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Autore: CisdaETS

Il divieto dei talebani di studiare medicina scatena le proteste delle donne in tutte le province

Il nuovo divieto imposto dai talebani pone fine all’istruzione medica per le donne, sollevando allarme sul futuro dell’assistenza sanitaria per le donne afghane

Afghan Witness, CIR, 20 dicembre 2024

Il 2 dicembre 2024, giornalisti e agenzie di stampa afghane hanno riferito che il leader supremo dei talebani Hibatullah Akhundzada aveva emanato un nuovo decreto che proibiva alle donne di iscriversi e frequentare studi negli istituti medici. Secondo i media afghani , la decisione è stata annunciata dal ministro della Salute pubblica dei talebani in un incontro con i responsabili degli istituti sanitari di Kabul. Questa nuova misura proibirà alle donne di studiare ostetricia, protesi dentarie, infermieristica, scienze di laboratorio, tra le altre materie.

Cronologia delle restrizioni all’istruzione delle donne e delle ragazze
La decisione segue una serie di restrizioni all’istruzione di donne e ragazze. A marzo 2022, le autorità di fatto hanno vietato alle ragazze di studiare oltre la sesta elementare (circa 11 anni). A dicembre 2022, la decisione è stata estesa a un divieto nazionale per le donne di iscriversi e studiare nelle università. A dicembre 2023, le autorità talebane hanno chiuso vari istituti privati, nonostante la mancanza di una decisione ufficiale in merito. A febbraio 2024, i talebani hanno proclamato che alle laureate sarebbe stato consentito di presentare domanda per studiare in istituti medici pubblici in 11 province . Tuttavia, tale risoluzione è stata annullata nell’annuncio più recente.
Secondo fonti di AW a Kabul, l’unica forma di istruzione laica rimasta disponibile per le ragazze oltre la sesta elementare nella capitale sono i corsi di lingua inglese offerti da centri privati ​​a un costo elevato. Questo è probabilmente il caso di altre aree urbane, lasciando donne e ragazze provenienti da famiglie più povere o da aree rurali senza accesso a nessuna forma di istruzione laica.

Reazioni delle organizzazioni internazionali
In seguito alla decisione, Médecins Sans Frontières (MSF, Medici Senza Frontiere) ha rilasciato una dichiarazione sul proprio sito web. L’organizzazione, che gestisce progetti in sette province in cui più della metà dei suoi dipendenti sono donne, ha affermato che “non c’è un numero sufficiente di operatrici sanitarie nel paese” e che “le nuove limitazioni limiteranno ulteriormente l’accesso a un’assistenza sanitaria di qualità e porranno seri pericoli alla sua disponibilità in futuro”.
Il 9 dicembre 2024, l’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) ha rilasciato un comunicato stampa in cui si riferiva alla nuova misura come a un “divieto draconiano”. L’OHCHR ha sottolineato che, poiché attualmente solo le donne sono autorizzate a fornire assistenza medica a ragazze e donne in Afghanistan, la nuova misura “porterà a inutili sofferenze, malattie e forse morti di donne e bambini afghani, ora e nelle generazioni future, il che potrebbe equivalere a femminicidio”.
Le proteste delle donne in risposta all’annuncio
La decisione di vietare alle donne di proseguire gli studi nel settore sanitario è stata accolta con proteste in tutto il Paese. A Badakhshan Kabul , Kapisa e Takhar , decine di studentesse si sono radunate dentro e fuori i loro istituti scolastici per protestare.
A Herat, le donne si sono radunate fuori dal complesso del governatore talebano, tenendo cartelli con la scritta “L’istruzione è un nostro diritto”, “La scienza è un nostro diritto” e “Cerca la conoscenza dalla culla alla tomba” (un detto popolare in dari). Il gruppo di donne che protestavano è stato sfidato da presunti membri talebani di Herat che sono stati visti parlare con il gruppo, tuttavia, AW non è stato in grado di tradurre ciò che è stato detto tra loro. Secondo Afghanistan International, che ha condiviso il video, “i combattenti talebani hanno cercato di interrompere la protesta delle donne”.
La maggior parte delle donne ha scelto di protestare al chiuso, la maggior parte in luoghi non divulgati e con il volto coperto. AW ha identificato cinque gruppi organizzati guidati da donne che protestavano al chiuso. Tutti i gruppi sono stati creati tra il 2021 e il 2023 e sono stati attivi da allora, come si vede nella Tabella 1 di seguito.

 Reazione dei gruppi di opposizione armata
Oltre ai gruppi di donne, anche un gruppo di resistenza armata avrebbe agito per rappresaglia contro le nuove restrizioni. Il 3 dicembre 2024, l’Afghan Freedom Front (AFF) ha condiviso un video che mostrava presumibilmente un attacco contro veicoli talebani. Secondo la dichiarazione dell’AFF, l’esplosione aveva come obiettivo un convoglio talebano diretto all’ospedale Khair Khana da 102 posti letto a Kabul per allontanare con la forza le tirocinanti infermiere e ostetriche dai locali.
Non è la prima volta che AW registra che l’AFF rivendica un attacco a sostegno delle donne: nel gennaio 2024, durante gli arresti in corso di donne e ragazze da parte di membri talebani con l’accusa di abbigliamento inadeguato, l’AFF ha preso di mira anche un convoglio di veicoli talebani nel quartiere Khair Khana di Kabul.

Osservazioni
L’amministrazione de facto dei talebani ha gradualmente imposto restrizioni sempre più severe all’accesso all’istruzione per donne e ragazze da quando hanno preso il potere nell’agosto 2021. Fino a poco tempo fa, alle donne era ancora consentito formarsi per diventare operatrici di supporto sanitario. Tuttavia, la decisione più recente del dicembre 2024 impedisce di fatto alle donne di iscriversi e studiare negli istituti sanitari in tutto il paese.
Con il nuovo divieto in vigore, le ragazze oltre la sesta elementare non hanno accesso all’istruzione laica nel paese, ad eccezione dei corsi di inglese offerti da istituti privati, probabilmente disponibili solo nelle grandi città. Per la maggior parte delle donne e delle ragazze afghane, gli istituti religiosi rappresentano ora l’unica opzione per l’istruzione.

