offrendo le loro case, il cibo e persino i loro figli ai mujaheddin.

Ha poi continuato avvertendo che “gli infedeli e i sostenitori della democrazia” stanno cercando di trasformare ancora una volta l’Afghanistan in un campo di battaglia in fiamme, mirando a dividere “la gente comune” (il suo termine per i poveri abitanti dei villaggi) dall’Emirato.

Hibatullah Akhundzada, rivolgendosi alle comunità povere e rurali, ha detto: “Siete tutti sudditi dell’Emirato… e se mi vedete come vostro Imam… Unitevi… Obbedite ai miei ordini… La società ritroverà l’ordine”. E se non lo farete, “alla fine sarete coinvolti in guerre”.

Prestare attenzione a questi dettagli, come la formulazione di discorsi apparentemente ripetitivi, è essenziale per comprendere le posizioni del Mullah Hibatullah e di altri leader talebani e comprendere la situazione attuale del Paese. I Talebani presentano innumerevoli difetti, tra cui dipendenze straniere e radicati pregiudizi etnici e tribali, ma la caratteristica distintiva del gruppo è la sua arretratezza rurale.
I Talebani sono religiosi, rurali e sottoproletari che combattono contro la libertà, la democrazia, l’istruzione, la presenza sociale delle donne e tutti gli altri componenti della vita civile e democratica.

Younus Negah è un ricercatore e scrittore afghano attualmente in esilio in Turchia.

L’UNAMA avverte: i talebani stanno rimodellando il sistema educativo afghano in stile madrasa

8AM Media, 11 aprile 2025

La Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA) ha pubblicato un rapporto completo che descrive in dettaglio gli impatti di vasta portata della legge talebana “Propagazione della Virtù e Prevenzione del Vizio”. Il rapporto, pubblicato giovedì 10 aprile, è il risultato di sei mesi di monitoraggio imparziale e osservazione sul campo quotidiana in tutto il Paese. Secondo l’UNAMA, dall’inizio dell’applicazione della legge, i talebani hanno intrapreso sforzi sempre più strutturati e organizzati per attuarla a livello nazionale.

Il rapporto rivela che comitati provinciali per l’applicazione della legge sono stati istituiti in 28 province afghane, con circa 3.300 agenti di polizia morale nominati e dotati di poteri speciali per far rispettare la legge. L’UNAMA ha sottolineato che l’attuazione della legge ha avuto ampie ripercussioni sociali ed economiche sia per gli uomini che per le donne, con effetti notevoli sulla vita pubblica, tra cui occupazione, sanità, istruzione e libertà di stampa.

L’UNAMA ha avvertito che le conseguenze dirette e indirette della legge sulla virtù e il vizio hanno ulteriormente aggravato l’attuale crisi economica in Afghanistan. Inoltre, la legge ha ostacolato la capacità delle agenzie delle Nazioni Unite e delle organizzazioni non governative, sia locali che internazionali, di fornire aiuti e servizi alle popolazioni vulnerabili. Il rapporto ha inoltre documentato violazioni delle libertà personali e private, in particolare negli spazi pubblici e nelle attività economiche.

Uno dei risultati più preoccupanti del rapporto è la trasformazione del sistema di istruzione pubblica del Paese in un modello religioso basato sulle madrase. Secondo l’UNAMA, questo cambiamento è stato accompagnato dalla graduale sostituzione di funzionari pubblici istruiti con studiosi religiosi filo-talebani nei ministeri. Allo stesso tempo, le minoranze etniche e religiose vengono sistematicamente escluse dalle strutture di potere e dalle opportunità economiche.

Il rapporto evidenzia inoltre che i Talebani hanno concentrato i loro sforzi di applicazione della legge nelle province settentrionali dell’Afghanistan, dove si ritiene che l’opposizione alla legge sia più probabile. I risultati dell’UNAMA indicano una tendenza più ampia al radicamento ideologico da parte dei Talebani, con implicazioni a lungo termine per la governance, l’istruzione e la società civile dell’Afghanistan.

