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Autore: CisdaETS

Il cessate il fuoco del Pkk è un segno di forza. Per la pace

 

Left,7 marzo 2025, di Hazal Koyuncuer

La democratizzazione non è mai una debolezza. La pace non è opera dei deboli, la pace è opera dei coraggiosi

«Concordiamo con il contenuto dell’appello del leader Öcalan e dichiariamo un cessate il fuoco effettivo a partire dal primo marzo.2025».Così ha scritto il Comitato esecutivo del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) ha affermato in una nota il Comitato esecutivo del Partito dei lavoratori del Kurdistan in risposta allo storico appello lanciato dal leader curdo Abdullah Öcalan il 27 febbraio 2025.
Öcalan ha sottolineato l’urgente necessità di democratizzazione in Turchia e ha chiesto al Pkk di deporre le armi e di sciogliersi. Il Pkk, in risposta, ha dichiarato «nessuna delle nostre forze intraprenderà azioni armate a meno che non venga attaccata».
È chiaro che un nuovo processo storico sta iniziando in Kurdistan e in Medio Oriente grazie a questa chiamata che avrà anche un grande impatto sullo sviluppo di un contesto di libertà e della governance democratica in Turchia e in Medioriente . Indubbiamente, essere in grado di fare un appello del genere è stato di importanza storica; ora, l’implementazione di successo del suo contenuto è di pari importanza. Dal Pkk concordano con il contenuto dell’appello così com’è e affermano che rispetteranno pienamente e implementeranno i requisiti che contiene. Tuttavia, il Pkk sottolinea che anche la politica democratica e le basi legali devono essere garantite per il suo successo.
Appare molto chiaro che il Pkk è stato il grande movimento dell’ultimo mezzo secolo in Kurdistan. Attraverso una lotta molto coraggiosa e di sacrificio, pagando un prezzo molto alto. La consapevolezza sviluppata da Öcalan e la grande eredità di esperienza creata dal Pkk danno al popolo curdo la forza di continuare la lotta per il bene in comune, la giustizia e la libertà sulla base della politica democratica.
Ora solo la leadership di Öcalan può rendere pratiche questioni come la deposizione delle armi. D’altro canto, come chiesto da Öcalan , verrà presto convocato un congresso del Partito. I fatti concreti mostrano chiaramente che affinché l’Appello per la pace e la società democratica venga implementato con successo, per la democratizzazione della Turchia e del Medio Oriente basata su una soluzione democratica alla questione curda e per lo sviluppo del movimento democratico globale, a Abdullah Öcalan devono essere concesse le condizioni per vivere e lavorare in libertà fisica e stabilire relazioni senza ostacoli con chiunque desideri.
La democratizzazione della Turchia è un punto di svolta in termini di dissoluzione del Medio Oriente sulla base della democratizzazione e della trasformazione. È un punto di svolta non solo per i curdi, ma anche per tutti i popoli della Turchia, per l’intero Medio Oriente. l’esistenza di uno spazio democratico e politico è possibile solo attraverso il rispetto delle identità, della loro libera espressione e organizzazione democratica, e delle strutture socio-economiche e politiche.

Il segretario generale delle Nazioni Unite, il cancelliere tedesco, il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, il relatore del Parlamento Europeo sulla Turchia, gli Stati del Regno Unito, della Germania, dell’Iran, dell’Iraq, dell’Arabia Saudita e il Portavoce per la Politica estera dell’Unione Europea hanno dato un forte sostegno all’appello di Abdullah Öcalan.
L’uscita della questione curda dal conflitto e dalla violenza, è basata sul riconoscimento della politica democratica e della dimensione giuridica. Tutti dovrebbero sapere che la democratizzazione non è mai una debolezza. La pace non è opera dei deboli, la pace è opera dei coraggiosi, la pace è opera dei forti. Costruire la democrazia è il lavoro dei coraggiosi. La democratizzazione e la pace sono elementi preziose e importanti per essere oggetto di negoziati politici. I diritti umani più elementari e i diritti più fondamentali dei popoli non possono e non devono mai essere negoziabili. Questo processo non è un processo di sconfitta.
Abdullah Öcalan durante gli incontri ha affermato: “La democrazia è l’arte di aprire liberamente la bocca alle persone”. È tempo che la Turchia parli. Ora è il momento per la società di esprimersi liberamente.

L’autrice: Hazal Koyuncuer è rappresentante della Comunità curda milanese

Crimini di genere in Afghanistan: la CPI contro i leader talebani

Il Caffè Geopolitico, 7 marzo 2025, di Federica Leone

In 3 sorsi – Lo scorso 23 gennaio la richiesta di mandato d’arresto alla Corte Penale Internazionale (CPI) contro i leader talebani per il trattamento riservato alle donne afghane ha rappresentato una pietra miliare nella tutela dei diritti umani. I talebani, all’indomani dell’ascesa al potere nel 2021, hanno imposto regole draconiane sulle donne, rendendole sempre più escluse dalle attività istituzionali, lavorative e pubbliche. Un’apartheid di genere che ha sollevato accuse di crimini contro l’umanità, inducendo la comunità internazionale a ricorrere ad azioni giudiziarie contro la leadership talebana.

1. L’AFGHANISTAN E IL SUO CONTESTO POLITICO
Cerniera diplomatica tra Pakistan, Uzbekistan, Iran, Turkmenistan e Cina, la natura geografica afghana ha influenzato e influenza ancor oggi la storia di questo Stato. L’Afghanistan ha da sempre rappresentato un crocevia strategico tra Asia Meridionale e mondo occidentale, divenendo teatro di conflitti e di innumerevoli invasioni. Da mosaico etnico frammentato, si consolidò in un’unica entità statale nel 1746, mantenendo per oltre due secoli una relativa stabilità sotto il potere monarchico, nonostante le tensioni tribali. Il 1973 segnò una svolta con il colpo di Stato di Mohammed Daoud, il quale tentò una politica di equilibrio tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Tuttavia, nel 1978 il partito comunista Khalq rovesciò il regime, instaurando un Governo sostenuto da Mosca e caratterizzato da profonde divisioni interne. L’occupazione sovietica trovò resistenza nei mujaheddin, ai quali si affiancarono i talebani, militanti formatisi nelle scuole coraniche sotto la guida del Mullah Omar. Con il supporto di Osama bin Laden e Al Qaeda, i talebani imposero un regime fondamentalista, dominando il Paese fino all’intervento internazionale del 2001. Tuttavia, il ritiro delle truppe americane nell’agosto 2021 ha segnato il ritorno dei talebani al potere, riportando il Paese sotto un regime autoritario. Nel novembre 2022, il Governo talebano ha promulgato il Codice Akhundzada, un corpus normativo composto da trentacinque articoli e sottoscritto dal “Comandante dei fedeli”, con l’obiettivo dichiarato di promuovere la virtù e reprimere il vizio. Tale documento ha introdotto un ulteriore irrigidimento delle restrizioni sui diritti delle donne e sulle libertà individuali. In particolare, le disposizioni colpiscono le donne, imponendo loro non soltanto l’obbligo di coprire interamente il corpo negli spazi pubblici, ma anche il dovere di osservare il silenzio, poiché la voce femminile è ritenuta un potenziale strumento di corruzione morale.

