Internazionale - 13.6.2014
Il candidato alla presidenza Abdullah Abdullah dopo un discorso elettorale a Kabul il 9 giugno.
Dopo un lungo dibattito e pesanti accuse di brogli elettorali, il 15 maggio i due principali candidati alla presidenza dell’Afghanistan - Abdullah Abdullah e Ashraf Ghani - hanno accettato il risultato del primo turno, in cui Abdullah ha preso il 45 per cento dei voti e Ghani il 31,5 per cento.
Gli afgani torneranno alle urne per il ballottaggio il 14 giugno. I risultati definitivi arriveranno alla fine del mese e il nuovo presidente s’insedierà entro il 2 agosto.
Ecco chi sono i due candidati:
Abdullah Abdullah è nato nel 1960 da madre tagica e padre pashtun. Ha ottenuto il 45 per cento dei voti al primo turno ed è il favorito al ballottaggio. È stato ministro degli esteri nel primo governo guidato da Hamid Karzai.
Nel 2009 ha sfidato il presidente uscente ritirandosi, però, prima del secondo turno. Era molto legato ad Ahmad Shah Massoud, figura centrale della resistenza all’occupazione sovietica e al regime taliban.
Ashraf Ghani è nato nel 1949 e ha studiato negli Stati Uniti. Ha lavorato per la Banca mondiale ed è stato ministro dell’economia dopo la caduta del regime taliban nel 2001. Ha incentrato la sua campagna elettorale sulla lotta contro la povertà.
Dal blog di Enrico Campofreda - 7.6.2014
A poco più di una settimana dall’avvio del ballottaggio per la presidenza afghana Adbullah Abdullah, il candidato favorito che nei preliminari ha ottenuto più voti (45%) e che raccoglie la maggior parte degli alleati politici (soprattutto signori della guerra) è stato oggetto di un attentato in cui sono decedute sei persone e ventidue sono rimaste ferite nella località di Mirwais Khan.
Inizialmente si pensava a vittime nel suo entourage ma sia Abdullah sia la scorta sono rimasti illesi. Secondo lanci d’agenzia testimoni oculari parlano di due esplosioni succedutesi a breve distanza con l’impressione di attacchi suicidi. La polizia indaga e forse per questo l’incertezza resta.
Il presidente uscente Karzai e l’altro candidato alla carica di Capo della Repubblica Islamica Ghani hanno condannato l’attentato quale “intimidazione per il consolidamento della democrazia nel Paese di cui le elezioni sono un importante passo“.
Qualcuno vuol far fuori Abdullah? Non è escluso. Ma la sequenza di ipotesi è articolata e destinata a restare irrisolta. La componente talebana che più d’un anno fa voleva porsi in concreta alternativa alla presidenza Karzai, aprendo un proprio ufficio in Qatar (peraltro tollerato dalla politica statunitense) può voler sostenere la linea del boicottaggio elettorale fino alle estreme conseguenze di assassinare il personaggio più accreditato.
INTERNAZIONALE - 4 giugno 2014
La notizia del rilascio era stata data da Barack Obama alla famiglia Bergdahl e poi alla nazione, ma la gestione della liberazione ha suscitato molte critiche, sia all’interno dell’amministrazione sia tra i repubblicani, per la scelta di negoziare con i taliban: una trattativa durata molti mesi a cui avrebbe partecipato anche il Qatar.
La cattura di Bergdahl, avvenuta nel 2009 a Yahya Khel, nel sudest del paese, è sempre stata un mistero. All’epoca il sergente aveva 23 anni e secondo la ricostruzione ufficiale è stato rapito dopo che aveva lasciato volontariamente la base.
Il sergente sarebbe stato in mano del gruppo Haqqani, una fazione taliban nota per la linea dura e sarebbe stato portato oltre la frontiera pachistana. Ora è ricoverato in un ospedale militare in Germania ma su di lui pende il rischio di un procedimento per diserzione davanti alla corte marziale.
