Mentre l’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) nel suo Report di novembre 2024 – di cui una sintesi nell’articolo – segnala i notevoli impedimenti e le restrizioni che i funzionari talebani pongono alle operazioni umanitarie dell’Onu, fonti interne a questo ente hanno comunicato ad AMU TV che il Dipartimento vizi e virtù di Herat ha ordinato ai dipendenti maschi delle Nazioni Unite di astenersi dal presentarsi al lavoro senza barba, pena la reclusione
L’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) ha segnalato che nel mese di novembre di quest’anno sono state registrate 164 interruzioni degli aiuti in Afghanistan, con un aumento del 56% rispetto al mese precedente.
L’OCHA ha aggiunto che il 99% di questi interventi è stato attuato da funzionari talebani.
Mercoledì (18 dicembre) l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento dell’assistenza umanitaria (OCHA) ha pubblicato un nuovo rapporto sugli ostacoli all’accesso umanitario in Afghanistan a novembre.
Il rapporto afferma che le restrizioni di accesso hanno portato alla sospensione temporanea di 72 progetti umanitari e alla chiusura definitiva di due progetti, mentre anche un centro umanitario è stato temporaneamente chiuso durante questo periodo.
L’OCHA ha aggiunto che questi incidenti si sono verificati principalmente nelle regioni meridionali, centrali e occidentali. Le statistiche mostrano che questi casi sono aumentati del 56% rispetto al mese precedente e dell’11% rispetto allo stesso periodo del 2023.
Secondo il rapporto, durante questo periodo sono stati registrati casi di interruzione di interventi pianificati, richieste di un elenco di dipendenti e di informazioni sensibili, interferenze nel processo di reclutamento, restrizioni alla copertura delle dipendenti e impedimento alle donne di accedere ai servizi.
Il rapporto mostra inoltre che la violenza contro il personale, le proprietà e le strutture umanitarie è aumentata del 37%, con sei membri dello staff arrestati, due casi di violenza fisica e quattro casi di minacce segnalati il mese scorso.
L’ONU ha aggiunto che queste restrizioni sono state di ostacolo alla fornitura di aiuti umanitari.
Già in precedenza erano circolate segnalazioni di interferenze dei talebani negli affari degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite. A questo proposito, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) aveva annunciato che i talebani avevano arrestato 113 dipendenti dell’organizzazione nella prima metà del 2023.
Questa è la storia di una bambina che è stato data via come risarcimento e che ora vende penne per le strade di Kabul per sopravvivere. È stata scritta da una giornalista con lo pseudonimo di Shamsia.
Il mio cuore batte forte ogni giorno quando esco di casa e mi dirigo a Pul-e-Surkh, vicino all’Università di Kabul. Temo che i talebani possano fermarsi accanto a me e trascinarmi di nuovo nel loro veicolo. Sono distrutta per essere stata imprigionata dai talebani e per aver dovuto spiegare perché lavoro come venditrice ambulante. La prima volta che mi hanno arrestata, sono riuscita a liberarmi piangendo e supplicando, ora mi nascondo dietro i muri e nei vicoli di Pul-e-Surkh, aspettando che passino i loro veicoli. Mi copro il viso con un velo nero prima di scendere in strada per vendere penne.
So che il mio aspetto rende le persone sospette, pensano che io sia una mendicante. Vendere penne è l’unico lavoro che posso fare al momento. Vorrei avere un lavoro migliore, ma devo portare il cibo a casa e comprare le medicine per mia suocera.
Ogni giorno alle sei del mattino cammino da Company (un quartiere di Kabul) a Pul-e-Surkh. Non posso permettermi il biglietto dell’autobus e vendo penne lungo la strada. Alle sei di sera torno a casa a piedi. Quando dico “casa”, potresti immaginare una casa con un tetto, finestre e porte, ma invece viviamo in una tenda. In inverno, non abbiamo abbastanza carburante per stare al caldo. Mio marito e io usiamo il nostro magro reddito per soddisfare i bisogni di base. Riusciamo a malapena a comprare olio, riso e farina per non morire di fame. Mia suocera prende i miei guadagni e a volte mi dà un po’ di soldi per comprare una sciarpa o dei vestiti. È malata, ma non possiamo permetterci un medico e nessuno la curerà gratis.
Una bambina in cambio
Avevo 12 anni quando mi hanno data in sposa, ora ne ho 14. All’inizio non avevo idea di cosa significasse il matrimonio. Non avrei mai immaginato che sarei stata separata dalla mia famiglia così giovane, ma la mia famiglia non aveva scelta. Mio zio ha avuto una relazione con la sorella di mio marito e i due sono scappati insieme. In cambio della loro figlia che era scappata con mio zio, la famiglia di mio marito ha preteso me.