2. APARTHEID DI GENERE
Le misure adottate dai fondamentalisti afghani, nei confronti delle proprie donne, sono state profondamente criticate da diverse organizzazioni per i diritti umani. Queste ultime hanno denunciato le politiche estremistiche dei talebani come una forma di persecuzione di genere, un crimine contro l’umanità ai sensi dello Statuto di Roma, ratificato nel 2003 dall’Afghanistan. Una reale apartheid di genere che vede l’esclusione delle donne da quasi ogni aspetto della vita pubblica compresi l’accesso all’istruzione, al sistema giudiziario e alle cure mediche. Persino la Procura della Corte Penale Internazionale ha giudicato il comportamento del regime talebano come una repressione pianificata contro una parte specifica della popolazione, istituendo un vero e proprio regime discriminatorio e oppressivo nei riguardi delle donne.

3. PROVVEDIMENTO DELLA CORTE E IMPLICAZIONI INTERNAZIONALI
L’eventuale decisione della Corte Penale Internazionale di emettere un mandato di arresto nei riguardi dei leader talebani rappresenterebbe un punto di svolta nella dottrina in materia di diritti umani. Ciononostante, ai fini di ottenere la possibilità concreta di arrestare e processare il regime talebano, questi mandati richiedono una solida cooperazione tra gli Stati membri. A giocare un ruolo determinante è pertanto la risposta della comunità internazionale. In particolare, Cina, Russia e Pakistan potrebbero influenzare l’esito del procedimento, ponendo effettivamente ostacoli sull’applicazione delle misure della Corte. In ottica diplomatica, l’istanza in oggetto potrebbe richiedere maggiori pressioni su Governi e Istituzioni affinché adottino rigide sanzioni contro il regime
talebano. Certamente, l’impatto di tali provvedimenti dipenderà dall’impegno tangibile degli attori coinvolti. In definitiva, l’iniziativa della CPI segna un passo cruciale nella condanna delle discriminazioni di genere e, più precisamente, nella difesa dei diritti delle donne afghane. Sebbene il percorso rimanga complesso, la comunità internazionale potrebbe intensificare la pressione sul regime afghano, favorendo un miglioramento delle condizioni di vita delle donne del Paese. Un intervento che potrebbe rappresentare un primo passo verso una giustizia effettiva e duratura, in grado di poter rompere il silenzio delle innocenti vittime afghane.

Kurdistan. Öcalan chiede al Pkk di deporre le armi: e ora?

Volerelaluna, 7 marzo 2025, di Laura Schrader

l “primo sparo” echeggiò a Eruh il 15 agosto 1984 contro un edificio della polizia militare e quasi in contemporanea si ripeté contro una caserma a Semdinli. Era l’inizio della guerriglia di resistenza dell’Argk, il braccio armato del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk). La Turchia, Stato assolutista, mentre negava l’esistenza del popolo kurdo lo colpiva con massacri e deportazioni e ne vietava lingua e cultura.

Ora, dopo oltre 40 anni di un conflitto che negli anni Novanta ha toccato vertici di feroce intensità da parte del secondo esercito Nato, la guerriglia del Pkk è chiamata a deporre le armi, e a convocare un congresso per decidere le modalità del proprio scioglimento nell’ambito di un processo di pace e di democratizzazione dello stato turco. È questo il contenuto dell’appello inviato il 27 febbraio dal leader del Pkk Abdullah Öcalan con un video registrato nel corso di un incontro con tre parlamentari del partito filo kurdo DEM avvenuto nel carcere di Imrali dove Öcalan è detenuto in isolamento dal febbraio 1999.

In risposta all’appello, il 1° marzo, il Pkk ha diffuso una dichiarazione in cui si legge: «L’appello alla pace e alla società democratica è un manifesto che illumina il cammino di tutte le forze della libertà e della democrazia […]. Siamo d’accordo con il contenuto dell’appello così come è. Tuttavia vogliamo sottolineare che anche la politica democratica e le basi legali devono essere garantite […]. A partire da oggi dichiariamo un cessate il fuoco effettivo. Nessuna delle nostre forze intraprenderà azioni armate a meno che non venga attaccata». A tale dichiarazione fa eco la nipote del leader, Ayney Öcalan: «È chiaro che con questo appello è iniziato un nuovo processo storico in Kurdistan e in Medio Oriente. Ciò avrà anche un impatto importante sullo sviluppo della vita libera e della governance democratica in tutto il mondo. L’accordo sull’appello di Öcalan potrà portare stabilità anche in altre parti del Kurdistan, si verificheranno nuovi sviluppi politici e sociali e verranno compiuti passi verso la democratizzazione. Anche la crisi in Siria e Iraq potrebbe essere risolta. Stiamo attraversando quindi un periodo importante e delicato. La pace e la democrazia che deriveranno dal dialogo andranno a beneficio del mondo. Anche la Turchia ne ha bisogno, perché sta vivendo una grave crisi economica e politica».

Un appello alla pace e all’avvio di un processo di democratizzazione in Turchia che riconoscesse i diritti non soltanto del popolo kurdo ma di tutte le minoranze etniche e religiose era già stato lanciato da Öcalan nel 2013 con un video trasmesso nel corso di una gigantesca festa di Nawroz nella piazza di Amed (Diyarbakir). L’appello era il frutto di negoziati cominciati a Oslo nel 2009 tra il partito filo kurdo di allora, il leader imprigionato e la delegazione governativa guidata dall’attuale ministro degli Esteri Hakan Fidan, allora capo del Mit, il Servizio segreto. L’esercito della guerriglia non depose le armi ma rispettò a lungo il cessate il fuoco. I risultati del processo di democratizzazione furono, peraltro, irrisori e nel luglio del 2015 l’esercito turco riprese le ostilità su vasta scala.

L’attuale appello pare maturato in tempi molto brevi (https://volerelaluna.it/mondo/2024/11/13/una-nuova-fase-politica-in-kurdistan/). Paradossalmente era stato il leader del partito ultranazionalista Mhp, Devlet Bahceli, nell’ottobre scorso a sostenere l’opportunità di autorizzare la prima visita al leader in carcere dopo quattro anni di isolamento totale, durante i quali non gli era consentita nessuna comunicazione con l’esterno, neppure una telefonata con familiari o avvocati. Nel corso dell’incontro con alcuni parlamentari del Dem il leader aveva parlato della possibilità di guidare un processo di pace. Dopo l’appello del 27 febbraio il parlamentare del Dem Sirri Surreya Onder, ha comunicato che, da lunedì 10 marzo, è prevista una serie di incontri con esponenti governativi e parlamentari e che le trattative si concluderanno in tre mesi.