Educazione vietata alle donne in Afghanistan. Un rapporto dell’Unesco

Tuttoscuola, 8 aprile 2025

Banned from education: a review of the right to education in Afghanistan” (“Escluse dall’educazione: una indagine sul diritto all’educazione in Afghanistan”) è il titolo di un aggiornato rapporto pubblicato nei giorni scorsi dall’Unesco e che getta nuova luce sul dramma delle donne afghane, e in particolare delle giovani in età scolare, alle quali – dopo il ritorno al potere dei talebani nel 2021 – è stato vietato di frequentare la scuola al di là di quella primaria, che dura 6 anni.

Le cifre sono impressionanti: dal 2021 al 2024 è stato impedito di continuare gli studi a un milione e mezzo di ragazze, mentre da una indagine censuale condotta dall’Unicef nel 2024 è risultato che anche una buona parte dei loro coetanei maschi è stata avviata al lavoro per far fronte alla grave crisi economica del Paese, spesso anche prima di completare la scuola primaria.

Secondo i dati del Ministero dell’Istruzione de facto (così lo definisce il rapporto Unesco), le iscrizioni dei ragazzi sono diminuite da 4.092.658 (primaria) e 1.393.423 (secondaria) del 2021-22 a 3.791.447 (primaria) e 1.177.363 (secondaria) dell’anno 2023-24). Inoltre i ritardi nei pagamenti delle indennità per le persone con disabilità e delle pensioni per i dipendenti pubblici hanno limitato e limiteranno ulteriormente l’accesso all’istruzione, perché questi ritardi, creando difficoltà finanziarie alle famiglie, non consentono loro di sostenere la spesa per acquisire le risorse educative di base o pagare le tasse scolastiche.

A questo vero e proprio processo di descolarizzazione dell’Afghanistan concorre anche il peggioramento della qualità dell’insegnamento dovuto al fatto che, secondo testimonianze raccolte dai ricercatori dell’Unesco, alcuni insegnanti e amministratori recentemente assunti siano stati scelti in base alle loro “connessioni e affiliazioni con il Ministero dell’Istruzione de facto”, piuttosto che delle loro qualifiche o esperienze professionali. Inoltre, secondo diversi intervistati, anche gli stipendi degli insegnanti sono stati sostanzialmente ridotti. La presa del potere da parte dei talebani ha portato a una fortissima restrizione delle risorse assegnate al sistema educativo del Paese, compromettendo ulteriormente la qualità dell’istruzione, visto che già prima del loro ritorno al governo (2021) un numero considerevole di scuole pubbliche non disponeva di strutture e materiali adeguati, soprattutto nelle aree rurali. E a pagare il prezzo più alto sono, come sempre con i fondamentalisti islamici di scuola sciita, le donne, a partire da quelle in età scolare.

Afghanistan, due donne queer rischiano la morte dopo un tentativo di fuga verso l’Europa

gay.it Francesca Di Feo  1 aprile 2025

Di Maryam e Maeve si sono perse le tracce dal 20 marzo, giorno del loro arresto da parte dei talebani. Liberarle è una corsa contro il tempo.

Un biglietto aereo, l’illusione di un passaggio verso l’altrove, e poi il silenzio. Lo scorso 20 marzo, Maryam Ravish e Maeve Alcina Pieescu sono state fermate all’aeroporto internazionale di Kabul mentre tentavano di lasciare l’Afghanistan. Erano pronte a fuggire verso l’Iran, prima tappa di una rotta clandestina che le avrebbe condotte, forse, in un Paese europeo. Una destinazione che significava, semplicemente, poter vivere.

Maryam, lesbica, diciannove anni, e Maeve, ventitré, donna transgender, erano entrambe attiviste della rete sotterranea Roshaniya, nata per offrire rifugio alla comunità LGBTQIA+ afghana. I loro sogni si sono infranti sulla pista dell’aeroporto, dove gli agenti dell’intelligence talebana le hanno fermate, perquisite, arrestate. Da allora non si hanno più notizie certe. E mentre la comunità internazionale osserva con una colpevole prudenza, il tempo corre: le due giovani rischiano la pena di morte.