 

GRUPPI CHE HANNO PROTESTATO – PRIMA E ULTIMA LORO PROTESTA

Women’s Movement Toward FreedomMarzo 2023Dicembre 2024
Network for Women’s Political Participation in Afghanistan Settembre 2021Dicembre 2024
Association of Resilient Women of AfghanistanDicembre 2022Dicembre 2024
Purple Saturdays MovementDicembre 2022 Dicembre 2024
Spontaneous Movement of Afghanistan’s Women ProtestersSettembre 2021Dicembre 2024

Delegazione Dem incontra in carcere Öcalan: «Più che mai vicini alla pace»

Il Manifesto, 31 dicembre 2024, di Tiziano Saccucci

Turchia. Il politico curdo apre al dialogo con Erdogan. È la prima visita di due deputati al leader del Pkk dal collasso dei negoziati del 2015

Il 28 dicembre una delegazione del Partito democratico dei popoli (Dem), composta dai parlamentari Sırrı Süreyya Önder e Pervin Buldan, ha incontrato Abdullah Öcalan, leader storico del movimento curdo, nell’isola-prigione di Imrali. Si tratta del primo incontro completo con Öcalan a nove anni dal collasso dei negoziati del 2015 tra stato turco e Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), preceduto da una visita familiare tenuta a ottobre con il nipote Omer Öcalan, anche lui deputato Dem. I due deputati ricoprivano un ruolo fondamentale già negli ultimi negoziati.

Dopo l’incontro la delegazione ha rilasciato una dichiarazione cauta. Sırrı Süreyya Önder e Pervin Buldan hanno confermato che per il momento non sarebbero stati forniti ulteriori dettagli a causa della delicatezza della situazione: «Non saremo in grado di fornire informazioni alla stampa finché il processo non avrà raggiunto una certa maturità», ha affermato Önder. «Questo non significa nascondere nulla; è un requisito di rispetto per gli incontri che terremo».

«Ho sempre sperato nella pace, ma ora credo che siamo più vicini che mai a raggiungerla», ha dichiarato Pervin Buldan al giornale turco Serbestiyet.

Nel breve messaggio in sette punti riportato dalla delegazione, Öcalan si dice pronto a dare il suo contributo per una soluzione politica al conflitto, chiedendo a tutte le parti di «prendere l’iniziativa senza far prevalere i propri interessi» e affermando che la Grande assemblea nazionale turca è uno dei luoghi principali in cui questo processo dovrebbe svolgersi. Come osservato dal giornalista e analista politico curdo Amed Dicle su MedyaNews, Öcalan indica il parlamento come «uno dei luoghi», ritenendo presumibilmente che un eventuale nuovo processo di soluzione non può essere limitato al quadro parlamentare e affermando l’importanza degli attori sociali e politici che non ne fanno parte.

In un passaggio altrettanto interessante, il leader del Pkk indica il presidente turco Erdoğan e il leder del partito nazionalista Mhp Bahçeli come soggetti di riferimento di questo nuovo processo. Sempre secondo Dicle, Öcalan intende in questo modo affermare la necessità di una partecipazione del movimento curdo e dello stato turco come parti uguali.
Il leader curdo ha messo in evidenza anche il contesto regionale, in particolare i conflitti a Gaza e in Siria, come fattori che rendono urgente la necessità di un processo di pace in Turchia. «Rafforzare ancora una volta la fratellanza turco-curda non è solo una responsabilità storica, ma anche una questione di grande urgenza e importanza cruciale per tutti i popoli», afferma Öcalan. «Tutti i nostri sforzi eleveranno il paese a un livello adeguato e serviranno anche da preziosa guida per una trasformazione democratica».

L’incontro ha suscitato reazioni contrastanti nello scenario politico turco. «Uno dei nostri criteri più importanti è prendere in considerazione la sensibilità delle famiglie dei martiri e dei nostri veterani», ha dichiarato il presidente del Chp Özgür Özel. «Stiamo seguendo gli sviluppi, ma le informazioni di cui disponiamo non sono ancora sufficienti per formulare un commento approfondito».

Le ramificazioni di un possibile nuovo processo di pace oltrepassano i confini turchi: come il cessate il fuoco del 2015 permise al movimento curdo, Pkk incluso, di concentrare le sue forze nella lotta contro l’Isis, un nuovo processo di pace rimuoverebbe l’ostacolo più grande dell’Amministrazione autonoma democratica della Siria del Nord-Est (Daanes) nella partecipazione alla costruzione della nuova Siria dopo Assad, ovvero la posizione del governo turco sulla Daanes, considerata un ramo del Pkk.

Abu Mohammad al-Jolani, alla guida di Hts e leader siriano de facto, seppur chiudendo ancora una volta le porte alla possibilità di una Siria federale, che al momento non rientra tra le richieste della Daanes, in un’intervista ad al Arabiya ha affermato che ci sarebbero colloqui in corso per integrare le Forze siriane democratiche (SDF) nelle nuove forze armate siriane. Queste affermazioni contraddicono la posizione già espressa giorni fa dal ministro degli esteri turco Fidan, secondo cui alla Daanes non sarebbe stato permesso di partecipare ad alcun processo politico siriano.

I talebani hanno vietato di costruire finestre da cui si possano intravedere delle donne

Il Post, 30 dicembre 2024

Per esempio quelle che danno su cucine o cortili: è l’ennesima misura adottata in Afghanistan per rendere la loro vita ancora più difficile e isolata

Sabato 28 dicembre il regime dei talebani che governa in Afghanistan dal 2021 ha emanato un decreto che vieta di costruire, nei nuovi edifici, finestre che si affaccino su stanze e ambienti altrui dove potrebbero esserci delle donne. «Vedere le donne che lavorano in cucina, nei cortili o nei pozzi mentre raccolgono l’acqua, potrebbe indurre ad atti impuri», si legge nel decreto.

È soltanto l’ultima di una serie di regole imposte negli ultimi anni per limitare la vita sociale, l’indipendenza e l’autonomia delle donne, che secondo l’interpretazione dell’Islam estremamente conservatrice praticata dai talebani godono di molti meno diritti rispetto agli uomini.

Il decreto è stato emesso dal leader del regime afghano, Hibatullah Akhundzada, ed è stato annunciato su X dal suo portavoce Zabihullah Mujahid. Dal testo del decreto emerge una visione profondamente stereotipata e discriminatoria delle donne, che secondo i talebani appartengono agli ambienti della casa tradizionalmente associati alla cura e all’accudimento della famiglia: la cucina, appunto, e altri luoghi dove si può reperire e preparare del cibo per la famiglia.