Il premier Erdogan si dichiara d’accordo sulla necessità di porre fine al conflitto. Ma continua la politica di repressione che in gennaio aveva portato la magistratura, totalmente asservita all’esecutivo, a incarcerare 300 parlamentari, sindaci, intellettuali per reati di opinione con l’accusa di “attività terroristiche”. Continua la destituzione dei sindaci eletti in Kurdistan, il loro arresto e il commissariamento dei comuni lasciati nelle mani di funzionari governativi (https://volerelaluna.it/mondo/2025/01/08/erdogan-e-i-curdi-tra-caute-aperture-e-repressione-permanente/). E Erdogan continua a dichiarare la volontà di eliminare l’Amministrazione autonoma del Rojava in Siria (Daanes). Allo scopo, si avvale del cosiddetto Esercito Nazionale Siriano (Ens), finanziato, armato, addestrato da Ankara e composto da jihadisti di 40 diverse nazionalità che da un mese assedia il ponte sulla diga di Tishrin sull’Eufrate, presidiato dalla popolazione, per arrivare alla città-simbolo di Kobane. L’Ens è sostenuto dai bombardamenti dell’aviazione turca, che ha fatto numerose vittime tra i civili che difendono la diga e che ha distrutto l’importantissimo ponte di Qereqozat. Dal canto suo, il 4 marzo, la Forza di Difesa Popolare (Hpg) ha comunicato che l’esercito turco, dopo la dichiarazione del cessate il fuoco, ha continuato a bombardare da terra e dall’aria le aree della guerriglia costringendola ad esercitare il suo diritto di autodifesa.

Il successo dell’iniziativa di pace ha alcune condizioni. Lo dichiara esplicitamente il Pkk: «Siamo pronti a convocare il congresso del Partito tuttavia il leader Apo (appellativo familiare di Öcalan, ndr) deve dirigerlo e guidarlo personalmente. Al leader Apo devono essere concesse le condizioni per vivere e lavorare in libertà fisica e per stabilire relazioni senza ostacoli con chi desidera» (https://volerelaluna.it/mondo/2025/02/25/turchia-liberare-oclan-per-costruire-la-pace/). Tale richiesta è ribadita dalla nipote di Apo, Ayney Öcalan, che si spinge oltre: «È essenziale un cambiamento nelle condizioni di prigionia di Öcalan, che deve essere messo in grado di stabilire un dialogo con tutti, di rivolgersi alla sua gente, di trasmettere messaggi e di ricevere visite. Non solo deve finire il suo isolamento ma deve essergli restituita la libertà. Lo Stato turco non deve temere la pace. La lotta politica democratica deve produrre soluzioni ai problemi, eliminare la povertà, la disoccupazione, la fame, l’ingiustizia e la disuguaglianza. Assicuriamoci che i miliardi di dollari invece di essere spesi per la guerra vadano direttamente a beneficio del popolo. Non dimentichiamo che la pace è anche pane, cibo e lavoro».

Con un comunicato del 28 febbraio il Kurdistan National Congress (KnK), coalizione di partiti politici e di organizzazioni della società civile di ogni parte del Kurdistan e della diaspora, ha dichiarato il proprio pieno sostegno all’appello del leader e si è impegnato a usare tutte le proprie risorse per una soluzione pacifica e democratica. Ha, tuttavia, aggiunto: «Finora la risposta internazionale è stata buona ma non è sufficiente. Facciamo appello alle potenze globali: le parole da sole non bastano, tutti gli attori rilevanti devono cogliere questa opportunità e svolgere il loro ruolo per la pace e il dialogo». In effetti la rapidità con la quale si sono avvicendati gli eventi dall’ottobre scorso potrebbe far pensare che essi siano stati preceduti e possano essere accompagnati da una concertazione internazionale. Si sono espressi a favore dell’appello di Öcalan la Casa Bianca, Londra e Berlino e il relatore per la Turchia al Parlamento europeo. Anche l’ex premier italiano D’Alema, in una dichiarazione all’Ansa, ha definito l’appello di Ocalan «un fatto positivo, un messaggio coraggioso». Tuttavia non risultano, al momento, passi concreti a sostegno del processo di pace.

Come è noto, il Pkk affida alle donne un ruolo determinante nel governo della società. E il Movimento delle Donne Libere (Tevgera Jinen Azad, Tja) si è impegnato a mobilitarsi «per l’attuazione del pensiero di Öcalan e invita tutte le donne a abbracciare la sua chiamata» anche con una forte presenza femminile nelle manifestazioni dell’8 e del 21 marzo (giorno del Nawroz, capodanno kurdo). La rivoluzione delle donne è il risultato più luminoso nato dal pensiero di Öcalan. La pace e la democrazia in questa parte del Medio oriente nasceranno dal pieno coinvolgimento delle donne libere del Kurdistan?

I novantamila occhi dei talebani a Kabul regna il Grande Fratello

La Repubblica, 6 marzo 2025, di Alberto Cairo

Gli afgani hanno appreso da tv e radio la notizia del piano di installare novantamila telecamere di videosorveglianza nella capitale. Nessun annuncio ufficiale è venuto fino ad ora dalle autorità. I proprietari di svariati condomini riferiscono comunque di avere ricevuto nelle ultime settimane la richiesta di installare delle telecamere a proprie spese. Senza minacce ma in maniera pressante, ad invitarli hanno pensato i wakìl, i rappresentanti di quartiere, una volta eletti dai residenti, ora nominati d’ufficio. Ogni condominio deve averne, hanno spiegato, soprattutto quelli d’angolo, posti agli incroci. L’invito non è avvenuto in maniera uniforme, essendo nel Paese molto lasciato all’iniziativa personale dei funzionari, alle loro opinioni e al loro zelo, creando confusione.

Si tratterebbe secondo alcuni di una cifra di apparecchi molto alta, volutamente esagerata per intimorire, per altri invece è un numero credibile in una città ormai enorme e in continua espansione. Dove saranno installati? la domanda. Ovunque o soprattutto nei quartieri considerati ribelli, quelli a maggioranza tajika, l’etnia rivale del regime, o sciita? I talebani hanno rivelato alla Bbc che si tratta di telecamere cinesi ad alta precisione in grado di identificare persone e cose a grande distanza e ad ogni ora. La convinzione che funzioneranno solo parzialmente è però legittima, viste le continue e lunghe interruzioni nell’erogazione dell’elettricità.

Comunque sia, rafforzeranno i controlli e la pressione sulla popolazione, al momento già pesanti grazie perquisizioni, fermi, delazioni. La gente tace, non esprime opinioni in pubblico, non rischia. Il numero degli informatori è alto.