La mia famiglia mi ha dato via come risarcimento. Mio zio e mia cognata vivono in un posto sconosciuto, ma io sono qui, a pagare il prezzo delle loro azioni. A casa non ho autorità: faccio tutto quello che gli altri mi dicono di fare.
Anche mio marito è vittima della decisione di sua sorella. Eravamo entrambi bambini e ora ci siamo sposati controvoglia. Anche mio marito è un venditore di penne. A volte andiamo insieme al mercato, altre volte lavora a Sar-e-Kotal. A volte, invece di vendere penne, vende acqua.
Compro penne a cinque afghani l’una e le vendo a 10. I miei guadagni giornalieri sono imprevedibili. A volte vendo un pacchetto completo di 12 penne, altre volte ne vendo molto meno. Nei giorni in cui vendo qualche penna in più, torno a casa più felice.
La paura dei talebani
Dopo che i talebani mi hanno arrestato per aver lavorato per strada, ero terrorizzata e non volevo più lavorare. Sono rimasta a casa per qualche giorno, ma mia suocera mi ha detto che dovevo lavorare, altrimenti saremmo rimasti con la fame. Ho dovuto tornare in strada. Ora, sono estremamente attenta, anche se la paura di essere arrestata e imprigionata è sempre con me. Non so se è maggiore la preoccupazione di mettere il cibo in tavola o di come scappare dalla prigione dei talebani.
Quando le forze talebane mi hanno arrestata vicino all’Università di Kabul mi hanno portata in un luogo sconosciuto. Anche mio marito e diversi altri bambini lavoratori sono stati trattenuti. Siamo rimasti sotto custodia per due giorni. Ci hanno dato pochissimo cibo e avevamo costantemente fame. Alcuni bambini sono stati picchiati.
“Non lavorate. Restate a casa. Vi aiuteremo”, ci hanno detto i talebani. Ma non ci hanno aiutato per niente. Invece, ci hanno fatto promettere che non avremmo mai più lavorato e hanno minacciato che ci avrebbero torturati e imprigionati se fossimo stati sorpresi per strada una seconda volta.
Durante l’interrogatorio, ho implorato e pianto, spiegando la mia disperazione per il fatto che avevo una persona malata a casa e nessuno che la nutrisse o si prendesse cura di lei. Dopo due giorni, mi hanno rilasciata ma hanno tenuto mio marito in prigione.
Sogno di diventare mamma un giorno. Non ho ancora pensato a quante figlie o figli vorrei avere, ma mia suocera vuole che diventi mamma presto. Mi manca sempre mia madre. Non mi è permesso andare a trovare a casa i miei genitori, che sono lontani, ma a volte lei viene a trovarmi di nascosto.
Ogni volta che vedo bambini che vanno a scuola, vorrei essere uno di loro. Più di ogni altra cosa, vorrei diventare un medico. Non sono mai andata a scuola, ma so che l’istruzione è una cosa molto buona.
Vorrei che nessun’altra ragazza dovesse subire la mia stessa sorte. Spero che nessun’altra venga data via come risarcimento come è successo a me.
Quando Assad ha lasciato la Siria, lo scorso 8 dicembre, in tanti hanno festeggiato. Non mancavano le preoccupazioni per ciò che sarebbe accaduto, ma è prevalsa, giustamente, la contentezza per un’apertura possibile e, per molti, la possibilità di lasciare le prigioni, tornare nelle proprie città, esprimere il proprio pensiero ad alta voce o, semplicemente, respirare, piangere di commozione, rientrare nel paese. La propaganda dei sostenitori del regime deposto, attiva soprattutto all’estero, ha cercato di far passare la sconfitta del Baath per una catastrofe, e l’identificazione di chiunque non mostrasse contrizione come un “jihadista” o un sostenitore del jihadismo. Se il rigetto di questo tentativo è la base e il principio per ogni discussione empatica e realistica sulla Siria futura – e, in controluce, su cos’è oggi una prospettiva rivoluzionaria nel mondo – è altrettanto cruciale la consapevolezza che è (sempre) necessario mantenere vigile la critica, e verso più di un fenomeno politico allo stesso tempo.