Ad alimentare le polemiche aveva contribuito anche la diffusione di alcune dichiarazioni del padre di Bergdahl, Robert, sui social network. Tre giorni prima della liberazione del figlio, aveva twittato: “Lavoro per la liberazione di tutti i prigionieri di Guantanamo. Dio ripagherà la morte di ogni bambino afgano. Amen”. Il tweet è stato cancellato, ma secondo il New York Daily News era diretto all’account Twitter del jihad afgano.
Bob Bergdahl durante una conferenza stampa nella base militare di Boise, nell’Idaho, il 1 giugno 2014. (Brian Losness, Reuters/Contrasto)
Alla conferenza stampa che si è tenuta alla Casa Bianca, Robert Bergdahl si è presentato con la lunga barba che non si tagliava dal giorno del rapimento del figlio e ha pronunciato qualche parola in pashtun e in arabo. Un pastore della sua chiesa ha spiegato che l’uomo è anche diventato un attivista pacifista.
Blog di Cristiana Cella (attivista CISDA), 3/6/2014
Da noi la campagna elettorale è finalmente finita. In Afghanistan, dove il 14 giugno si svolgerà il ballottaggio per le presidenziali, continua il suo tumultuoso corso. Anche qui non mancano i confronti in tv. Selay Ghaffar, una delle voci democratiche più forti del paese, ex direttrice di Hawca, (Ong con la quale l’Unità porta avanti il progetto ‘Vite Preziose’), affronta in una tavola rotonda, come portavoce del Partito della Solidarietà, l’unico davvero laico e democratico del paese, tre esponenti di Hezb-e-Islami, uno dei più violenti gruppi estremisti islamici, vicino ai talebani e attualmente alleato di Abdullah, uno dei due candidati.
I tre uomini, due inturbantati e uno in giacca occidentale, rimangono impassibili, senza muovere un muscolo, per tutto il focoso intervento di Selay. Snocciola, con implacabile calma, tutti i numerosi crimini di guerra contro la popolazione afghana, commessi nel passato e nel presente, dalla guerra civile tra mujahiddin a oggi, dal loro partito e dal loro capo, Hekmatiar Goulbudine.
Sotto il diluvio di accuse, le tre facce di pietra cominciano a innervosirsi. Il primo a rispondere parla, voltando ostentatamente le spalle a Selay, e si rivolge al conduttore, in impeccabile giacca e cravatta, noto simbolo della democrazia.
Non la guarda mai in faccia. Selay incalza e, finalmente, il tipo si gira. Il confronto sale di tono come le voci e le mani che gesticolano. Selay non demorde.
Arrivano i rinforzi degli altri due, evidentemente sempre più alterati. Dei fischi coprono le battute inascoltabili ma ne abbiamo la traduzione: ‘Sei una puttana’, ‘promuovi nel paese prostituzione e omosessualità’ fino alle minacce aperte: ‘Abbiamo già ucciso persone a te vicine e presto ti ammazzeremo come loro!’.
E le minacce, da queste parti, non sono solo parole. Partecipare a confronti televisivi, in Afghanistan, significa avere un coraggio da leoni. Cosa che non manca affatto alle donne afghane, soprattutto a Selay. Il primo turno delle elezioni afghane è stato raccontato in occidente come il trionfo della democrazia. Ma le elezioni, come garanzia di democrazia, non bastano.
Il Manifesto - 30 maggio 2014, Maria Grosso
Incontri. «No burqas behind bars», Nima Sarvestani regista iraniano residente in Svezia, racconta il suo film.
Barriera su barriera. Lo sguardo che sbatte contro il reticolato fitto di stoffa del burqa e ancora contro quello metallico della grata del furgoncino che le traduce in carcere. Al campo, prigione di Takhar, Afghanistan, le aspettano le altre: tra casupole e stanze condivise, un cortile pullulante di figli scalzi, di fili intrecciati di panni stesi, di bacinelle per lavare, una sezione femminile (40 unità), una maschile (500).