Quello che sta accadendo a Maryam e Maeve è l’ennesimo, tragico epilogo per chi, in Afghanistan, appartiene a una minoranza di genere o sessuale, dove vivere come persona queer significa sopravvivere ogni giorno a un sistema che trasforma l’identità in crimine, il desiderio in reato, la libertà in eresia.

Ed è proprio nell’invisibilità forzata che si consuma una delle più profonde violazioni dei diritti umani del nostro tempo: nessuna legge protegge chi ama fuori dalle norme, e la Sharia – interpretata secondo i canoni del fondamentalismo talebano – legittima lapidazioni, torture e sparizioni.

Afghanistan, dove sono Maryam e Maeve?

Secondo quanto ricostruito dalla rete Roshaniya e dalla Peter Tatchell Foundation, Maryam e Maeve si erano presentate all’aeroporto accompagnate da Parwen Hussaini, ventenne e compagna di Maryam, anche lei attivista. Solo Parwen è riuscita a salire sul volo diretto a Teheran. Le altre due, bloccate a un controllo, sono state costrette a consegnare i telefoni.

È bastata la presenza di contenuti legati alla comunità LGBTQIA+ – foto, chat, contatti – per far scattare l’arresto. Le testimonianze raccolte raccontano di percosse, umiliazioni e minacce. Da allora, il silenzio.

Parwen ha diffuso un video in farsi in cui racconta il dramma vissuto. Parla di famiglie ostili, minacce, e soprattutto della totale incertezza sulla sorte delle sue compagne. “Non abbiamo notizie da Maryam, quindi non sappiamo in che situazione si trovino ora. È possibile che siano state messe in isolamento e che vengano lapidate a morte — c’è la possibilità che ricevano una condanna a morte”.

Anche la sorella di Maeve, Susan Battaglia, residente negli Stati Uniti, ha lanciato un appello pubblico: durante l’interrogatorio, la sorella avrebbe dichiarato di non credere più nella religione islamica. Un gesto che, in un Paese dove l’apostasia è punita con l’esecuzione, rischia di trasformarsi in una condanna irreversibile.

Maryam, dal canto suo, era già stata costretta dalla famiglia a un matrimonio eterosessuale. Il suo tentativo di fuga rappresentava un atto di autodeterminazione e di amore: voleva costruire una vita con Parwen, sposarsi in Europa, lontano da un contesto che le aveva negate come figlia, come donna, come persona.

Per questo, oggi, Roshaniya chiede con forza che la comunità internazionale esca dall’ambiguità diplomatica e agisca. “Chiediamo a tutte le organizzazioni per i diritti umani (in particolare Human Rights Watch e Amnesty International) e alle organizzazioni LGBTQ+ (in particolare OutRight International, ILGA Asia, Stonewall, Rainbow Railroad e Human Rights Campaign) di aiutarci a diffondere la notizia dell’arresto di Maryam e Maeve e a fare pressione sul regime talebano affinché rilasci queste due coraggiose attiviste afghane per i diritti umani LGBTQ+” afferma il fondatore dell’organizzazione, Nemat Sadat.

Afghanistan, la ferocia della norma

L’arresto di Maryam e Maeve non un rigurgito estemporaneo di fondamentalismo, ma la conseguenza diretta di un sistema teocratico che fa dell’annientamento delle soggettività queer una delle sue fondamenta. Con la riconquista dell’Afghanistan da parte dei talebani nell’agosto 2021, l’intera architettura dei diritti civili è crollata.

Ma non si tratta di una frattura improvvisa. La repressione delle diversità sessuali e di genere è radicata in decenni di ambiguità giuridica, violenza sociale e complicità politica. Se oggi la pena capitale per atti omosessuali è prevista e in alcuni casi applicata, è anche perché nessuna forza, né interna né esterna, ha mai lavorato seriamente per smantellare l’impalcatura culturale che la sostiene.

Il primo emirato talebano, tra il 1996 e il 2001, aveva già introdotto l’idea che la giustizia potesse passare per la lapidazione o l’impiccagione pubblica. Ma anche durante l’intervento occidentale, l’omosessualità non è mai stata depenalizzata. Le leggi sono rimaste vaghe, la violenza sistemica, l’omofobia strutturale. Le persone trans, in particolare, sono sempre rimaste fuori da ogni orizzonte normativo: invisibili per lo Stato, ipervisibili per la violenza familiare, religiosa e sociale.