Come le battaglie contro big Pharma non dovrebbero implicare il boicottaggio di campagne vaccinali inevitabili durante una pandemia, infatti – o il sostegno alla resistenza ucraina non dovrebbe tradursi in un sostegno politico per le oligarchie al potere nel paese – così il riconoscimento del severo giudizio storico emerso verso le componenti degenerate e corrotte del nazionalismo baathista non dovrebbe indurre a sottovalutare gli atti delle forze che hanno instaurato una nuova autorità su Damasco. Al-Jolani aveva affermato, a inizio dicembre, che il suo movimento avrebbe stupito il popolo siriano, mostrando come i timori verso un «ordine islamico» fossero frutto di fraintendimenti o di scorrette applicazioni passate di questo concetto. Affermazioni abbastanza audaci da attrarre meritata attenzione e da essere necessariamente prese sul serio, in attesa di azioni politiche che le sostanziassero. Io stesso proposi di giudicare il gruppo non in base ai suoi precedenti (che pure non devono essere mai dimenticati), ma in base alle nuove azioni.
A un mese e mezzo di distanza è evidente che, se obiettivo di HTS era mostrare che l’islamismo è compatibile con il rispetto per le persone, per la cultura e per le donne, la giustizia sociale e la costruzione di un percorso istituzionale animato da una decenza minima nel rapporto con le diversità, i dissidenti e i prigionieri, l’obiettivo è fallito su tutta la linea. L’evoluzione della situazione siriana dimostra nuovamente, dopo sole sei settimane, che la paura e il disgusto che covano o si esprimono in gran parte della Siria – e del mondo musulmano – verso i movimenti islamisti nulla ha a che fare con una presunta e improbabile “islamofobia” ma con fatti nudi e crudi che è impossibile ignorare. L’ordine islamista viene quindi o nuovamente scorrettamente applicato oppure, malauguratamente, ancora frainteso da tanti, troppi comuni mortali.
Colpo di mano e riconoscimento esterno
Al-Jolani persiste in una ormai stantia dichiarazione di volontà di dialogo con tutte le “minoranze”, intese in un depoliticizzato senso etno-culturale che mira a rimuovere la sostanza politica dei problemi sul piatto. HTS è d’altra parte di per sé una minoranza politica che ha deciso, forte del sostegno turco, delle monarchie del golfo e atlantico, di agire come se non fosse tale. Anziché permettere al primo ministro Al-Jalali in carica a inizio dicembre (come inizialmente annunciato) la possibilità di formare un governo di transizione scevro da rappresentanti del Baath ma composito, Jolani ha trasferito nella capitale direttamente il governo monocolore che la sua organizzazione aveva imposto alla popolazione di Idlib dal 2017. La Siria si è trovata così ad essere governata da una compagine salafita senza dubbio forte e influente nel panorama delle opposizioni, ma lungi dal poter essere rappresentativa del quadro socio-politico complessivo delle forze estranee al passato. Nell’attuale processo costituente il governo transitorio mostra inoltre diverse ambiguità: l’incertezza sulla sua durata, la natura del processo costituzionale annunciato e la collocazione esatta della sovranità transitoria.
Jolani ha dichiarato a dicembre che i poteri del suo personale esecutivo sarebbero durati tre mesi. Non è chiaro però cosa seguirà, se è vero che a fine mese ha affermato anche che la celebrazione di elezioni potrebbe non avvenire prima di quattro anni. Ha più volte lasciato intendere nelle sue interviste, in secondo luogo, che la costituzione non sarà scritta da un’assemblea costituente eletta, ma da un gruppo di “esperti”; termine che naturalmente non vuol dire nulla, a meno che non si intenda – nella tradizione politica di HTS – dottori della giurisprudenza islamica selezionati su base ideologica dal movimento e dai suoi alleati controllati dalla Turchia (una base ideologica e giuridica estranea alla maggioranza della popolazione, anche credente e sunnita).
Non è un caso che le prime grandi manifestazioni contro l’atteggiamento del nuovo governo siano state organizzate dalle associazioni femminili arabe, che hanno reagito alle dichiarazioni secondo cui le donne non sarebbero adatte a ricoprire tutti i ruoli esistenti nella società.
La risposta di Aisha Al-Dibs, prontamente appuntata come dirigente di un ufficio per gli affari femminili nel governo (e unica donna nell’esecutivo), non ha fatto che aumentare (e rivelare) i problemi: ha affermato che le donne devono preoccuparsi in primo luogo dei loro mariti e figli, che non vi sarà spazio per il femminismo in Siria e che la porta resterà chiusa per tutte le visioni in disaccordo con la sua (sic).