In realtà niente di nuovo in questo. Ognuno degli ultimi regimi se ne è servito copiosamente, reclutando collaboratori ovunque. Ho dei precisi ricordi in proposito. Arrivato a Kabul nel 1990 – i comunisti erano al potere – avevo ingaggiato un insegnante che mi aiutasse a capire un po’ il Paese, usanze e tradizioni e mi insegnasse i rudimenti della lingua.Mi accorsi presto che era malvisto dai guardiani e dalla signora cuoca-donna delle pulizie. Di solito loquaci, in sua presenza parlavano a malapena. Pensai a beghe personali e non badai quando mi dissero che era affiliato al Khad, la polizia segreta. Dovetti ricredermi quando sparìimprovvisamente una settimana prima della caduta del presidente Najibullah.

Sotto il primo regime talebano e quello instaurato dagli occidentali dopo il 2001, lavorando a un programma di riabilitazione fisica e sociale, aiutavamo con micro-prestiti le persone disabili a iniziare piccole attività commerciali. Alcuni misero su dei chioschi per vendere sigarette e piccole cose. Per quanto il capitale investito fosse minimo e gli affari decisamente magri, ripagavano
puntualmente le rate. Ammirevoli, pensavo. Invece il chiosco nascondeva un’altra attività, ben remunerata. Piazzati in punti cruciali, riportavano ogni movimento considerato sospetto. A uno di loro un giorno cadde di tasca una radio ricetrasmittente. «L’ho trovata per strada», si giustificò. Sparì anche lui con il cambio di regime nel 2021.

C’è comunque chi applaude alle nuove telecamere, non solo i sostenitori dei talebani, una larga fetta della popolazione. Rapine e furti diminuiranno, dicono (già sono diminuiti, va ammesso). Per le donne, ormai punite da una interminabile lista di divieti, la vita potrebbe invece diventare sempre più soffocante, specie per quelle che ancora lavorano o continuano in qualche modo a studiare. Darebbe alla polizia per la prevenzione del vizio e la promozione della virtù un ulteriore strumento di controllo. Facilmente immaginabili poi gli effetti sulla dissidenza, su quel poco che ne rimane. Il Ministero degli Interni sarà a capo dell’intera operazione.

Altri sono tuttavia i problemi che tormentano gli afgani oggi. L’economia in primo luogo. La disoccupazione (giovanile in particolare) è altissima. Non passa giorno senza che qualcuno contatti NOVE Caring Humans, la mia organizzazione, per chiedere aiuto o un lavoro. Il numero dei poveri e dei bambini a rischio malnutrizione riportato dalle Nazioni Unite resta spaventoso. Posso solamente confermare che tantissime famiglie hanno perso gli introiti che consentivano loro una vita decente e si arrabattano miseramente. I programmi governativi non hanno per ora portato miglioramenti. Circa l’istruzione femminile, la promessa delle autorità di riaprire le scuole alle ragazze appena le condizioni di sicurezza lo permetteranno, dopo tre anni resta una promessa. E poi l’incertezza dovuta alle lotte interne al regime, con il gruppo di Kandahar opposto al clan degli Haqqani e il rafforzamento della politica più intransigente; i ritorni forzati da Pakistan e Iran che hanno riportato nel Paese migliaia di afgani senza una casa e un lavoro; le numerose cliniche chiuse a causa della sospensione dei progetti sostenuti da USAID decisa dalla nuova amministrazione americana, le piccole e medie organizzazioni umanitarie che devono licenziare il personale perché senza fondi.

Quello del taglio agli aiuti internazionali desta un enorme timore. Migliaia le persone che vivono e si curano grazie ad essi. Attraverso i media e internet gli afgani sono informati, pensano che sia solo l’inizio. L’Inghilterra è stata la prima a dichiararlo: aumenterà le spese militari a scapito dei fondi che invia all’estero. Nella corsa agli armamenti, altri paesi potrebbero imitarla. L’Afghanistan sa di rischiare un isolamento ancora maggiore, economico e politico. Non potrà che contare sulla propria resilienza. Quanta dovrà averne?

Alberto Cairo, fisioterapista, lavora in Afghanistan per NOVE Caring Humans, ong italiana

Droni turchi contro i giornalisti curdi: così Erdogan impone il silenzio

Il Manifesto, 6 marzo 2025, di Anna Irma Battino

Siria. Tre i reporter uccisi in poche settimane sulla diga di Tishreen, fronte strategico nella Siria del nord-est: se cade, i filo-turchi arriverebbero alle porte di Kobane. Per Ankara è uno dei modi per indebolire il fronte militare e popolare.

«Forse non vedrò la vittoria, ma credo che un giorno la mia città, Afrin, sarà libera». Questo è il testamento di Egîd Roj, giornalista freelance curdo ucciso da un drone tre settimane fa. Il 19 dicembre 2024 la stessa sorte era toccata a Nazım Daştan e Cihan Bilgin: il primo lavorava per Anf, la seconda era corrispondente per Anha. Un altro giornalista, Aziz Köyllüoğlu, è rimasto ucciso il 27 gennaio nel distretto di Ranya, a Sulaymaniyah, nel Kurdistan iracheno.

La Federazione Internazionale dei Giornalisti (Ifj) ha riferito che nel 2024 sono stati assassinati 122 giornalisti (di cui la metà uccisi a Gaza dall’esercito israeliano), tra cui 14 donne, segnalando un’escalation delle minacce globali alla libertà di stampa. Sei giornalisti curdi sono stati uccisi in Iraq e Siria in attacchi condotti da droni turchi, aumentando le preoccupazioni sulla repressione esercitata da Ankara contro i media.

LE ORGANIZZAZIONI giornalistiche curde Dicle Fırat Journalists Association (Dfg) e Mezopotamya Women Journalists Association (Mkg) con sede in Turchia e l’Unione della stampa libera (Yra), con sede nel nord-est della Siria, hanno denunciato in una dichiarazione congiunta «le gravi condizioni in cui operano i giornalisti in Kurdistan, Turchia e Medio Oriente».

Da oltre due mesi Erdoğan, con il supporto delle fazioni alleate dell’Esercito nazionale siriano (Sna), sta intensificando gli attacchi intorno alla diga di Tishreen, un impianto idroelettrico fondamentale per la sussistenza di centinaia di migliaia di persone nel nord della Siria. Per difenderla, la popolazione locale ha avviato una mobilitazione pacifica, radunandosi nella zona. Nonostante ciò, i bombardamenti di Ankara proseguono senza sosta dall’8 gennaio con il presunto obiettivo di colpire i gruppi armati curdi, quando in realtà a perdere la vita sono soprattutto civili e giornalisti.