Oggi, i rapporti di OutRight International, Human Rights Watch e Amnesty International parlano chiaro. Si moltiplicano le testimonianze di arresti arbitrari, sparizioni forzate, stupri correttivi, torture. Nel 2022, un giovane studente di medicina è stato ucciso a Kabul dopo essere stato accusato di omosessualità.

 

Parwen ha diffuso un video in farsi in cui racconta il dramma vissuto. Parla di famiglie ostili, minacce, e soprattutto della totale incertezza sulla sorte delle sue compagne. “Non abbiamo notizie da Maryam, quindi non sappiamo in che situazione si trovino ora. È possibile che siano state messe in isolamento e che vengano lapidate a morte — c’è la possibilità che ricevano una condanna a morte”.

Le persone trans vengono fermate in strada, costrette a subire trattamenti religiosi coercitivi, espulse dalla famiglia e dalla vita pubblica. E se un tempo almeno l’attenzione internazionale garantiva una fragile rete di protezione per i difensori dei diritti umani, oggi quella stessa attenzione si è spenta. L’Afghanistan non è più una priorità diplomatica. Le sue persone queer, ancora meno.

Eppure, qualcosa si muove. A gennaio 2025, la Corte Penale Internazionale ha chiesto l’emissione di mandati di cattura per due leader talebani, accusandoli di crimini contro l’umanità, anche per la persecuzione delle persone LGBTQIA+. È un segnale, ma ancora troppo timido.

Nel raccontare queste storie, è però fondamentale evitare la trappola narrativa di chi riduce l’Afghanistan a una caricatura di oscurantismo, un deserto morale in cui l’unica luce sarebbe stata portata dagli eserciti stranieri. Non è così.

Se la condizione della comunità LGBTQIA+ è oggi tragica, lo è anche perché le forze occidentali, per vent’anni, hanno spesso preferito sostenere governi corrotti, stipulare accordi con i signori della guerra, appaltare la sicurezza a milizie private, piuttosto che investire in un vero processo di democratizzazione libero e auto determinato che partisse dal basso. La retorica liberale, disancorata dalla realtà sociale, si è scontrata con una struttura tribale e patriarcale che nessuno ha davvero mai aiutato a decostruire.

Il ritiro del 2021 è stato solo l’epilogo di una strategia miope, priva di ascolto e responsabilità. E, nel frattempo, a Kabul, due giovani donne queer aspettano. Un segnale, una voce, un gesto politico che non arrivi tardi come sempre.

 

 

 

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Una lotta per mantenere viva la speranza: come resistono le donne afghane?

Zahra Nader, Zan Times, 7 marzo 2025

L’11 febbraio ho partecipato a un evento di poesia organizzato da un gruppo di donne in Afghanistan. Sono stata invitata al loro incontro su Google Meet da un’organizzatrice che mi ha anche aggiunta al suo gruppo WhatsApp. L’incontro di poesia era programmato per iniziare alle 21:00 ora locale.

“A causa dell’interruzione di corrente e della lenta connessione a Internet, inizieremo alle 22:00. Sappiamo che la maggior parte di voi non ha elettricità”, ha scritto un organizzatrice sul gruppo WhatsApp, avvisando del ritardo le 368 partecipanti, tutte donne, la maggior parte delle quali vive in Afghanistan.

Alle 22:00 in Afghanistan, mi sono unita all’incontro online. Quella sera, c’erano circa 13 partecipanti, tra cui due organizzatrici, Hijrat e Tahera. Sebbene non si fossero mai incontrate di persona, avevano gestito il loro club del libro online su WhatsApp per tre anni.