Resta infine il problema della posizione di HTS nell’architettura istituzionale della transizione. Il parlamento è stato sospeso, lo scranno del presidente è vacante: il Comando delle operazioni militari, organo di HTS che ha formato il governo, ha avviato un processo di unificazione dei gruppi armati islamisti nel paese. Al-Jolani dirige questo organo ed è quindi un esponente di partito che non fa parte dell’esecutivo. D’altra parte, presiedendo l’entità che ha formato il governo e gli ha dato operatività, e che sta costituendo un esercito, è il depositario della sovranità effettiva, ed è effettivo capo dello stato là dove lo stato esercita una controllo territoriale. Con lui, non a caso, si relazionano i rappresentanti degli altri stati. Governi come quello italiano, che hanno riconosciuto nei fatti questa autorità con la visita di Tajani del 10 gennaio, considerano quindi un processo di questo tipo (che non era affatto l’unico possibile) come legittimo (e da legittimare esternamente). Sul piano interno, tuttavia, l’esclusione di tutte le altre forze di opposizione dal governo di transizione si qualifica come un colpo di stato dentro la rivoluzione o contro la rivoluzione possibile.
L’incontenibile pesantezza di una mentalità suprematista
Per ottenere questa precipitosa legittimazione, di cui il governo afghano dei Taliban non ha ad esempio usufruito (avendo rovesciato un governo sostenuto dalla Nato, e non da Iran e Russia), una figura che è giunta al potere coltivando il mito dell’abbattimento delle Twin Towers e delle stragi irachene di sciiti come Al-Jolani non ha dovuto mostrare l’annunciato rispetto per minoranze, neanche cristiane. Il 25 dicembre l’incendio dell’albero di Natale tradizionalmente costruito in piazza dalla comunità cristiana ad Hama è stato seguito dalla diffusione del video della profanazione di un luogo di culto alawita ad Aleppo. Le proteste delle minoranze religiose che ne sono seguite sono state represse con l’invio di centinaia di veicoli di HTS nelle città e nei villaggi, che hanno scatenato il terrore. L’operazione è stata giustificata come atto repressivo contro poliziotti o militari di Assad manovrati dall’Iran, iniziando la litanie delle paranoie complottiste che, c’è da crederlo, farà invidia a quella del Baath. Questa versione, ripresa dagli organi d’informazione globale della Fratellanza musulmana come Al-Jazeera o del governo turco come Middle East Eye, non è stata tuttavia corroborata da nessun documento o prova, e ha mascherato nei fatti il primo pogrom in grande stile della Siria sottoposta all’egemonia islamista.
I video circolati su Telegram e X, peraltro, non hanno mostrato isolati episodi di rabbia sfociati in esecuzioni sommarie, ma un’operazione di massa, preordinata e organizzata, in cui nuovi poliziotti con il dito indice alzato (saluto politico di HTS, ma anche di Daesh) non sembrano in grado di effettuare arresti senza offrire lo spettacolo di uccisioni di gruppo con colpi alla nuca sul marciapiede, decapitazioni e torture, tra cui l’obbligo per gli arrestati di strisciare per terra o di abbaiare come cani; o fedeli cristiani, nel villaggio aramaico Maloula, obbligati a inginocchiarsi e umiliarsi di fronte a nuovi “conquistatori”. Comportamento da rivoluzionari? Un’istituzione, tanto più se pretende di costituire un elemento trasformativo, si definisce anche dal modo è in grado di trattare i propri nemici, soprattutto se sconfitti, e se conduce contro di essi un’operazione organizzata. Quale sia l’idea di trasformazione è stato chiaro con le direttive immediatamente successive per la riforma dei curriculum scolastici e dei libri di testo, dove si prevede siano censurati riferimenti al “passato politeista della Siria” (sic) e ad elementi filosofici e religiosi considerati distanti dal (corretto intendimento del) messaggio divino.
Gli stati e noi (o logiche diverse di riconoscimento potenziale)
Nonostante tutto questo Stati Uniti ed Europa, con Germania e Italia in testa, hanno lasciato intendere che l’apertura al mercato annunciata dall’esecutivo e realizzata con la prima partecipazione storica della Siria governata dall’islam “politico” al WTO di Davos è più che sufficiente per chiudere tutti e due gli occhi sulle atrocità commesse e su quelle a venire. Non a caso i media europei, a partire da quelli italiani, non stanno più parlando della Siria e nessuno di questi crimini è stato dovutamente raccontato e contestualizzato. Mentre i pogrom di Natale avevano luogo, Repubblica e Ansa plaudivano a presunti sequestri di droga dei fedeli di Al-Jolani, accuratamente esibiti a beneficio di una stampa occidentale che non saprei se ingenua (a dir poco) o in malafede. Anche in taluni ambiti politici e accademici non manca chi reagisce con sorpresa a qualsiasi commento scandalizzato su questi fatti – quasi che giudicare HTS per quello che è significhi coltivare nostalgie per Assad e il suo sistema.