Dilyar Jazizi, co-presidente dell’Unione dei media del nord-est della Siria, traccia un quadro della situazione alla diga di Tishreen, divenuta un punto chiave del conflitto nell’era post-Assad: «Le forze turche e i loro mercenari continuano ad attaccare questo luogo strategico, ancora sotto il controllo dell’Amministrazione Autonoma Democratica della Siria settentrionale e orientale (Daanes). Con aerei da guerra e droni cercano di prenderne il controllo e distruggere le infrastrutture che garantiscono servizi essenziali a oltre cinque milioni di civili».

Non è solo una diga: è un pilastro della sopravvivenza dell’idea di una Siria democratica. Nel contesto del regime-change in corso, il suo controllo è diventato cruciale: dalla sua integrità dipende la continuità dell’esperienza rivoluzionaria. Se dovesse cadere, le bande jihadiste sostenute e dirette dalla Turchia avrebbero via libera verso Kobane e il cuore della rivoluzione confederale.

JAZIZI AFFERMA che la resistenza alla diga di Tishreen si basa su tre pilastri: militare, civile e mediatico. Gli fa eco Ziyad Rusteem, co-presidente del Consiglio per l’energia di Daanes che in una recente intervista ha dichiarato: «La Turchia ha condotto una guerra mediatica sui social diffondendo informazioni false, come se la città di Manbij fosse caduta e la diga fosse sotto il loro controllo. Tuttavia, quando i giornalisti curdi hanno raggiunto Tishreen, la verità è emersa. Hanno rivelato chi ne detiene realmente il controllo, confermando che è ancora nelle mani delle Forze democratiche siriane (Sdf), ossia della popolazione locale».

L’eliminazione dei giornalisti curdi non è un effetto collaterale, ma una strategia deliberata per spegnere chi contrasta la propaganda di Erdoğan e svela la realtà sul campo. Con le trattative tra Daanes e il governo provvisorio di Damasco in corso e il recente appello del fondatore del Pkk Abdullah Öcalan per la fine della lotta armata, Ankara punta a delegittimare le Sdf, mostrandole come deboli e frammentate.

Indebolirle mediaticamente significa minare il peso politico del movimento curdo e rafforzare la propria posizione negoziale. Intanto, sul terreno, la repressione continua: con bombe, droni e il silenzio imposto a chi racconta la verità.

 

KURDISTAN: LE PRIME REAZIONI ALL’APPELLO STORICO DI OCALAN E I POSSIBILI SCENARI FUTURI

Radio onda d’urto, 3 marzo 2025

Come è stato accolto lo storico appello pronunciato dal leader e cofondatore del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, Abdullah Ocalan, giovedì 27 febbraio 2025?
Dalle diverse organizzazioni del movimento di liberazione curdo – disseminate tra Iran, Iraq, Siria e Turchia – sono arrivati nel fine settimana comunicati di approvazione e allineamento all’appello di Ocalan. Proprio il Partito dei Lavoratori del Kurdistan ha aperto il giro, dichiarando un cessate il fuoco unilaterale con lo stato turco e confermando di essere pronto a convocare un congresso per discutere la proposta di scioglimento del PKK qualora venissero create le condizioni di sicurezza per svolgerlo e si garantisse una discussione guidata dallo stesso Ocalan, che deve essere quindi liberato.

Approvazioni all’appello di Ocalan sono arrivate anche dalle Forze Siriane democratiche e dal Pyd, il partito che guida la rivoluzione in Rojava, dal Pjak curdo-iraniano, dalle istituzioni dell’autonomia di Shengal in nord-Iraq e dal Congresso nazionale del Kurdistan. Dallo stato turco, però, nel fine settimana sono arrivate solo bombe (di nuovo): in Siria del nord-est, nei pressi della Diga di Tishreen, e, secondo alcune fonti, anche sulle montagne del Kurdistan iracheno, dove si trova la guerriglia del Pkk.

Ai microfoni di Radio Onda D’Urto si può ascoltare l’intervista a Tiziano Saccucci dell’Ufficio Informazione Kurdistan Italia

Comunicato Stampa – 8 marzo 2025: è tempo di liberarsi dal patriarcato in tutto il mondo

Cisda, 4 marzo 2025 

Il secolo corrente deve essere il tempo in cui le donne, in ogni parte del mondo, prendono in mano le loro sorti e lottano insieme per liberarsi dal patriarcato.

Noi donne del CISDA che da oltre 25 anni lavoriamo a fianco delle donne afghane di RAWA

(Revolutionary Association of the Women of Afghanistan), sappiamo che la loro lotta non è altro che un tassello delle lotte delle donne che in ogni angolo del pianeta si ribellano all’oppressione e al patriarcato in tutte le sue forme.

Sotto il regime dei fondamentalisti talebani le donne afghane sono oggi tra le più oppresse al mondo: non possono studiare, lavorare, uscire di casa sole, e quando escono devono coprire il proprio corpo da capo a piedi. Un vero e proprio apartheid di genere che ha l’obiettivo di annientare sistematicamente le donne e la loro volontà di lotta, che è un esempio di coraggio e resistenza.

Ovunque il fondamentalismo crea apartheid di genere. L’Afghanistan, a partire dalla fine degli anni ’70, ha subito ingerenze straniere da parte di potenze internazionali e regionali che hanno finanziato e armato gruppi fondamentalisti per sostenere la propria egemonia coloniale.

Noi lottiamo con loro, ma sappiamo anche che fino a che ci sarà anche una sola donna schiava e oppressa nessuna sarà libera.

Viviamo un tempo disperante, in cui il sistema capitalista e patriarcale sta facendo passare come inevitabili militarizzazione della società, guerre, cambiamenti climatici, disumanizzazione e genocidio di interi popoli, dei migranti e delle persone razializzate. Il fascismo, ormai dilagante in tutto il mondo occidentale e non solo, ha come primo target le donne, a cui viene chiesto di ridurre il proprio ruolo a quello di fattrici e forza di lavoro gratuita o sfruttata e sottopagata.

Questa disperazione, soprattutto per noi donne, deve trasformarsi in una lotta comune contro la violenza, il femminicidio, il fascismo, le politiche genocide e le guerre, tutti tasselli di un medesimo disegno di un sistema in profonda crisi.

Contro l’apartheid di genere in Afghanistan e ovunque nel mondo.

Contro tutti i fondamentalismi che imprigionano le donne

Afghanistan. Dalla lama della “democrazia statunitense”, alla decapitazione islamista

Confronti, Marzo 2025 (Cartaceo)

Di Enrico Campofreda

Il numero di marzo è dedicato alle donne, protagoniste assolute di queste pagine. In apertura Enrico Campofreda ha intervistato l’attivista Shaqiba della Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (Rawa) che denuncia il drammatico peggioramento della condizione femminile sotto il regime talebano. Il Paese è diventato una prigione tra restrizioni, esclusione dall’istruzione e dal lavoro, matrimoni forzati e abusi

L’attivista Shaqiba della Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (Rawa) denuncia il drammatico peggioramento della condizione femminile sotto il regime talebano. Dopo le prime proteste represse con violenza, le donne afghane sono costrette a manifestare in clandestinità, mentre il Paese è diventato una prigione tra restrizioni, esclusione dall’istruzione e dal lavoro, matrimoni forzati e abusi.