L’indicazione del decreto non si limita agli edifici di nuova costruzione, ma anche a quelli già esistenti. Se una stanza ha già una finestra che si affaccia su una cucina o un cortile il proprietario dell’edificio è obbligato a trovare un modo per «evitare danni», per esempio installando un muro o qualcosa che schermi la vista. La norma renderà la vita delle donne ancora più separata da quella degli uomini, in una condizione ormai permanente di subalternità.

I talebani stanno applicando norme simili a quelle che emanarono durante il loro primo regime, dal 1996 al 2001, durante il quale alle donne furono negati moltissimi diritti. Quando ripresero il potere, nel 2021, cercarono di presentarsi come un gruppo moderato e aperto, che avrebbe trattato le donne in maniera diversa rispetto agli anni precedenti.

Già nei mesi successivi tuttavia divenne chiaro che non sarebbe stato così. Tra le altre cose, negli ultimi tre anni i talebani hanno chiuso le scuole secondarie femminili (l’equivalente di medie e superiori italiane), hanno proibito alle donne di accedere all’università, e hanno vietato l’accesso a parrucchieri e saloni di bellezza.

Lo scorso agosto hanno approvato la prima legge emanata dal ministero per la Prevenzione dei vizi e la Promozione delle virtù, creato per promuovere il rispetto di un’interpretazione estremamente rigida della dottrina islamica. La legge, divisa in 35 articoli, stabilisce per esempio che le donne non possano cantare, recitare o leggere ad alta voce in pubblico, dato che secondo i talebani la voce di una donna è qualcosa di intimo e deve rimanere privata. La legge vieta inoltre alle donne di viaggiare senza essere accompagnate da un uomo con cui hanno un legame di sangue, e di avere incontri di qualsiasi tipo con uomini che non siano loro parenti.

Due giorni dopo l’emanazione del decreto sulle finestre, inoltre, il regime ha annunciato che chiuderà le associazioni e le ong afghane e straniere che impiegano delle donne. Già nel 2022 i talebani avevano emanato un divieto simile, che però di fatto non era stato applicato.

Turchia. Delegazione del Pkk incontra Ocalan: urge la ‘fratellanza curdo-turca’

Notizie Geopolitiche, 29 dicembre 2024, di Shorsh Surme

Una delegazione del Pkk curdo ha incontrato ieri presso il centro di detenzione di Imrali il leader . A seguito della visita la delegazione ha constatato che Ocalan gode di buona salute e che “ha proposto una soluzione positiva agli scenari oscuri che si stanno imponendo nella regione”.
“Il rafforzamento della fratellanza curdo-turca non è solo una responsabilità storica, ma anche di importanza decisiva per tutte le nazioni”, ha affermato Ocalan in una nota.
In occasione dell’incontro è stato notato che per il successo del processo di pace, tutti i partiti politici in Turchia devono prendere l’iniziativa e avere un atteggiamento positivo e costruttivo senza dipendere da calcoli temporanei e ristretti. Naturalmente, uno dei settori più importanti di questa partecipazione sarà il parlamento turco.
In merito alla questione di Gaza e a quella della Siria Ocalan ha affermato che “Ho la competenza e la determinazione per dare il contributo necessario al nuovo paradigma sostenuto da Bakcelli ed Erdogan”, auspicando “un’era di pace, democrazia e fratellanza per la Turchia e la regione”.
Nel corso degli ultimi decenni, ci sono stati vari tentativi di pace e negoziati tra il governo turco e i rappresentanti curdi, ma nessuno di questi processi ha portato a una soluzione duratura e definitiva. Di seguito sono descritti i principali momenti dei negoziati:

– Processo di pace degli anni ’90: durante gli anni ’90 la Turchia ha affrontato una guerra contro il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), organizzazione curda separatista, che ha causato migliaia di vittime. Negli anni ’90 ci furono alcuni tentativi di negoziati, ma furono interrotti a causa del rifiuto del governo di concedere autonomi diritti ai curdi e della violenza da entrambe le parti.

– Processo di pace degli anni 2000: negli anni 2000, soprattutto durante il governo di Recep Tayyip Erdogan, ci furono segnali di apertura verso una soluzione politica del conflitto. Tra il 2006 e il 2009, ci furono alcuni tentativi di negoziato informali, ma questi non portarono a risultati concreti.

– Processo di pace (2013-2015): il periodo più significativo di negoziato tra il governo turco e i rappresentanti curdi è stato tra il 2013 e il 2015, noto come il “Processo di Pace”. Il governo di Erdogan e il leader del PKK, Abdullah Ocalan, detenuto nelle prigioni turche, hanno avviato un dialogo segreto che ha portato a un cessate-il-fuoco tra le parti e alla formulazione di alcune proposte per una soluzione politica. Tuttavia il processo è stato interrotto nel 2015 a causa dell’escalation del conflitto, delle difficoltà interne alla Turchia e delle operazioni militari contro il PKK nel sud-est del paese.

– Fasi successive: dopo il fallimento del processo di pace, la situazione è tornata a essere caratterizzata dalla violenza e dalla repressione nei confronti delle organizzazioni curde. La Turchia ha continuato a combattere contro il PKK, mentre il governo curdo nel nord della Siria (le Forze Democratiche Siriane, SDF), che include il PYD (Partito dell’Unione Democratica, considerato dalla Turchia affiliato al PKK), ha ottenuto il sostegno degli Stati Uniti nella lotta contro lo Stato Islamico. Questo ha acuito ulteriormente le tensioni tra la Turchia e le forze curde regionali.

 

Afghanistan, la stretta dei talebani: Le Ong con personale femminile costrette a chiudere

Il Fatto Quotidiano, 30 dicembre 2024

Il Ministero dell’Economia di Kabul ha annunciato la chiusura di tutte le Ong nazionali e straniere che impiegano personale femminile.

Nell’Afghanistan dei Talebani, che a dispetto delle promesse di cambiamento sembrano ricalcare fedelmente quella degli anni 90, un nuovo tassello si aggiunge al processo di cancellazione dei diritti delle donne. Dopo averle costrette a indossare il velo, averle escluse dagli spazi pubblici e dalla scuola oltre la prima media, e vietato l’accesso a gran parte dei lavori, ora arriva un ulteriore restrizione: alle donne sarà vietato lavorare nelle Ong.