Eppure questa soggettiva obsoleta e costringente, confine fra il nulla e il deserto, può essere percepita paradossalmente come oasi di libertà e di quiete (dove è persino possibile liberarsi del burqa), in un Paese in cui se una donna fugge di casa per sottrarsi a un matrimonio forzato e/o a un marito violento, la legge, invece di supportarla, la considera colpevole di «crimine morale», punibile con pene fino a 15 - 16 anni.
In questi meandri devastati di realtà si è inoltrato Nima Sarvestani, regista iraniano residente in Svezia che ha accolto le storie di Sima e Najibeh, entrambe spose a soli dieci anni (il marito violento della prima continua a picchiarla durante le visite in carcere, la seconda lotta per non essere costretta a vendere il figlio, cui riesce a stento a procurare il latte), o di Sara, la presenza più consapevole - talvolta narratrice dei tracciati delle altre - che ha rifiutato un matrimonio combinato ed è fuggita con un uomo ora recluso nella sezione accanto, ma che pure non riesce a immaginarsi un futuro al di là della speranza che lui la sposi e la sottragga all’ira dei suoi, pronti a ucciderla. Tra spirali di filo spinato e frammenti di cielo, No burqas behind bars le segue nella loro battaglia quotidiana.
«Sono di origini iraniane. Il mio paese e l’Afghanistan hanno molte affinità, non solo linguistiche. Così seguo da tempo quanto avviene lì, sin da quando il potere era nelle mani dei talebani» racconta Nima Sarvestani.
Infatti non è la prima volta che gira in Afghanistan.
Nel 2008, a Mazare-Sharif, ho realizzato un altro documentario in una Safe House, un luogo dove le donne che fuggono dalla violenza trovano rifugio. È stato il primo contatto, due anni di lavoro che mi hanno fatto comprendere come coloro che riescono ad avere accesso a queste case siano le più fortunate, perché molte vengono arrestate prima che ciò avvenga. Da questa esperienza si è fatto strada il desiderio di continuare a indagare i «crimini morali» e le loro conseguenze, ed è nato questo film nel carcere di Takhar.
Enrico Campofreda, 28 maggio 2014 - Blog
L’annuncio di posticipare il ritiro giunge bucolico nel ‘giardino delle rose’ della Casa Bianca da dove il presidente Obama riferisce che il rientro dei 32.000 militari statunitensi tuttora in Afghanistan sarà proiettato per l’anno in corso, il prossimo e terminerà a fine 2016.
Ma non sarà totale, sul territorio resteranno circa diecimila militari concentrati, come si sa da tempo, nelle basi aeree per la guerra coi droni già in corso da almeno un biennio. Un graduale e certamente non totale distacco, poiché quel territorio continua a rappresentare un’area d’interesse strategico, militare ed economico (con le risorse del sottosuolo) che attira le attenzioni e concentra le tensioni di vari Paesi e di colossi che guardano avidamente l’intera regione.
L’impero Usa è ovviamente in prima fila. Non si scatena un’occupazione pluridecennale, mascherandola per liberazione, per poi mollarla. Sebbene alcuni graduati che contano, e vogliono mantenere l’anonimato, hanno dichiarato al NYT che nessuna componente politica e militare statunitense ha sottoscritto un ruolo di gendarme afghano ad libitum, c’è il compatto fronte repubblicano che lancia l’allarme di non mollare e non ripetere l’errore iracheno della ritirata frettolosa e inopportuna.
Nell’affermazione in perfetto stile bushano di Obama: “Gli americani hanno imparato come sia più doloroso abbandonare una guerra che iniziarla” appare una lampante verità riguardante il business della propria industria bellica che ha rafforzato se stessa e la nazione puntando sui conflitti, direttamente vissuti o indirettamente sostenuti.