Il contesto attuale in Afghanistan, dopo il ritorno al potere dei talebani nell’agosto 2021, è segnato da una drammatica regressione nei diritti delle donne. Le manifestazioni di protesta femminili, che nelle prime settimane dall’ascesa del regime erano vigorose, sono state brutalmente soffocate con arresti, torture e violenze sessuali. Nonostante il regime talebano abbia cercato di rendere impossibile ogni forma di dissenso pubblico, molte attiviste continuano a lottare in modo clandestino, usando i social media come strumento di denuncia.
La situazione delle donne afghane si è progressivamente deteriorata tanto che, a febbraio scorso, il procuratore della Corte penale internazionale, Karim Khan, ha annunciato di aver richiesto due mandati d’arresto per il leader supremo dei Talebani, Haibatullah Akhundzada, e il presidente della Corte Suprema afghana, Abdul Hakim Haqqani, accusati di crimini contro l’umanità per persecuzione di genere.

In questa situazione abbiamo intervistato Shaqiba, un’attivista di Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (Rawa), che ha recentemente intrapreso un tour in Europa per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla drammaticità della condizione femminile nell’Afghanistan talebano. In Italia, Shaqiba è stata ospite del Coordinamento italiano sostegno donne afghane (Cisda – cisda.it), un’associazione che da oltre venticinque anni si batte al fianco delle donne afghane, cercando di portare alla luce le atrocità perpetrate dal regime talebano e sostenendo le attiviste che, a rischio della propria vita, continuano a lottare per i diritti delle donne in Afghanistan.

Dopo le combattive manifestazioni femminili nelle prime settimane del secondo Emirato, le proteste di strada sono ormai impossibili?
Subito dopo l’ascesa al potere dei talebani nell’ago- sto 2021 le donne di diverse aree afghane sono scese in piazza per opporre
Molte di loro sono state arrestate, imprigionate, torturate e, in alcuni casi, sono stati documentati rapporti di stupro e molestie sessuali. I talebani hanno storicamente usato vari mezzi per control- lare e imporre il silenzio fra le persone che catturano o rilasciano.
La strategia di costringere i prigionieri a firma- re accordi sotto minaccia di morte o detenzione è una tattica comune per reprimere il dissenso e mantenere il controllo tramite l’intimidazione. Tuttavia, è difficile documentare queste viola- zioni, poiché i sopravvissuti temono ritorsioni. Alcune donne hanno denunciato crimini durante la detenzione, ma la repressione e le minacce hanno spinto molte a manifestare in spazi chiusi. Le proteste si spostano online, dove le attiviste esprimono il loro dissenso contro un regime misogino. Non c’è nessuna accettazione del sistema, ribadiamo che la ragione per cui le attiviste hanno ridotto le proteste di strada è la coercizione.

Da cosa sono oppresse oggi le donne afghane?
L’Afghanistan è diventato una prigione per le donne, con restrizioni sempre più severe. La disoccupazione, la povertà e le pressioni psicologi- che portano a un aumento dei suicidi femminili. Ogni giorno emergono crimini gravi come esecuzioni pubbliche, femminicidi, matrimoni forzati e vendite di ragazze per miseria. Le studentesse – come nel caso dell’Università Kankor – sono escluse dagli esami di ammissione, le docenti licenziate e gli istituti medici chiusi. Le donne non possono viaggiare senza un accompagnatore maschio [mahram] e le Ong ancora presenti sul territorio sono costrette a rinunciare alle dipendenti femminili. Negli ultimi venticinque anni le donne afghane hanno sofferto sotto la lama della cosiddetta democrazia sostenuta dagli Stati Uniti, ora sono decapitate sotto la maschera dell’Islam.

In che modo, rispetto ai governi precedenti, la protezione delle donne è peggiorata?
Prima del ritorno dei talebani, le donne vivevano già in condizioni precarie. Molti distretti erano sotto il controllo dei fondamentalisti, sebbene go- vernasse Ashraf Ghani e con gli esecutivi sostenuti dagli Stati Uniti. Nell’ottobre 2015, Rukhshana, una giovane di Ghor, è stata pubblicamente lapidata a morte per essere “presumibilmente” fuggita da casa. A quell’epoca i funzionari governativi hanno violentato decine di donne. Auto-immolazione, taglio del naso e delle orecchie alle donne dilaga- vano. A Mazar-e-Sharif una bimba di nove anni venne scambiata con un cane. Parecchi conosco- no la tragica vicenda di Farkhunda che nel marzo 2015 fu assassinata e bruciata a pochi chilometri dal Palazzo presidenziale. La violenza, tra cui suicidi, mutilazioni e matrimoni forzati, era diffusa, mentre i media affermavano che la condizione del- le donne migliorava. È vero che la Costituzione afghana dell’epoca prevedeva la parità fra i generi e che la legge sull’eliminazione della violenza contro le donne è statale, ma questa norma rimaneva solo un pezzo di carta inapplicato e inutilizzato nei tribunali. Tutto ciò accadeva perché diversi jihadisti [signori della guerra come Gulbuddin Hekmatyar, Karim Khalili, Abdul Rashid Dostum] facevano parte dei governi Karzai e Ghani. Al loro fondamentalismo è stato dato un falso volto democratico proprio dalla linea di condotta statunitense. La corruzione e la presenza di jihadisti al potere hanno peggiorato la situazione, culminando nel crollo del governo e nel ritorno del regime tale- bano, che ha eliminato le poche libertà rimaste. Vedove e donne divorziate ora affrontano la stessa sorte delle altre afghane. Le donne che erano sta- te precedentemente separate dai loro mariti sono state costrette a rientrare in casa e le Corti talebane emettono sentenze sulla base della Shari’a.

LE DONNE ERANO GIÀ IN UNA SITUA- ZIONE PRECARIA, MA ORA L’AFGHA- NISTAN È DIVENTATO UNA GRANDE PRIGIONE PER LE DONNE.

Cosa riesce a fare la rete di Rawa?
Rawa continua a essere attiva in campo politico, sociale e umanitario. Ora opera in clandestinità e perlopiù organizza corsi domestici di alfabetizza- zione, inglese, scienze e matematica per ragazze in età scolare e donne analfabete. Gestisce inoltre istituti per bambini in aree remote e offre assistenza sanitaria tramite una squadra mobile che interviene nei momenti di crisi, come terremoti, inondazioni e altre calamità. Tra le attività umanitarie figura anche la distribuzione di pacchi alimentari a famiglie povere e disoccupati durante le emergenze. L’obiettivo principale è aumentare la consapevolezza politica di donne e giovani, mobilitandoli e organizzandoli. Coordina pro- teste contro il regime dei taliban celebrando anniversari come l’8 marzo o il martirio di Meena Keshwar Kamal [fondatrice di Rawa assassinata nel novembre 1987]. Attraverso la sua rivista e il sito web, diffonde notizie sulla situazione interna, pubblica articoli analitici sul ruolo degli Stati Uniti nel sostenere il fondamentalismo e riporta le attività dei suoi membri in tutto il mondo. Per garantire la sicurezza delle attiviste, le iniziative vengono pubblicizzate con discrezione.