Il Ministero dell’Economia di Kabul ha annunciato la chiusura di tutte le Ong nazionali e straniere che impiegano personale femminile. In una lettera pubblicata su X, le organizzazioni sono state avvertite che non rispettare il divieto comporterà la revoca immediata della licenza.

Lo stop riguarda qualsiasi attività che coinvolga donne all’interno di enti non controllati dai Talebani, un provvedimento che conferma la repressione nei confronti della libertà femminile. “In caso di mancata collaborazione, tutte le attività di quell’istituzione saranno cancellate e anche la licenza di attività concessa dal ministero sarà annullata”, ha ribadito il ministero.

 

La testimonianza«Vi racconto come vivono, davvero, le donne in Afghanistan»

Corriere del Ticino, 25 dicembre 2024, di Federica Serrao e Giacomo Butti

Shakiba, membro di RAWA (associazione che a Kabul lotta per i diritti umani), ci parla di un Paese caduto nel caos più totale – «Cosa potete fare voi che vivete in Occidente? Sensibilizzare l’opinione pubblica sul modo in cui i talebani sottomettono il popolo afghano»

Quando le chiediamo di raccontarci com’è cambiata la vita del popolo afghano da quel 15 agosto 2021, la faccia di Shakiba si fa cupa. «La caduta di Kabul». Basta nominarla e subito quel sorriso timido e cortese che, fino a pochi istanti prima, le aveva illuminato il viso, si spegne. Sospira, profondamente. Poi inizia a raccontarci di quell’incubo senza risveglio che è la quotidianità della popolazione afghana. «Negli ultimi tre anni la situazione è divenuta catastrofica. Gli Stati Uniti hanno consegnato il governo dell’Afghanistan a quegli stessi talebani che dicevano di star combattendo, e dei quali ora vogliono dipingere una versione più moderata». Ma non c’è nulla di moderato nelle politiche dei talebani, sempre più violenti – anzi – nei confronti della popolazione, specialmente femminile. Lo scorso mese di agosto, per fare un esempio, i talebani hanno imposto una nuova legge con la quale vietare alle donne di parlare in pubblico: solo una delle disumane regole, contrarie ai diritti umani, volute dal gruppo fondamentalista. «I talebani sono fondamentalisti. Sono cresciuti nelle madrase (scuole islamiche, ndr) afghane con la mentalità del terrorismo e della lotta alle donne». Donne alle quali, per fare un altro esempio, non permettono di studiare. Donne che oggi sono costrette a nascondersi per aver accesso all’istruzione. Donne che oggi, nella società afghana, hanno perso ogni diritto. Donne come Shakiba, che oggi si racconta, protetta dall’anonimato, mostrando al mondo che cosa significa, davvero, vivere in Afghanistan oggi. Sotto il regime dei talebani, in un Paese senza libertà.

La voce di RAWA

Con Shakiba ci troviamo negli stabili dell’USI: è qui per raccontare agli studenti – in un paio di corsi proposti dall’ateneo – la propria storia. Non è la prima volta che lo fa: da qualche mese, con il sostegno del CISDA (Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane), gira varie strutture fra Italia e Germania. Poi tornerà in Afghanistan, a combattere per i diritti delle donne e non solo. Lei fa parte di RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan): un’associazione «clandestina» – fondata nel 1977 da Meena Keshwar Kamal – che da più di quarant’anni è attiva in ambito politico, sociale e umanitario a sostegno di tutta la popolazione afghana. È per questo che a noi si presenta con uno pseudonimo, chiedendo di non essere fotografata in viso: «Se queste informazioni dovessero arrivare ai talebani, al mio ritorno sarei imprigionata».

La gente, oggi, conosce ancor meno la reale situazione dell’Afghanistan. I media non descrivono questo posto per quello che è davvero, parlano di turismo.

Shakiba ci racconta di RAWA: «I nostri obiettivi e le nostre idee si fondano su principi come la libertà, la democrazia e l’indipendenza, ma anche su un governo laico. Per queste ragioni, siamo sempre stati visti come “clandestini”, e siamo sempre sotto continua minaccia», ci racconta. Anche con Ashraf Ghani al potere, il presidente che fu poi rovesciato dai talebani, le donne di RAWA si sono opposte al governo e alle sue politiche «sbagliate». «Manifestavamo e alzavamo la voce attraverso i media, il nostro sito web e la nostra rivista. Siamo state noi a sensibilizzare l’opinione pubblica, mostrando la reale situazione dell’Afghanistan in quel periodo». Superficialmente, racconta, tutto sembrava andare bene. Ma anche prima della caduta di Kabul, la situazione in Afghanistan era tutt’altro che idilliaca. «Alle donne era permesso andare a scuola e lavorare. Ma l’Afghanistan stava già diventando un centro di terrorismo». Migliaia e migliaia le vittime di una guerra mai sopita, mentre i talebani crescevano sempre più forti, finanziati da un mercato illegale, quello dell’oppio, da loro controllato. Al momento della caduta di Kabul, l’80% della produzione mondiale di oppio mondiale passava dall’Afghanistan. «La gente, oggi, conosce ancor meno la reale situazione dell’Afghanistan. I media non descrivono questo posto per quello che è davvero, parlano di turismo».

Ed è qui che entra in gioco RAWA. «È nostro dovere parlare e fare pressioni sui governi in tutto il mondo, per non riconoscere il governo dei talebani, per non finanziarli e non sostenerli». Come? Attraverso i social media. Sì, la protesta e l’opposizione, a poco a poco, si è spostata soprattutto nel mondo virtuale. Prima, quando i talebani erano appena tornati al potere, Kabul era piena di persone in protesta, tra le quali molte donne. Alzavano la voce, si facevano sentire. Ma mese dopo mese, le piazze si sono svuotate. «Oggi sono pochi i gruppi che scendono ancora per le strade. Dopotutto, è risaputo: i talebani hanno il potere, e lo usano anche e soprattutto attraverso le armi, con cui disperdono le persone che manifestano». Se non sono pistole, racconta Shakiba, sono enormi cisterne d’acqua, rovesciate sui manifestanti. Ma c’è di molto peggio. «Protestare è molto pericoloso: le donne che manifestano spesso vengono imprigionate, torturate e violentate nelle carceri». Di qui lo sviluppo social: «Ormai, chi sceglie di manifestare lo fa attraverso i social media. È il modo più semplice, al momento, per far sentire la propria voce e per informare e sensibilizzare le persone, mostrando quella che è la reale situazione dell’Afghanistan». C’è chi scrive poesie, chi saggi. Chi rilascia dichiarazioni, chi propone slogan. Con la speranza che le proprie parole arrivino il più lontano possibile.