Ciò nonostante nella riduzione delle truppe (giunte sino a 101.000 unità agli inizi del 2011, cui dati non riscontrabili perché segreti aggiungono anche svariate migliaia di contractors e agenti della Cia) pesano l’impasse militare contro l’insorgenza e anche i costi vivi. Nel 2010, l’anno terribile della missione Isaf per numero di morti e attacchi subìti con ordigni improvvisati, l’Us Army e le forze Nato ebbero drammatici riscontri tattici perdendo in agguati, azioni e attacchi diretti contro talebani e insorgenti ben 711 soldati (497 statunitensi). Un americano che veste la divisa ed è in missione in terra afghana costa alle casse confederali 15.000 dollari al mese; un afghano che lo sostituisce, pur se con minore efficienza e coerenza repressiva, ne costa solo 500.
Yahoo! Notizie - Italia, 27 maggio 2014
New York, 27 mag. (TMNews)
"Entrambi i candidati alla presidenza afghana hanno annunciato che firmeranno il trattato di sicurezza con gli Stati Uniti". Lo ha detto il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, annunciando la nuova strategia in Afghanistan, dopo aver visitato il Paese nel fine settimana. Obama - parlando dal Rose Garden della Casa Bianca - ha poi ricordato che "il futuro dell'Afghanistan deve essere determinato dai suoi cittadini" e che gli Stati Uniti daranno una chance alla popolazione affinché questo avvenga.
"Domani andrò a West Point per parlare con i militari americani del futuro" ha continuato Obama aggiungendo che gli Stati Uniti devono continuare a mantenere una leadership mondiale ma in un modo diverso rispetto al passato. Parlando della transizione delle truppe il presidente ha detto che sono "passate da un picco di 100.000 a le 32.00" presenti oggi sul territorio.
(ASCA) - Roma, 27 mag 2014
La consistenza del contingente militare italiano sta diminuendo in Afghanistan ''assicurando comunque un'alta valenza in termini qualitativi. La presenza media del nostro personale, come stabilita' dal Decreto missioni relativo al primo semestre 2014, si attesta sulle 2.250 unita'''. Lo ha comunicato il ministro della Difesa, Roberta Pinotti nel corso delle comunicazioni del Governo alle Commissioni Difesa di Camera e Senato sulle missioni italiane all'estero.
Il responsabile della Difesa ha poi fatto notare come ''la misura del successo della missione internazionale, ormai ultradecennale, non dipendera' da come lasceremo questo Paese alla fine di questo anno, quanto piuttosto ha detto - da come riusciremo a evitare futuri regressi rispetto ai risultati finora raggiunti sul piano della sicurezza, dello sviluppo economico e di quello sociale, in particolare in termini di rispetto dei diritti umani e di tutela delle donne e dei bambini''.
La Pinotti ha poi aggiunto che sono proprio le ''fasce sociali meno protette'' quelle che hanno vissuto il ''piu' straordinario miglioramento della loro condizione'', dal 2001 ad oggi. Ma ''sono proprio loro - ha fatto rilevare - ad essere maggiormente a rischio nel caso in cui un eventuale accordo di riconciliazione nazionale con la galassia talebana dovesse essere pagato a loro danno, come molta parte della societa' civile afgana teme''.
*[Ci sembra significativo pubblicare le due notizie di seguito per poterle mettere a confronto]
Enrico Campofreda - 27 maggio 2014 - Blog
I rivoluzionari afghani osservano la parata elettorale. Loro sono fuori dalla corsa fin dalla presentazione dei candidati, un po’ per scelta e soprattutto per emarginazione: ricevono l’ostilità e le minacce di signori della guerra presenti nelle istituzioni; sono tenuti fuori gioco dal grande sponsor di queste elezioni - la politica statunitense - che essi accusano di sfruttamento e abuso d’una nazione sovrana; vengono ostacolati dalla burocrazia del presidente uscente che non hanno mai esitato a definire fantoccio.