Le attiviste di Rawa possono ancora agire all’interno del Paese o sono costrette a vivere all’estero?
Le attiviste possono muoversi in diverse aree del Paese, ma devono prestare grande attenzione alla sicurezza per evitare di essere individuate e arre- state. Nonostante le difficoltà, Rawa ha scelto di rimanere in Afghanistan, accanto a chi ha perso tutto. Lasciare il Paese e vivere all’estero sarebbe l’opzione più semplice, ma il nostro impegno è es- sere un punto di riferimento per la popolazione, contribuendo alla sensibilizzazione e alla lotta per un futuro migliore.

Perché molti intellettuali e giovani hanno lasciato il Paese e non hanno scelto la resistenza?
Molti intellettuali e persone istruite, che avevano lavorato in importanti istituzioni durante il ventennio dei governi sostenuti dagli Stati Uniti, sono stati successivamente evacuati dopo la riconquista talebana di Kabul. Tuttavia, non hanno pensato alla resistenza, mancando di senso di responsabilità e patriottismo. Molti giovani, spinti dalla mancanza di lavoro, hanno lasciato l’Afghanistan e continuano a farlo, con diverse famiglie che inviano membri all’estero per mantenere con le rimesse i parenti in loco. Ma la scelta di rimanere in Afghanistan e lottare non è limitata al sesso o all’età. Abbiamo visto che tante donne si sono ribellate e hanno combattuto contro il governo talebano più degli uomini. Nelle rischiose circostanze delle proteste gli uomini sono facilmente identificabili, loro non possono celarsi dietro il burqa… Se arrestati rischiano più facilmente la tortura. Ed è il motivo per cui alcune contestazioni maschili restano virtuali, utilizzando i social media.

La crescente precarietà dipende anche dal calo del sostegno esterno e dall’intensificarsi della crisi in Medio Oriente?
Negli ultimi vent’anni di occupazione Nato, in- genti fondi sono arrivati in Afghanistan, ma anziché essere destinati a progetti strutturali come infrastrutture e trasformazioni durature, sono stati sprecati in corruzione e ruberie politiche. Traditori come Abd al-Rasul Sayyaf, Yunus Qanuni, Muhammad Mohaqiq, Karim Khalili e membri dell’Alleanza del Nord che erano al potere, accumulavano grandi ricchezze, mentre la maggioranza della gente diventava sempre più povera. Con l’a- scesa dei talebani, oltre alla cacciata delle donne da lavori pubblici e privati, molte aziende e istituzioni hanno chiuso, peggiorando ulteriormente l’economia. Sebbene i talebani ricevano milioni di dollari settimanali da Stati Uniti e altri Paesi, grazie anche al traffico di oppio e alla cessione di risorse minerarie, è la popolazione a pagare il prezzo, soffrendo sotto un regime oppressivo. Nonostante le gravi condizioni, l’attenzione internazionale è di- minuita, e le crisi umanitarie in Afghanistan vengono raramente riportate dai media globali.

Gli hazara, oltre agli attacchi dell’Isis-K, sono vittime di arresti, privazioni e discriminazioni da parte dei talebani. È possibile fermare questo razzismo?
Sostenendo i fondamentalisti alla Sayyaf, Hekmatyar, Rabbani, Massoud, Mohaqiq, Khalili e i taliban, gli Stati Uniti hanno contribuito a favorire le divisioni etniche e settarie in Afghanistan. Questo ha rappresentato uno dei ruoli distruttivi di Usa, Pakistan, Iran nel dividere le etnie interne e incitarle all’odio. La discriminazione religiosa è stata prevalente durante i quarant’anni di conflitto. Il razzismo, la discriminazione, la tortura e l’uccisione delle minoranze possono essere fermati solo se gli americani e i loro alleati smettono di finanziare e sostenere gruppi terroristici. Nei Paesi in guerra le discriminazioni razziale e religiosa sono fomentate per impedire l’unità delle persone, assicurando che i gruppi etnici e confessionali si combattano e i governi-fantoccio traggano vantaggio dalle divisioni. Il razzismo e la discrimina- zione possono essere sradicati solo con l’istituzione d’un sistema democratico secolarista.

Esistono in Afghanistan progetti politici e leader in grado di allontanare il Paese dal fondamentalismo e dal tribalismo?
Alcune organizzazioni politiche e sociali mira- no a coinvolgere i cittadini contro le limitazioni dell’estremismo religioso e dell’esasperazione etnica. Personalmente cito il movimento Rawa e il Partito della solidarietà, entrambi s’oppongono ai fondamentalismi e li combattono senza timori e compromessi.

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Perché Erdogan è interessato a una pace con i curdi del PKK

Il Post, 3 marzo 2025

La storica richiesta di Abdullah Öcalan al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) di abbandonare la lotta armata, sciogliersi e avviare un processo di pace è legata anche a un cambio di atteggiamento da parte del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che potrebbe avvantaggiarsi da un riavvicinamento con i curdi. Da un lato la distensione potrebbe facilitare l’approvazione di una riforma costituzionale che permetterebbe a Erdogan di restare al potere oltre la fine del suo secondo mandato, nel 2028. Dall’altro la fine delle ostilità con il PKK potrebbe indebolire o condizionare anche i curdi siriani, contro cui la Turchia combatte da tempo.

Da oltre quarant’anni il PKK, fondato proprio da Öcalan, combatte una guerra contro lo stato turco per ottenere maggiore autonomia politica e sociale per la popolazione curda in Turchia. Gli ultimi negoziati erano falliti nel 2015, e in quell’occasione il governo turco aveva attaccato duramente i curdi, sia con l’esercito sia attraverso un’intensa repressione politica.

Da qualche mese Erdogan ha però cambiato approccio. Non si è espresso direttamente sulla questione, ma ha usato la stampa e alcuni alleati di governo per far capire di essere pronto a negoziare.

Tra i vari motivi alla base di questo cambio potrebbe esserci il tentativo di garantirsi il sostegno del Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli (DEM), un partito filocurdo da tempo considerato dalla maggioranza di governo un’espressione politica del PKK. Lo scorso ottobre il leader del partito di estrema destra Movimento Nazionalista (MHP) Devlet Bahceli, alleato di Erdogan, aveva prima allacciato rapporti con DEM, poi proposto una grazia a Öcalan se il PKK avesse deciso di abbandonare la lotta armata e sciogliersi. Le iniziative di Bahceli non erano personali, ma riflettevano il nuovo approccio del governo.