Nuovi modi per resistere

Hijrat, che vive nel nord dell’Afghanistan, ha creato il club del libro WhatsApp per promuovere una cultura della lettura tra le giovani durante la pandemia di COVID-19. “È stato un modo per tenerle motivate ​​quando tutti i centri educativi erano in lockdown”, ha detto Hijrat, 23 anni, ex insegnante universitaria, in un’intervista telefonica. Ha pubblicato l’idea di formare un club del libro online sulla sua pagina Facebook e presto si sono iscritte 100 partecipanti, tra cui Tahera, l’altra organizzatrice di quella serata di poesia a febbraio. Dopo che i talebani hanno preso il potere e hanno gettato le donne in un ulteriore isolamento proibendo loro il diritto al lavoro e all’istruzione, le donne hanno deciso di concentrarsi sul mantenere viva la speranza tra le sue partecipanti, che ora sono 370.

Spostarsi online è un modo per le donne in Afghanistan di evitare scontri sempre più pericolosi con i talebani. È anche un modo per organizzarsi, incoraggiarsi a vicenda e resistere agli editti draconiani del regime. La maggior parte delle attiviste ha spostato le proprie organizzazioni online, comprese molte delle donne manifestanti con cui ho parlato negli ultimi 19 mesi. Tuttavia, anche Internet non è completamente sicuro. Alcune sono state costrette a chiudere i propri account sui social media dopo aver notato che la loro presenza online era sorvegliata o che i loro account erano stati hackerati .

Eppure, hanno trovato nuovi modi per resistere. Un mese dopo che i talebani hanno preso il potere, due sorelle si sono rivolte a Internet per far sentire la propria voce: hanno scritto e interpretato ballate di speranza e disperazione che sono diventate virali sui social media. Hanno persino indossato il burqa per mantenere anonima la propria identità. “Questa è la nostra lotta segreta”, mi ha detto una delle sorelle . “Anche da sotto il burqa, abbiamo il coraggio e il potere di far sentire la nostra voce”, ha detto l’altra sorella.

Finora, Hijrat e Tahera sono riuscite a mantenere la loro comunità online al sicuro. Nel loro gruppo WhatsApp, gestiscono un club del libro settimanale. I suggerimenti su quale libro leggere provengono da chiunque nel gruppo. Quindi, le organizzatrici selezionano una rosa di quattro titoli. Le partecipanti  decidono la selezione finale votando in un sondaggio online. La scorsa settimana, è stato selezionato “Three Daughters of Eve” di Elif Shafak, ottenendo 46 voti su 66.

Sebbene il gruppo WhatsApp sia solitamente chiuso alla chat, tranne che per le amministratrici, ogni giovedì viene attivata la funzione di chat per consentire a tutte di condividere i propri pensieri e le proprie critiche sul libro della settimana. Il gruppo è anche il luogo in cui condividono le loro parole scritte, esprimono i loro sentimenti riguardo alle opinioni altrui e, naturalmente, le loro poesie, oltre alla serata mensile di poesia.

Condividere una risata per resistere

“La nostra serata di poesia online è uno spazio in cui si incontrano donne provenienti da diverse parti dell’Afghanistan. Recitiamo poesie e condividiamo una risata per superare questa oscurità”, spiega Hijrat.

Quel sabato di febbraio, prima dell’inizio della serata di poesia, c’è stato un momento di confronto generale per verificare le condizioni di tutte le partecipanti. Una cosa era chiara: tutte erano felici di poter superare le interruzioni di corrente e le connessioni internet lente per partecipare all’incontro.

A turno, hanno recitato le loro poesie preferite, comprese alcune opere originali delle componenti del gruppo. Tra i brani in programma c’erano anche quelli di Simin Behbahani, la più famosa poetessa iraniana, e di Mehdi Akhavan-Salis. I temi delle loro opere hanno avuto un forte impatto sulle loro vite: esperienze di ingiustizia, appelli alla resistenza e desiderio di reagire.

Una partecipante, che non ha indicato la propria provincia, ha letto una poesia appena scritta da sua zia:

“Nella città della rabbia e dello spargimento di sangue, la vita continua! Non ce ne andiamo perché la nostra vita è qui! Anche se le chiudiamo la porta in faccia, essa è ancora dall’altra parte della porta!”.