Seppure minoritari questi uomini e queste donne sono inseriti in molti gangli del territorio e un’attivista di lungo corso come Malalai Joya può togliersi più d’un sassolino dalla scarpa parlando delle presidenziali.
Chi dopo l’espulsione dalla Loya Jirga la voleva morta, e ha attentato alla sua esistenza, ne ha solo accresciuto impegno e determinazione. Malalai nel pieno della maturità di politica e di donna prosegue il percorso di lotta e denuncia e non si fa sfuggire l’occasione per dire la sua sul quadro offerto dalla sfida presidenziale.
Un pensiero fatto circolare sul web con parole e immagini registrate perché nessuna delle pur numerose emittenti afghane è disposta a rischiare ritorsioni per ospitarla. Non c’è piazza o sala dove la sua vita sia sicura, dopo la scoperta due anni or sono d’un piano per ucciderla durante un intervento pubblico in un edificio pur controllato dalle proprie guardie del corpo.
Redazione di Giornalettismo - 20/05/2014
La CIA ha promesso che non sfrutterà mai più le campagne d’immunizzazione per i suoi scopi, fosse pure dare la caccia ai più temibili terroristi. La notizia di questa attività ha provocato l’insorgere di violente ostilità alle vaccinazioni in diversi paesi del mondo.
LA CIA LI SPIA - L’idea aveva un senso, cercare Osama Bin Laden usando come investigatori le pattuglie di vaccinatori che percorrono città e villaggi tra Pakistan e Afghanistan, raccogliendo campioni di DNA per rintracciare non solo lui, ma anche la presenza di DNA parenti di quelli dei ricercati.
Tentativo andato a vuoto, il dottore che la CIA aveva arruolato per dare la caccia a Osama è stato condannato a 23 anni dalla giustizia pachistana. Tre anni fa l’espediente è diventato di pubblico dominio e come risultato i più talebani tra i talebani in giro per il mondo, dalla Nigeria a diverse zone dell’Asia, hanno cominciato a denunciare la presenza dei vaccinatori come quella di spie e a non volerli dalle loro parti.
Enrico Campofreda - 20 maggio 2014 - Blog
I volti seriosi e poi minacciosi degli esponenti del partito Hezb-i Islami di Gulbuddin Hekmatyar - uno dei più efferati signori della guerra afghani - presenti a una tavola rotonda organizzata dalla locale Khurdish Tv non gradivano affatto d’incrociare sguardo e parole di Selay Ghaffar.
Lei è presidente di Hawca (Humanitarian Assistance for the Women and Children of Afghanistan) una struttura di sostegno per le donne afghane, e lì rappresentava l’Hambastagi Party. Il dibattito è stato registrato in lingua originale, privo di sottotitoli, ma dalla semplice analisi mimica, dall’intercalare degli interventi, dalla passione e dalla foga s’intuisce come il confronto sia stato a dir poco serrato.
Una breve nota a margine dell’ufficio informazione del partito della Solidarietà sottolinea che agli incalzanti riferimenti del passato sanguinario che ha caratterizzato i miliziani dell’Hezb-i Islami, alla denuncia di abusi e violenze che li contraddistingue offerti in diretta da Selay, la risposta è stata una sequela d’insulti. I concetti più gentili dicevano: “passi la notte con altri uomini e ora sei seduta a questa tavola rotonda”, e “sei una prostituta tajika o uzbeka” e ancora “stai promuovendo in Afghanistan prostituzione e omosessualità” fino all’intimidazione diretta “abbiamo ucciso persone a te vicine e presto ti ammazzeremo come loro”.
All'attivista non sono mancati argomenti e determinazione per contrastarli. Il tutto al cospetto d’un moderatore in giacca e cravatta che propone l’immagine della normalizzazione del Paese.