Il riavvicinamento è dovuto in parte a ragioni di opportunismo politico. I voti di DEM servirebbero a Erdogan per approvare un progetto di riforma costituzionale che gli permetterebbe di restare al potere anche dopo il 2028, quando scadrà il suo secondo e ultimo mandato presidenziale. Per approvarla servono almeno due terzi dei voti: DEM ha 57 seggi in parlamento, sui 600 totali (la maggioranza che sostiene Erdogan ne ha 324, 7 seggi sono vacanti, altri voti potrebbero arrivare da partiti più piccoli o parlamentari indipendenti).

DEM persegue per via democratica gli stessi obiettivi del PKK: riconoscimento costituzionale dell’identità curda, insegnamento della lingua curda nelle scuole e maggiore autonomia per la regione. Sono richieste avanzate da anni, ma che il governo ha sempre respinto. Non è chiaro al momento quanto Erdogan sia disposto a concedere, anche sul tema della scarcerazione dei prigionieri politici e dell’amnistia per i guerriglieri del PKK.

Negli ultimi dieci anni il partito e i suoi esponenti sono stati sottoposti a varie misure repressive: 150 sindaci curdi sono stati rimossi e decine di attivisti e politici sono stati incarcerati. Per esempio Selahattin Demirtaş, ex co-presidente di DEM che fu anche candidato alla presidenza, è in prigione dal 2016.

La fine delle ostilità con i curdi della Turchia potrebbe anche avere ripercussioni sui curdi siriani, che controllano la regione del Rojava, nel nord-est della Siria e vicino al confine con la Turchia.

L’appello di Öcalan per l’avvio di un processo di pace non è stato rivolto ai curdi siriani (la Siria non è mai nominata nel messaggio), ma in questi anni molti esponenti del PKK sono confluiti nelle Forze democratiche siriane (SDF), l’esercito che contiene al suo interno sia i principali gruppi armati curdi della Siria (come l’YPG, Unità di protezione popolare, la più famosa milizia curda) sia altre milizie locali. L’attuale comandante in capo delle SDF, Mazloum Kobane (nome di guerra di Mazloum Abdi), ha fatto parte del PKK ed è stato a lungo il principale collaboratore di Abdullah Öcalan. Agli occhi della Turchia, non c’è differenza tra il PKK e le SDF.

In questi anni l’esercito turco e le milizie filoturche hanno combattuto contro le SDF. Il governo turco ritiene che fare la pace con il PKK potrebbe depotenziare anche i curdi siriani, che in passato sono stati sostenuti dagli Stati Uniti principalmente per combattere l’ISIS nella regione, ma che oggi sono molto più isolati.

Il progetto di Erdogan, ambizioso e ancora in una fase iniziale, è quindi quello di smettere di fare la guerra ai gruppi curdi per consolidare ulteriormente il proprio potere nel paese. Allo stesso tempo, il presidente turco vorrebbe che l’influenza della Turchia sulla regione circostante si estendesse.

“Bettolle: libere di essere”, viaggio nella condizione femminile

SienaPost, 3 marzo 2025

Tra oppressione e lotta per i diritti. Il focus sulle donne afgane. Evento toccante alla Biblioteca BiBet

L’iniziativa, – la prima tra quelle in programma nel ricco calendario dei dieci comuni della Valdichiana – promossa dagli Assessorati Cultura, Politiche di Genere, Politiche Sociali e Pari Opportunità del Comune di Sinalunga, ha offerto uno spaccato della condizione femminile nel mondo, con un focus particolare sulla situazione delle donne afghane.

L’incontro “A tu per tu con Cristiana Cella” ha rappresentato il cuore della serata. La giornalista, scrittrice e sceneggiatrice, da anni impegnata nella difesa dei diritti delle donne afghane, ha condiviso la sua profonda conoscenza della realtà afghana, offrendo un quadro lucido e dettagliato delle sfide che le donne affrontano quotidianamente.

Afghanistan: una lotta per la sopravvivenza
Cristiana Cella ha ripercorso la storia recente dell’Afghanistan, sottolineando come il regime talebano abbia drasticamente limitato i diritti delle donne, relegandole a un ruolo marginale nella società. Ha denunciato le violazioni dei diritti umani, la negazione dell’istruzione e del lavoro, e la repressione di qualsiasi forma di dissenso.

Resistenza, speranza e domande senza risposta
Nonostante le difficoltà, Cella ha evidenziato la resilienza e la forza delle donne afghane, che continuano a lottare per i loro diritti e per un futuro migliore. Ha ricordato figure emblematiche come Meena Keshwar Kamal, fondatrice della RAWA, e le tante attiviste che, anche in condizioni estreme, non rinunciano alla speranza. All’uscita una partecipante ci ha detto: “mi perseguita una domanda: perché questo accanimento crudele e continuato nei confronti delle donne? Qual è l’obiettivo che si vuole perseguire? Perché le vogliamo annientare e rendere invisibili? Perché, le donne fanno tanta paura? L’iniziativa ha cercato di rispondere a queste domande. Ma nessuna risposta ha motivato fino in fondo gli atteggiamenti di distruzione.

Impegno dell’Italia e le mozioni per il riconoscimento dei crimini
L’incontro ha offerto l’occasione per fare il punto sulle iniziative italiane a sostegno delle donne afghane. Il CISDA, rappresenta un punto di riferimento importante, così come le numerose associazioni e organizzazioni che si impegnano a sensibilizzare l’opinione pubblica e a fornire aiuto concreto. In particolare, è emerso l’impegno nel presentare ordini del giorno in tutta Italia per chiedere il riconoscimento dei crimini dei talebani come crimini contro l’umanità di genere. Le rappresentanti istituzionali presenti hanno inoltre promesso che proporranno all’unione dei Comuni della Valdichiana una mozione in tal senso.

Un messaggio di speranza
La serata “Libere di essere” ha rappresentato un’occasione per riflettere sulla condizione femminile nel mondo e per ribadire l’importanza della lotta per i diritti delle donne. L’incontro con Cristiana Cella ha lasciato un messaggio di speranza: anche nelle situazioni più difficili, la determinazione e la solidarietà possono fare la differenza.

La mostra fotografica “Viosiolapse”
A corollario dell’incontro, la mostra fotografica “Viosiolapse” ha offerto un’ulteriore testimonianza della forza e della bellezza delle donne, attraverso gli scatti di Sofia Pericoli e il make-up di Renata Pappano.

L’evento si è concluso con un aperitivo, un momento di convivialità e di scambio di idee. L’iniziativa “Libere di essere” ha dimostrato come la cultura e l’impegno civile possano contribuire a costruire una società più giusta e inclusiva, dove i diritti delle donne siano pienamente riconosciuti e rispettati.