“Non ti ho mai visto, ma amo la tua voce”, ha detto una delle partecipanti dopo che la lettrice ha terminato il suo turno. Oltre che per la poesia, erano lì per sostenersi a vicenda. Il messaggio che si sono scambiate dopo ogni citazione sembra essere il filo conduttore che le ha sostenute.

“Considerata la situazione, questa è l’unica cosa che possiamo fare ora. Siamo un gruppo di donne accomunate dalla passione per la letteratura e la poesia, quindi ci riuniamo e leggiamo”, ha detto Tahera, l’organizzatrice che vive a Kabul. “Questo è il nostro modo per evitare la disperazione”.

Immaginare un Afghanistan senza Talebani è possibile

Zan Times, 8 marzo 2025

Il popolo afghano non è condannato a vivere sotto il dominio dei Talebani. Accettare che la mullahcrazia talebana sia un destino inevitabile significa negarne al popolo  l’umanità, la capacità e il diritto a determinare il proprio destino

Quest’anno ricorre la quarta Giornata internazionale della donna in cui i talebani hanno imprigionato donne e ragazze afghane all’interno delle loro case. Da quando i talebani sono emersi come gruppo armato islamico nel 1994, sono diventati famosi per le loro politiche anti-donne.

Durante il loro primo periodo al potere, dal 1996 al 2001, hanno vietato l’istruzione e il lavoro delle donne e hanno sguinzagliato per le strade la loro zelante polizia religiosa, colpendo le donne con cavi se non erano accompagnate da un mahram o se non aderivano al codice di abbigliamento regressivo imposto dai talebani: le donne erano costrette a indossare burqa avvolgenti e scarpe che non facevano rumore.

Una progressione scioccante

Dal loro ritorno al potere nel 2021, i Talebani hanno perseguito senza sosta le stesse politiche misogine volte a rendere le donne invisibili, facendole sparire dalla vita pubblica e imprigionandole nelle loro case. Nella prima settimana di ritorno al potere, hanno imposto il divieto di lavoro per le donne nel settore pubblico. Nel primo mese, hanno imposto il divieto di istruzione per le ragazze oltre la sesta classe. Dopo quattro mesi, hanno imposto alle donne di viaggiare esclusivamente in compagnia di un mahram o di un accompagnatore maschio. Ogni giorno i Talebani introducono un nuovo decreto, un nuovo divieto o un’altra nuova restrizione nei confronti delle donne.

Proprio quando pensavamo di aver visto tutto, nell’agosto 2024 i Talebani hanno introdotto un altro decreto scioccante: il divieto di far sentire la voce delle donne in pubblico. Hanno dichiarato che la voce delle donne è aurat, qualcosa da nascondere. Questo decreto criminalizza di fatto il diritto delle donne di parlare in pubblico o di parlare con estranei.

I Talebani sono ancora insoddisfatti. Ritengono che la sharia non sia ancora stata pienamente applicata nel Paese. Il loro leader, il Mullah Hibatullah, giura regolarmente di creare le condizioni per un sistema islamico puro e di far applicare la sharia in modo completo. Il sistema talebano della sharia è caratterizzato da punizioni corporali, esecuzioni pubbliche e fustigazioni. Nonostante abbiamo già assistito a diverse esecuzioni pubbliche e a migliaia di fustigazioni, i Talebani hanno promesso al mondo che una brutalità ancora maggiore è in arrivo: Hibatullah ha giurato che le donne saranno presto lapidate pubblicamente.

Il nucleo centrale della leadership talebana insiste nel voler stabilire la propria società ideale, delineata nella Legge sul vizio e la virtù, che non solo vieta la voce delle donne ma anche le immagini e i video. È evidente che i Talebani stanno incontrando difficoltà nell’attuare pienamente le loro politiche, dato che non riescono nemmeno a metterle in atto all’interno dei loro ranghi e delle loro strutture.

Esiste un’ala moderata?

Il mullah Hibatullah si oppone regolarmente alla richiesta di scattargli foto, non permette a nessuno di farlo, perché la Legge sul vizio e la virtù vieta di rappresentare gli esseri viventi. Eppure diversi ministri posano regolarmente per foto e video da utilizzare a scopi di propaganda online. Queste contraddizioni hanno alimentato la speculazione sull’esistenza di un’“ala moderata” all’interno dei Talebani, che rappresenterebbe una “migliore speranza di cambiamento”.