Rawa News - FoxNews.com - 18 maggio 2014
Ufficiali hanno dichiarato al Wall Street Journal che ciò fa parte di una strategia di mandare soldati semplici di fanteria al fronte per ridurre le perdite di Hezbollah e membri delle Guardie.
L'Iran sta reclutando rifugiati afgani per combattere in Siria. offrendo 500$ ed il permesso di soggiorno in Iran per aiutare a combattere le forze ribelli, così scrive il Wall Street Journal.
Dettagli del reclutamento da parte del corpo delle Guardie della Rivoluzione sono state postate questa settimana su un blog di rifugiati afgani che vivono in Iran e confermate al giornale da afgani e ufficiali occidentali.
"Gli viene dato tutto: dal salario al permesso di soggiorno" ha dichiarato un amministratore all'ufficio del Grande Ayatollah Mohaghegh Kabuli, un leader religioso afgano nella città santa di Qom.
dal blog di enrico Campofreda, 14 maggio 2014
Della duplice frana che ha seppellito vari villaggi del distretto di Argo in Badakhshan (provincia afghana di 900.000 abitanti, incastrata fra il Tajikistan a nord e il Pakistan a sud-est e confinante anche con un lembo di Cina) cominciano a interessarsi alcune Ong internazionali che inviano soccorsi, e addirittura il governo di Kabul.
Questo col presidente uscente Karzai promette aiuti alla popolazione, ma dopo dodici giorni dal disastro ben poco si muove. Accanto al solidale manipolo del Partito Hambastagi, di cui abbiamo dato notizia, sono le strutture di volontariato internazionale ad attuare i primi interventi.
Da un network che monitora il Paese apprendiamo che l’area interessata è a nove ore di auto dal capoluogo Fayzabad e, catastrofi a parte, sta subendo un rapido spopolamento: dati raccolti nel 2007 contavano 100.000 abitanti (90% uzbeki, 10% tajiki) ridottisi l’anno scorso a 76.000.
Il trasferimento è in buona parte locale, verso Argo e centri meno impervi, dove l’attività agricola può essere realizzata con minori difficoltà. Negli anni Novanta la produzione era incentrata sul papavero da oppio, e il partito Hezb-e Islami ne faceva una sua diretta area di controllo.
PL - 15 maggio 2014 - Misna
L’ex ministro degli esteri Abdullah Abdullah, che al primo turno ha ottenuto il 45% dei voti, e l’economista della Banca Mondiale ed ex ministro delle Finanze, Asharf Ghani, forte del 31,6% delle preferenze, si sfideranno nel ballottaggio delle elezioni presidenziali che si terrà il 14 giugno. L’annuncio ufficiale dei risultati è stato dato oggi a Kabul da Yousuf Nuristani, presidente della Commissione elettorale indipendente (Iec).
Nelle elezioni del 5 aprile si sono recati alle urne 6.604.546 elettori, di cui il 64% uomini e il 36% donne. Nuristani ha collegato il ritardo nell’annuncio dei risultati a problemi legati alla fornitura di schede in 58 distretti elettorali mentre in 918 seggi elettorali i voti sono stati annullati. Il presidente della Commissione elettorale ha inoltre detto che circa 3000 operatori elettorali e altri funzionari del governo sarebbero stati coinvolti in brogli e, se trovati colpevoli, si avvierà il procedimento penale.
dal blog di Cristiana Cella su L'Unità - 9 maggio 2014
Nell’assordante clamore dei nostri eventi nazionali, le voci del resto del mondo sono raramente ascoltate. Anche quelle che gridano allarmi. Si preferisce accontentarsi di silenzio e propaganda e concentrarsi sui fatti che ci toccano da vicino. Ma anche il silenzio può essere violenza.
Ogni tanto, alcune tragedie riescono a farsi strada nell’indifferenza. Lo è stato per la coraggiosa Malala, colpita dai talebani, due anni fa, per la sua battaglia di libertà, lo è oggi per le 276 ragazzine rapite in Nigeria, vendute per 12 dollari, destinate allo stupro e alla violenza perché volevano studiare.