Abbiamo camuffato le nostre scuole, facciamo credere ai talebani che si tratti di madrase, quando in realtà ospitano corsi a domicilio per ragazze e donne

«Il lavaggio del cervello»

Fuori dal mondo social, però, la situazione è sempre più fuori controllo. «I talebani cercano di fare il lavaggio del cervello a tutti nelle madrase. Ce ne sono più di 17.000 in tutto il Paese e continuano ad aumentare, giorno dopo giorno. In ogni strada se ne trovano tre, quattro, cinque. Vogliono rendere i bambini di oggi futuri talebani e futuri terroristi. Non è un caso che le madrase siano uno dei pochi posti in cui anche le donne sono ammesse, senza alcun divieto». Se l’unico studio ammesso è quello religioso, come crescere la società che verrà? Chi guiderà il Paese senza competenze? «Tutto ciò è molto pericoloso per il futuro dell’Afghanistan. Per questo RAWA ha deciso di fondare scuole clandestine nelle quali insegniamo scienze e matematica, ma anche storia e materie sociali, o come usare un computer». Sono scuole segrete, dove si convive, ogni giorno, con la paura di essere scoperti. «Abbiamo camuffato le nostre scuole, facciamo credere ai talebani che si tratti di madrase, quando in realtà ospitano corsi a domicilio per ragazze e donne, alle quali non insegniamo solo materie scolastiche. Cerchiamo di sensibilizzarle anche sui loro diritti, sulle questioni sanitarie e di diverso genere che pensiamo siano importanti per loro. Facciamo il possibile per non farle vivere nell’ignoranza, sotto queste leggi medievali».

In tutto questo, le donne, però, non sono sole. «Le nostre opinioni sono incoraggiate da molte persone, perché la maggior parte del popolo è stufa del potere del fondamentalismo e non vuole più vivere sotto il controllo di un governo così selvaggio, criminale», confessa Shakiba. «È anche per questo che RAWA è attiva da più di quarant’anni: la gente è al nostro fianco. Le persone sono la ragione per cui siamo state in grado, per tutto questo tempo, di lottare e combattere».

Scappare è molto difficile. Spesso vengono utilizzate le vie del contrabbando, ma si tratta di viaggi estremamente rischiosi

Chi sceglie la fuga

Ma in Afghanistan, a non funzionare, non sono solamente i diritti umani. Quando a così ampie fette di popolazione non è consentito lavorare, portare tutti i giorni il cibo in tavola è, quantomeno, difficile. «Un altro grosso problema è quello della disoccupazione. La maggior parte delle persone ha perso il lavoro e oggi ci troviamo di fronte a una grande percentuale di disoccupati. Negli ultimi tre anni, i talebani hanno rimosso le persone dagli uffici governativi, mettendo a capo i loro uomini». Grandi percentuali della popolazione, insomma, vivono in povertà. Una condizione che mette le donne, specialmente le vedove, in una situazione di profonda crisi nella quale sfamare i propri figli è divenuta una lotta quotidiana.

Come non pensare, allora, alla fuga? Tre anni fa, quando gli americani se ne stavano andando, avevano sconvolto il mondo intero le immagini di afghani che, terrorizzati dal ritorno dei talebani, si aggrappavano ai carrelli degli aerei in procinto di lasciare il Paese. Alcuni, con la forza che solo la disperazione può dare, rimanevano avvinghiati finché i velivoli si sollevavano da terra: pochi secondi dopo, sconfitti dalla fisica, cadevano nel vuoto, verso la propria morte.

Oggi, la situazione non è molto diversa. Alcuni, ancora, provano a lasciare l’Afghanistan. Ma come? «Scappare è molto difficile. Spesso vengono utilizzate le vie del contrabbando, ma si tratta di viaggi estremamente rischiosi. Tanti giovani, soprattutto uomini, percorrono queste strade diretti verso il Pakistan, l’Iran, la Turchia e la Grecia, oppure verso i Paesi occidentali, con il solo scopo di trovare un posto sicuro dove vivere. Migliaia, però, perdono la vita nel tentativo di lasciare l’Afghanistan. In ottobre, più di 250 giovani afghani sono stati uccisi a colpi di pistola al confine tra Iran e Afghanistan». Andarsene, evidenzia Shakiba, non è solo rischioso: è anche costoso, e burocraticamente complesso. «Solo una piccolissima percentuale di persone riesce a ottenere un visto, spesso grazie all’aiuto di ONG o associazioni in cui magari si ha lavorato in passato. E poi ci sono Paesi che non concedono visti agli afghani, come la Turchia e l’India. L’unico modo per riuscire a scappare molte volte, è quindi il contrabbando. Ma questa, chiaramente, è una situazione molto pericolosa».

L’unica cosa che le persone, da ogni angolo del mondo, possono fare, è sensibilizzare l’opinione pubblica sulla reale situazione del nostro Paese, facendo pressione sui loro politici affinché non sostengano il governo dei talebani, non lo finanzino e non lo riconoscano

La solidarietà del popolo, l’indifferenza dei governi

In Afghanistan c’è amarezza per l’operato delle Nazioni Unite. Fra fine giugno e inizio luglio 2024 – ne avevamo parlato qui – i vertici ONU avevano convocato la terza conferenza di Doha (voluta per stabilire un approccio globale più coordinato e coerente sulla situazione in Afghanistan) piegandosi all’imposizione dei talebani, che quale condizione per la loro presenza chiedevano la rimozione dei diritti delle donne dalla lista dei temi trattati al summit. «A noi era ovvio fin dal primo giorno, fin da quel 15 agosto del 2021, che le Nazioni Unite stessero trattando con i talebani. Hanno consegnato loro il governo, senza alcuna lotta, senza alcuna resistenza», commenta amaramente Shakiba. «I documenti che l’ONU rilascia non servono a nulla. Bisogna fare dei passi concreti. Se l’obiettivo è davvero quello di aiutare il popolo afghano bisogna introdurre delle misure, e smettere di finanziare i talebani. Solo in questo modo la nostra situazione cambierà». Un resoconto pubblicato a inizio anno dal SIGAR (Office of the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction, organo del governo statunitense che si occupa di monitorare la ricostruzione dell’Afghanistan), mostra come i contanti statunitensi inviati a Kabul dall’ONU per sostenere le attività umanitarie nel Paese finiscano, spesso, sotto il controllo dei talebani, finanziandone le operazioni.