All’interno e all’esterno dell’Afghanistan circolano da sempre voci secondo cui, se questi elementi “moderati” all’interno dei Talebani riuscissero a prendere il comando, a modificare le proprie politiche e a formare un “governo inclusivo”, il loro emirato diventerebbe accettabile.

Questa convinzione deriva dal presupposto che il popolo afghano sia condannato a vivere sotto il dominio dei Talebani. Non riesce a immaginare uno scenario alternativo in cui la popolazione possa vivere in pace e in condizioni normali. Accettare che la mullahcrazia talebana sia il destino inevitabile del popolo afghano significa negarne l’umanità, la capacità e il diritto di determinare il proprio destino. Questa mancanza di speranza porta a un torpore intellettuale e a una sconfitta politica che prolungherà l’oppressione talebana.

Dobbiamo quindi valutare la capacità di resistenza del nostro popolo e apprezzare e rafforzare i modi dinamici e creativi che hanno usato per sfidare i Talebani e mantenere viva la speranza. Dobbiamo anche capire che, a prescindere dalle loro piccole differenze interne, i Talebani sono un movimento e un’ideologia uniti dal desiderio di instaurare una tirannia teocratica. Questa tirannia è progettata per negare alle donne la loro umanità, discriminare le minoranze etniche e fare guerra al popolo, alla scienza e all’istruzione moderna.

Il governo talebano si basa essenzialmente sull’esclusione della popolazione. La loro dottrina prevede una società in cui solo il leader supremo detta le politiche pubbliche e sociali, mentre la popolazione rimane in silenzio e sottomessa. Tale impostazione è dunque in contrasto con gli interessi fondamentali della popolazione del Paese.

Nel celebrare la Giornata internazionale della donna di quest’anno dobbiamo riconoscere che i valori progressisti e democratici sono sotto attacco in tutto il mondo. Misoginia, transfobia, razzismo e fascismo sono in aumento. È importante ricordare a noi stessi che se non saremo vigili sui nostri diritti e sul nostro diritto di governarci da soli, ci saranno sempre forze pronte a toglierceli.

Pertanto, se il popolo afghano, in particolare le donne, vuole riaffermare la propria umanità, deve lavorare e pianificare per prendere in mano il proprio destino collettivo e costruire un Afghanistan pacifico e democratico al di là dei Talebani. Solo costruendo una società democratica e laica, il popolo afghano potrà ottenere pace, diritti umani e libertà.

I talebani stanno rimuovendo la voce delle donne dalla radio afghana

The Guardian, Rawa, 15 marzo 2025

Mentre una delle ultime stazioni gestite da donne nel paese viene messa a tacere, un’ex giornalista offre una visione interna della repressione delle donne che lavorano nei media

Quando i talebani hanno iniziato a marciare verso le città dell’Afghanistan nell’estate del 2021, Alia*, una giornalista afghana di 22 anni, si è ritrovata a svolgere uno dei lavori più importanti della sua breve vita e carriera.

Nelle settimane che hanno preceduto la presa del potere da parte dei talebani in agosto, la voce di Alia alla radio è diventata familiare a molti nel nord dell’Afghanistan. Ha riferito del ritiro delle truppe straniere, dell’assedio degli uffici governativi e della detenzione di ex funzionari nella sua provincia.

Soprattutto, Alia ha raccontato la situazione delle donne e le loro paure e preoccupazioni, emozioni che stava vivendo lei stessa. Mentre i talebani cominciavano gradualmente a imporre loro delle restrizioni, Alia stava documentando la storia che si ripeteva.

“Sono cresciuta con la storia del dominio dei talebani sulle donne [durante il loro primo periodo al potere tra il 1996 e il 2001] e gran parte del mio lavoro si è concentrato sull’impatto che questa ideologia radicale ha avuto sul progresso delle donne in Afghanistan”, afferma.