La scuola, nella quale sono state rapite, era già stata chiusa in febbraio, per le minacce di Boko Haram e riaperta solo per gli esami finali delle ragazze. Il governo nigeriano non ha fatto nulla per proteggere la loro vita e il loro diritto allo studio. Speriamo che la mobilitazione mondiale riesca a salvarle e a mantenere viva l’attenzione su tragedie come questa, che non sono, purtroppo, sole. L’attacco ai diritti e alla vita delle donne, per mano del fondamentalismo islamico, della brutalità maschile o della guerra, non ha confini e dilaga nell’impunità.
L’ultimo rapporto dell’ONU, presentato il 25 aprile, denuncia l’uso sistematico della violenza sessuale come arma di guerra. Un’arma devastante, a costo zero. Una pratica comune in 21 nazioni, di tutti i continenti. ‘Questo grave abuso contro i diritti umani è distruttivo come una bomba.’ Ha detto Ban Ki- moon. Un ‘crimine globale’ lo ha definito Zainab Hawa Bangura, rappresentante speciale ONU sulla violenza sessuale nei conflitti, ‘ che mina la prospettiva della pace e dello sviluppo e getta una lunga ombra sulla nostra collettiva umanità.’
dal blog di Enrico Campofreda - 11 maggio 2014
Un altro Afghanistan che non attira i media mainstream fa seguire le parole ai fatti, dalle sigle di partito a quello che l’organizzazione politica realizza con programmi e attivisti.
Così Hambastagi Party (Partito della Solidarietà) l’aiuto concreto lo sta portando nella provincia di Badakhshan sconvolta nei primi di maggio da inondazioni e frane seguìte a piogge torrenziali. Rovesci improvvisi e abbondantissimi sono cresciuti sino a diventare tempeste, quindi hanno provocato rovinosi smottamenti del terreno che hanno stravolto villaggi provocando più di 300 vittime.
Da giorni un’unità operativa di Hambastagi formata da venti persone e guidata dal dottor Daud Razmak, che è anche presidente della formazione politica, sta offrendo sostegno sanitario e alimentare nella zona. Risulta essere l’unico gruppo: né il governo né associazioni umanitarie si sono finora rese disponibili a curare superstiti e feriti e sostenere popolazioni stremate da fame e moria di bestie.
Intanto il maltempo s’è spostato verso l’area di Balkh e la sta affliggendo. I danni alle già limitate vie di comunicazione risultano evidenti e i collegamenti stradali da nord a sud, come la strada di collegamento veloce da Mazar-e Sharif a Kabul risultano problematici e interrotti. Chi non può fare a meno di spostarsi deve farlo via cielo con speculazioni da parte della compagnìa aerea che sta facendo lievitare i prezzi dei biglietti dai normali 90 dollari al suo doppio (172 dollari).
Il Journal - 11.5.2014
Abdullah Abdullah è in vantaggio, ma i risultati non sono ufficiali. Intanto, in vista del ballottaggio, ha ottenuto un importante appoggio.
In attesa dei risultati ufficiali del primo turno, le elezioni in Afghanistan vivono un momento di svolta. Il favorito al ballottaggio, l’ex ministro degli Esteri Abdullah Abdullah, ha incassato il sostegno di Zalmai Rassoul, l’uomo scelto da Hamid Karzai come suo erede ma che non è andato oltre l’11,5% (stando all’esito ufficioso).
Abdullah Abdullah, al termine dello scrutinio, si è fermato al 44,9% dei voti, troppo lontano dal 50% richiesto al primo turno delle Presidenziali. L’avversario Ashraf Ghani, ex economista della Banca Mondiale, ha conseguito il 31,5% dei consensi, tenendosi ampiamente in gioco. Appare evidente che proprio il tema delle alleanze sarà fondamentale nel secondo turno elettorale.