Quanto all’aiuto da parte degli Stati Uniti, Shakiba è disillusa. L’elezione di Trump come nuovo presidente, a suo dire, non cambierà le carte in tavola. «Per noi non cambierà nulla. Non importa se il presidente è una donna, un afrodiscendente, se è Donald Trump, Kamala Harris o Joe Biden. Chiunque salga al potere, negli Stati Uniti, deve seguire la stessa linea politica. E sebbene presidenti diversi possano prendere iniziative diverse per la propria nazione, la loro politica estera non cambia davvero». Nonostante da parte delle Nazioni Unite un aiuto concreto stenti ad arrivare, Shakiba riconosce le buone intenzioni del popolo, da tutto il mondo. «Quando pensiamo al sostegno che riceviamo, dividiamo sempre i governi dalla gente comune: i primi, a nostro avviso, si comportano in maniera crudele verso l’Afghanistan, mentre il popolo, che ama la libertà, è sempre stato accanto a noi». Anche se, chiaramente, con dei limiti. «L’unica cosa che le persone, da ogni angolo del mondo, possono fare, è sensibilizzare l’opinione pubblica sulla reale situazione del nostro Paese, facendo pressione sui loro politici affinché non sostengano il governo dei talebani, non lo finanzino e non lo riconoscano. I cittadini dei Paesi europei e occidentali possono solo alzare la voce e stare vicino al popolo afghano, senza dimenticarlo». Giorno dopo giorno, l’Afghanistan si sente infatti sempre più abbandonato. Messo da parte. Vittima di un’immagine, quella di un Paese in mano a talebani “moderati” che non corrisponde alla verità. La verità di un Paese senza libertà.

La Turchia non chiude all’attacco ai curdi: Siria ancora in bilico tra guerra e pace

Inside Over, 21 dicembre 2024, di Giuseppe Gagliano

Il  19 dicembre un portavoce del Ministero della Difesa turco ha smentito categoricamente la possibilità di un accordo di cessate il fuoco tra Ankara e le Syrian Democratic Forces (SDF), nonostante le dichiarazioni del Dipartimento di Stat

americano che annunciavano una tregua fino al 22 dicembre. Definendo l’annuncio di Washington un “lapsus”, il rappresentante turco ha ribadito che la Turchia non dialogherà con quelle che considera estensioni del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), classificato come organizzazione terroristica.

La tensione crescente tra la Turchia e le forze curde in Siria, sostenute dagli Stati Uniti, è parte di un conflitto più ampio che coinvolge anche le relazioni già fragili tra Ankara e Washington. Gli Stati Uniti, pur riconoscendo il PKK come organizzazione terroristica, continuano a collaborare con le SDF, il cui principale componente, le Unità di Protezione Popolare (YPG), è considerato dalla Turchia una minaccia esistenziale. Le forze sostenute da Ankara, tra cui l’Esercito Nazionale Siriano (SNA), hanno intensificato le operazioni lungo il confine per “liberare” le aree controllate dalle YPG.

Secondo fonti statunitensi riportate dal Wall Street Journal, un’importante concentrazione di truppe turche è stata osservata nei pressi di Kobani, città simbolo della resistenza curda, suggerendo l’imminenza di un’operazione transfrontaliera. Il dispiegamento include commandos, artiglieria e milizie alleate, in una manovra che richiama le operazioni militari turche precedenti. Le implicazioni di una nuova offensiva sono significative: oltre 200.000 civili curdi potrebbero essere sfollati, e le già vulnerabili comunità cristiane nella regione rischiano di essere travolte.

Ankara ha già lanciato tre operazioni militari in Siria dal 2016, con l’obiettivo dichiarato di impedire ai curdi di stabilire un’entità autonoma lungo il confine turco-siriano. Ora, con l’accumulo di truppe e l’intensificazione della retorica, sembra pronta a ripetere questo schema. Il portavoce turco ha dichiarato che “la lotta al terrorismo continuerà fino a quando il PKK/YPG non deporrà le armi e i combattenti stranieri non lasceranno la Siria”, senza fornire dettagli su eventuali nuove operazioni dirette.

La situazione ha attirato l’attenzione di un alto funzionario curdo, Ilham Ahmed, che ha inviato una lettera al presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, esortandolo a intervenire. Ahmed ha accusato Ankara di voler consolidare il controllo sui territori curdi prima dell’insediamento della nuova amministrazione americana, ricordando a Trump le sue precedenti promesse di proteggere le forze curde, definite “alleati fondamentali” nella lotta contro il terrorismo.

La prospettiva di una nuova offensiva turca rischia di destabilizzare ulteriormente una regione già fragile, minacciando gli sforzi internazionali per contenere il conflitto. Con Antony Blinken che non è riuscito a ottenere impegni concreti da Recep Tayyip Erdogan, e l’amministrazione Trump ancora in transizione, il futuro delle relazioni tra Turchia, Stati Uniti e SDF appare più incerto che mai. Nel frattempo, sul terreno, gli equilibri si spostano pericolosamente verso un’altra escalation, lasciando le popolazioni locali intrappolate in un conflitto senza fine.

DICHIARAZIONE DEL CONSIGLIO DELLE DONNE SIRIANE

22 dicembre 2024

DICHIARAZIONE DEL CONSIGLIO DELLE DONNE SIRIANE

Siamo donne che vivono in Siria, abbiamo vissuto per molti anni sotto le politiche nazionaliste e unilaterali del regime nazionalista baathista che non hanno riconosciuto la volontà delle donne. I popoli della Siria che si sono sollevati contro il crudele regime nel 2011 hanno subito la guerra, la migrazione, l’occupazione e la persecuzione dell’ISIS nei 13 anni successivi, periodo durante il quale le donne sono i soggetti che hanno sofferto di più.