“Ero entrata a far parte della stazione subito dopo l’università nel 2019 e ho lavorato per due anni prima che i talebani prendessero il potere. Nei mesi successivi, mi sono sentita più appassionata del mio lavoro e della scelta della mia carriera, anche se c’era sempre la paura dei talebani.

Non ci è voluto molto perché i talebani iniziassero a reprimere i media e i giornalisti nel Paese, con 336 casi noti di arresti, torture e intimidazioni tra agosto 2021 e settembre 2024, secondo le Nazioni Unite.

È stato particolarmente duro per i giornalisti radiofonici che possono essere riconosciuti e presi di mira dal loro volto e dalla loro voce. In diverse province, i talebani hanno vietato alle donne di trasmettere in radio.

Nei primi giorni dopo la presa del potere, tra il caos, l’incertezza e gli attacchi dei membri dei talebani, alcuni giornalisti furono costretti a nascondersi o a fuggire dal paese. I datori di lavoro di Alia la tolsero temporaneamente dalle trasmissioni per proteggerla, ma lei continuò a raccogliere notizie, in particolare su questioni femminili, e le sue storie spesso irritarono i nuovi poteri.

La radio è un mezzo potente nel paese in povertà

Nel 2022, dopo che i datori di lavoro di Alia iniziarono a ricevere minacce dai leader talebani locali per aver assunto e trasmesso giornaliste donne, licenziarono Alia per la loro reciproca sicurezza.

“Mi è stato chiesto di andarmene a causa del mio genere. Volevo amplificare le voci delle donne, non immaginavo che un giorno la mia voce sarebbe stata soffocata.”

Nei due anni successivi, le donne hanno continuato a essere escluse dal pubblico e dai media. Prima c’è stato un divieto nazionale alle voci delle donne in pubblico e ora, questo mese, uno degli ultimi media gestiti da donne rimasti è stato messo a tacere, con gli uffici di una stazione radio femminile con sede a Kabul, Radio Begum, perquisiti, il personale arrestato e la stazione tolta dalle trasmissioni.

Mentre i talebani accusano Radio Begum di violare la politica di trasmissione, i membri dello staff di Begum insistono sul fatto che hanno semplicemente fornito “servizi educativi per ragazze e donne in Afghanistan”. Con i recenti divieti alle donne di frequentare l’istruzione superiore, piattaforme come Radio Begum hanno cercato di colmare il vuoto per le ragazze che desiderano continuare a studiare.

Sotto minacce, pressioni immense e persino chiusure forzate, i media afghani si sono notevolmente ridotti negli ultimi tre anni. Prima della presa del potere da parte dei talebani, l’Afghanistan aveva circa 543 punti vendita di media che impiegavano 10.790 lavoratori. A novembre 2021, il 43% di questi punti vendita era chiuso, con solo 4.360 lavoratori dei media rimasti. È stato anche peggio per le donne nei media.

Una stima recente della Federazione Internazionale dei Giornalisti ha documentato che a marzo 2024 in Afghanistan erano presenti solo 600 giornaliste attive, in calo rispetto alle 2.833 donne nel giornalismo prima di agosto 2021.

“Non riesco a esprimere il senso di disperazione e miseria che provo. Devi essere una donna afghana per capire davvero quanto sia stato difficile rinunciare a tutto ciò per cui hai lavorato. Abbiamo mostrato al mondo che i talebani non sono cambiati e non cambieranno. E questo li spaventa”, dice Alia.

Alcune voci femminili rimangono in onda nelle province settentrionali, a causa delle opinioni contrastanti all’interno dei talebani sull’esclusione delle donne dalla società. Alia afferma che la radio in particolare rimane un mezzo potente in un paese con povertà diffusa e scarso accesso a Internet o alla televisione. Molte famiglie si affidano alla radio per notizie e informazioni.

“I media sono l’unica fonte che può esporre i crimini dei talebani alla gente e al mondo, per esporre come hanno deprivato le donne e altri gruppi. E aiuta anche gli afghani a essere più consapevoli attraverso programmi come Radio Begum”, afferma.

*Il nome è stato cambiato per proteggere la loro identità