Rassoul, con il 10%, è di fatto diventato il vero ago della bilancia, in particolare con l’appoggio fornito al candidato già in vantaggio: da un punto di vista matematica il conto è facile: Abdullah ha già in tasca il 55% dei voti, sommando quelli personali agli altri portati in dote dal fedelissimo di Karzai. Il presidente uscente, insomma, riuscirebbe a conservare una porzione di potere, essendo decisivo nella contesa seppur per interposta persona.
Blitzquotidiano - 9.5.2014
AFGHANISTAN, KABUL – Con due settimane di ritardo sul previsto, e noncuranti del ritiro in corso delle truppe internazionali dall’Afghanistan, i talebani hanno annunciato che anche quest’anno sferreranno una Offensiva di Primavera in grande stile, “contro gli invasori stranieri” e “contro i loro pagliacci mercenari interni”.
In un comunicato in quattro lingue (inglese, persiano, pashtun e urdu) firmato dal Consiglio della leadership dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, gli insorti hanno precisato che l’offensiva, denominata ‘Khaibar’, “comincerà il 12 maggio alle 5, al grido di ‘Allah u Akbar’ (Allah è il più grande)”.
L’annuncio non ha colto di sorpresa le autorità afghane, ma la possibile intensificazione degli attacchi quando il Paese sarà impegnato nel ballottaggio per scegliere il successore del presidente Hamid Karzai, accresce di molto l’allarme sicurezza. I talebani hanno spiegato di avere scelto il nome ‘Khaibar’ per il 2014 in riferimento ad una famosa battaglia avviata da Maometto “nel settimo anno della migrazione (7th Hijri Lunar) contro i nemici dell’Islam che terminò con la conquista di castelli e basi fortificate e la fuga degli infedeli”.
Lettera 35 - 6.5.2014
Secondo l'Oms è in corso una pericolosa recrudescenza del virus, a rischio anche Siria e Camerun
Cinque nuovi casi di poliomielite nel nordovest del Pakistan, quattro dei quali registrati nella regione tribale del Waziristan del Nord e uno nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa. Dall’inizio dell’anno sono almeno 58 i bambini pakistani colpiti dal virus. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, la città di Peshawar, che si trova nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa, è il principale “serbatoio” nel mondo del virus della polio.
Il Pakistan, dove nel 2013 sono stati registrati 91 casi di poliomielite, insieme all’Afghanistan e la Nigeria, è uno dei tre paesi al mondo in cui la malattia non è ancora stata debellata. L’attuale diffusione della poliomielite, in 10 paesi tra Africa, Asia e Medioriente, costituisce un evento straordinario e un rischio per la salute pubblica, che, secondo il Comitato d’emergenza dell’Oms, richiede una risposta internazionale coordinata.
Blog - Enrico Campofreda - 8.5.2014
Mille persone in corteo a Kabul, sul viale che un tempo veniva definito del Primo Maggio, è una notizia che la stampa occidentale ha glissato.
Così anche i media che s’interessano dello scontro presidenziale fra Abdullah e Ghani oppure ai disastri naturali come le inondazioni e i periodici agguati talebani. Silenzio.
Le informazioni che scompaiono riguardano sempre i derelitti o le faccende scomode, come i raid di aerei e droni autori dei “danni collaterali” ovvero l’uccisione di civili.
Ogni tanto questi “danni” appaiono sui report dell’Us Army e pochi media li divulgano. In quel corteo del 1° maggio hanno sfilato pure ragazzi e qualche bambino, colleghi e superstiti dell’ennesima strage sul lavoro che s’era verificata proprio alla vigilia della festa dei lavoratori.
Giovani che dovrebbero studiare e invece finiscono in miniera per sostenere economicamente famiglie sempre più povere.
Purtroppo non si tratta di un’eccezione nel panorama lavorativo orientale e il travagliato Afghanistan s’adegua anche ora che tutti parlano di futuro e sviluppo dell’economia.
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