Abbiamo lottato contro il regime baathista, contro l’ISIS, e anche contro tutte le forme di oppressione e di schiavitù. Abbiamo pagato un prezzo elevato, ma non abbiamo perso la speranza di vivere in una Siria libera e democratica. Siamo donne di tutte le etnie, religioni e culture, abbiamo fondato il Consiglio delle donne Siriane (Syrian Women’s Counsel),determinato a costruire un futuro libero per tutte le persone della Siria. Ora più che mai abbiamo la volontà e la determinazione di svolgere un ruolo di leadership più efficace in questo processo.

Gli sforzi per costruire un nuovo ordine in Siria dopo la caduta del regime baathistacontinuano. Questo percorso deve riconoscere la volontà delle donne a cui deve essere garantita rappresentanza equa e paritaria in quanto rappresentano più della metà della società siriana. Solo con la partecipazione paritaria delle donne e di tutti i gruppi religiosi, culturali ed etnici della Siria, potremo costruire il Paese democratico, giusto e sicuro che desideriamo.

In questi 13 anni, le donne del nord-est della Siria hanno lottato e si sono organizzate in tutti i settori della vita, ottenendo importanti conquiste. Hanno acquisito importanti competenze in politica, economia, autodifesa, giustizia e in molti altri campi. È ora che tutte le donne siriane beneficino delle conquiste fatte dalle donne in questa regione,ottenute con grandi sacrifici e alti costi, ed è quindi fondamentale difenderle. Una delle condizioni più importanti per la legittimazione a livello regionale e internazionale del nuovo sistema che si instaurerà in Siria è che sia garantito il ruolo delle donne nella creazione e nella gestione del nuovo sistema siriano.

La caduta del regime di Assad è stata un fattore positivo. Tuttavia, purtroppo, i crimini contro le donne a Idlib, Afrin, Jarablus, al-Bab, Serekani e Gire Spi – come le uccisioni, i rapimenti e la privazione dei diritti fondamentali – continuano. In questi luoghi, e ora anche a Minbij, i gruppi armati sostenuti dalla Turchia commettono crimini e proseguono conl’occupazione.

Oggi, mentre celebriamo la caduta del regime baathista, assistiamo anche a un allarmate aumento della violenza contro le donne e le minoranze religiose ed etniche – in particolare cristiane, alawite e druse – nelle regioni costiere e meridionali. Inoltre, continuano gli attacchi nel nord-est della Siria e i crimini efferati, come le brutali uccisioni e la decapitazione di donne, come è avvenuto a Tal Rifaat, da parte di fazioni armate sostenute dalla Turchia. Pertanto, al fine di prevenire queste violazioni e di porre fine alla paura e al pericolo che i nostri popoli stanno affrontando, chiediamo a tutte le forze politiche in Siria di lavorare per raggiungere i seguenti obiettivi.

I popoli siriani devono determinare il futuro della Siria.
Le norme internazionali e gli accordi di pace devono essere rispettati; fine della guerra e dei conflitti nella nostra regione e quindi chiusura dello spazio aereo siriano alle attività militari; cessazione di tutti gli attacchi sul territorio siriano e ritiro di tutti gli eserciti occupanti.
Rilascio immediato di tutte le donne ancora prigioniere nelle carceri dei gruppi armati a Idlib, Afrin, Jarabulus, al-Bab, Gire Spî (Tal Abyad) e Serekaniye (Ras al-Ain).
Istituzione di un comitato con la partecipazione attiva delle donne per garantire il ritorno sicuro dei rifugiati siriani sfollati e fine dell’occupazione del territorio siriano.
Garanzia di un’equa rappresentanza delle donne e delle organizzazioni delle donne di tutte le zone della Siria nella costruzione di un paese democratico e nel nuovo Comitato costituzionale.
Attuazione della Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite; adozione di misure per garantire la partecipazione delle donne ai processi di pace; misure per prevenire i conflitti e per prevenire la violenza contro le donne durante e dopo i conflitti; effettiva partecipazione delle donne nei processi decisionali, di attuazione e di responsabilità nell’adozione di queste misure.
Istituzione di una commissione per la verità e la giustizia che indaghi e persegua tutti i crimini contro le donne e i diritti umani.
Garanzia che le donne partecipino in maniera equa e libera a tutti i meccanismi decisionali e settori della politica, dell’istruzione, della scienza e dell’economia.
Riconoscimento giuridico del diritto delle donne all’autodifesa.
Piena attuazione e garanzia del rispetto dei diritti umani sanciti dalle convenzioni internazionali, come la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW). Garanzia dei diritti fondamentali e dei diritti sociali delle donne.
Istituzione di un comitato che lavori per includere la volontà delle donne nelle istituzioni pubbliche e politiche sulla base della pari rappresentanza.
Istituzione di comitati di giustizia per i bambini che hanno subito danni psicologici e fisici a causa della guerra e della violenza.
Istituzione di un comitato che indaghi sulla distruzione dell’ambiente, sui crimini ambientali e per perseguire i responsabili, tra le altre misure necessarie da adottare.

Consiglio delle Donne Siriane

Syrian Women’s Counsil

20.12.2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Emirato islamico afghano, il fantasma dell’infiltrazione

agoravox.it   Enrico Campofreda  17 dicembre 2024

La morte di kaka* Khalil, ministro dei Rifugiati presso l’Emirato Islamico dell’Afghanistan, è un colpo che il nipote Sirajuddin, a sua volta ministro dell’Interno fa fatica a digerire. Primo: per una ragione di casato. Haqqani è un nome che incute rispetto e terrore sia nelle focose province di provenienza (Khyber Pakhtunkhwa) e stanzialità (Waziristan), sia nella stessa Kabul conquistata sul campo dai suoi manipoli di fiducia prima d’insediarsi nei dicasteri. Secondo: per le modalità dell’eliminazione. L’attentato suicida era una specialità di famiglia ricercata e predicata da Jalaluddin, fratello della vittima e padre dell’attuale ministro dell’Interno. Dopo essere stato mujaheddin nella guerra antisovietica, sostenuto e premiato anche da Ronald Regan, ed essersi fatto le ossa nei sanguinosissimi anni di lotta fra Signori della Guerra, Haqqani senior già flirtava coi qaedisti ed era vicino a Osama bin Laden. Durante il primo Emirato talebano (1996-2001) aprì il suo gruppo, che prende il nome dalla storica madrasa del deobandismo Darool Uloom Haqqania, a una collaborazione coi taliban. Ma nella maggiore Shura, quella di Quetta, non erano ben visti, tanto che nella fase d’insurrezione contro l’Enduring Freedom  statunitense e la successiva Isaf Mission della Nato (2001-2014) gli Haqqani compivano azioni in proprio, tramite  attentati, suicidi o con auto-bomba. Ecco, dunque, il nervo scoperto dell’erede più illustre del jihadismo del clan, quel Sirajuddin che dal 2015 ha ricucito i rapporti con Quetta e col capo turbante dell’epoca Mohammad Mansur. Durato poco alla guida talebana, perché freddato da un drone americano mentre si spostava lungo l’asse del confine dell’Afgh-Pakistan, dove la protezione dell’Intelligence di Islamabad serviva più per armamenti e finanziamenti che per copertura bellica. Sirajuddin, invece, aveva protezioni migliori e con lui tutti i parenti prossimi, capaci d’autoprodurre vigilanza di terra, affidando quella dal cielo ad Allah. Comunque finora gli era andata benone, visto che dal 2017, quando nelle province afghane impazzava il confronto-scontro con l’Isil-Khorasan che insidiava i taliban per il controllo del territorio, di morti ammazzati ce n’erano un tot al giorno. In genere smembrati da esplosivo.

 La concorrenza dello Stato Islamico, che dal Daesh siro-iracheno trasferiva certa operatività più a Levante, si basava sul reclutamento dei  combattenti talib, pagati con la stessa moneta: petrodollari sauditi ed emiratini. L’arruolamento sembrò tramontare nei mesi della discesa verso Kabul nella primavera 2021. La vittoria talebana produceva migliori opportunità per chi si trovava in quelle file e più che per la quiete pandemica, la conflittualità fondamentalista interna all’Afghanistan appariva spenta nel primo anno di governo sotto la guida del mullah Akhunzada. Lo scorrere del tempo mostra il contrario. Soprattutto perché un certo reclutamento ideologico e dogmatico prosegue, spostando il proprio asse in territori già noti come il poroso confine afghano-pakistano, ma pesca nuove risorse nel separatismo beluco e nel fanatismo uzbeko. Attentati vari compiuti nell’ultimo biennio fra Turchia, Russia, Iran vedono in azione miliziani di quella provenienza geografica accorpati nei manipoli dell’Isis-K. Con l’uccisione di Khalil Rahman Haqqani, il nucleo storico del clan subisce un’inattesa scudisciata all’immagine e al peso tribale interno al regime talebano. Di cui il ministro Sirajuddin non riesce a garantire più un controllo securitario, come fosse un qualsiasi lacché del traballante esecutivo  Ghani. La deflagrazione avvenuta a pochi passi dall’obiettivo, senza che i guardiani avessero posto un filtro, potrebbe provenire da un elemento infiltrato nel sistema di sicurezza talebano, scorno ancora maggiore. Ma c’è pure l’ipotesi d’una faida di fazione. Lo zio Khalil, nonostante i trascorsi di rigidità dottrinaria, s’era impuntato contro le restrizioni governative all’istruzione femminile. Che nelle ultime settimane hanno tracimato anche sul fronte lavorativo, negando quelle poche mansioni concesse finora alle donne come l’assistenza sanitaria. Fosse appunto una faida, ancor più l’Isis-K potrebbe infilarsi nella faglia talebana, ampliata da contrasti di potere oltreché da dogmi.

* zio, usato anche come attributo di rispetto per uomini adulti

 

Imminente attacco turco alle città della Siria settentrionale – L’UE deve fermare Erdoğan

pressenza.com Bolzano, Göttingen Associazione per i Popoli Minacciati 17dicembre 2024

L’Associazione per i Popoli Minacciati (APM) chiede all’UE di impedire al sovrano turco Recep Tayyip Erdoğan di lanciare un grande attacco alle città settentrionali siriane di Kobani e Raqqa, che sono sotto il controllo delle Forze Democratiche Siriane (SDF) guidate dai curdi.

Nei suoi colloqui con il Presidente Erdoğan, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen deve fare tutto il possibile per impedire un attacco turco alle città di Kobani e Raqqa. Nelle ultime settimane circa 200.000 rifugiati hanno trovato rifugio nella regione controllata dai curdi intorno alle due città. In caso di nuova aggressione turca, essi e centinaia di migliaia di curdi, assiri/aramaici, armeni, cristiani, yazidi, aleviti e molti sunniti che rifiutano un regime islamista in Siria dovranno fuggire. Un attacco turco sarebbe una catastrofe umanitaria e la fine di un futuro pluralistico per la Siria. La città curda di Kobani è una città simbolo nella lotta contro l’IS. Raqqa, l’ex capitale dell’IS, è stata liberata dai curdi con grande sacrificio.

Anche l’IS sarebbe rafforzato dagli attacchi turchi. Inoltre, circa 11.000 membri dell’IS potrebbero evadere dalle prigioni nella regione del Rojava e raggiungere l’Europa attraverso la Turchia. Se i membri dell’IS evadono dalle prigioni nel nord della Siria e vengono in Europa, il rischio di attacchi islamisti aumenta anche qui, ad esempio nei mercatini di Natale. I politici, soprattutto in Germania, che non riconoscono questi pericoli e sostengono Erdoğan agiscono in modo irresponsabile e mettono in pericolo la vita delle persone.

L’APM critica l’invio di un diplomatico tedesco dell’UE in Siria. Per anni abbiamo chiesto alla Germania e all’UE di fornire aiuti umanitari ai curdi che combattono contro l’IS nel nord della Siria. La richiesta è stata respinta perché il PKK curdo è classificato come organizzazione terroristica dalla Turchia e dai suoi sostenitori. La Germania e l’UE considerano l’SDF vicina al PKK. Il fatto che l’islamista HTS, che ora controlla gran parte della Siria, sia sulla lista dei terroristi delle Nazioni Unite non sembra invece essere un problema.