Ciò che più è grave è che l’alternativa esiste. Nessuno, tuttavia, la conosce per l’assenza di ricerca e informazione, o la vuole (ri)conoscere negli apparati statali. La legittimità del nuovo regime trova infatti sul piano interno il principale ostacolo nel convitato di pietra del processo transitorio: quella parte di Siria (circa un terzo) che rimane fuori dal controllo dello stato ed è governata da organi legislativi ed esecutivi diversi: l’Amministrazione democratica autonoma (DAA) che controlla la maggior parte delle risorse agricole ed energetiche del paese. Fondata su un sistema di consigli e cooperative socialiste ed ecologiche, dove le donne si sono conquistate autorità e autonomia, dispone di un esercito il cui numero di effettivi è stimato in 80.000 tra donne e uomini. Il fuorviante gergo giornalistico nostrano si riferisce a questa istituzione come “i curdi”, ma l’Amministrazione e le sue forze militari sono formate da siriani che, come nel caso degli altri gruppi emersi dalla guerra rivoluzionaria, si identificano in parte come curdi (molti in questo caso), ma in maggioranza come arabi. A questa pluralità linguistica, espressa anche nei suoi simboli e documenti ufficiali, corrisponde una coerente pluralità religiosa e di genere – e una disponibilità al dialogo politico di cui HTS (che pure ne è tra i destinatari) si sta confermando incapace.
La speranza di Al-Jolani è che la Turchia distrugga la DAA con una vasta operazione di aria e di terra che in parte è cominciata lungo l’Eufrate, dove Ankara sta cercando di sfondare da dicembre presso la diga di Tishrin per raggiungere Kobane, sempre nel silenzio internazionale. L’aviazione turca ha bombardato i cortei di migliaia di civili che hanno raggiunto la diga per dimostrare la loro indisponibilità ad accettare un futuro dispotico, neoliberale e oscurantista, ma neanche questo è bastato a fare breccia tra gli stessi giornalisti che idolatravano in modo spesso caricaturale la resistenza di Kobane dieci anni fa. Al-Jolani e Erdogan contano sul probabile disimpegno militare dell’amministrazione Trump: come sempre i movimenti suprematisti – bianchi o islamici che siano – mostrano funzioni speculari e complementari, e un’analoga volontà di dominio capitalista e patriarcale che conduce alla distruzione del pianeta e delle possibilità, che sarebbero sempre attuali in Siria e altrove, di intesa pacifica e giustizia sociale.
Occorre quindi prendere posizione politicamente, denunciando nel mondo della comunicazione e della cultura che non esiste una nuova Siria dopo l’8 dicembre, ma almeno due Sirie: una al momento nera e teocratica, dove una minoranza politica rafforza un colpo di stato strisciante grazie al sostegno dei mercati e degli stati occidentali, e una multicolore e secolare, sebbene non fanaticamente secolarista, che non sembra avere appoggi futuri se non quelli di chi produrrà analoghe rivoluzioni nel mondo. Analoghe rivoluzioni non arriveranno presto, ma se gli stati riconosco la prima Siria, è nella nostra libertà individuale e collettiva decidere di offrire un riconoscimento politico alternativo alla seconda con la voce, la mobilitazione, il viaggio o la scrittura – almeno fino a quando una Siria davvero “nuova” non sarà frutto dell’inclusione e della libera decisione di organi democraticamente scelti.
Leggi l’articolo su Micromega: https://www.micromega.net/nuova-
“Noi respiriamo e basta, senza essere veramente vive”, mentre l’oppressione diventa normale nel silenzio degli uomini
In questo preciso momento, mentre inizio a scrivere queste righe, sono trascorsi 1.260 giorni da quando i talebani hanno preso il controllo dell’Afghanistan. Ma questi 1.260 giorni non sono più solo un numero: sono una catena, che diventa più pesante di momento in momento attorno al collo del nostro tempo e della nostra stessa esistenza.
Questi giorni raccontano la lenta distruzione di un’intera generazione di donne e ragazze, una generazione che non ha vissuto sotto l’ombra del terrore ma è semplicemente sopravvissuta. Giorni che, invece di assistere allo sbocciare dei sogni, hanno solo visto il loro crollo. Un tempo in cui le aspirazioni non sono state perseguite ma seppellite, una per una.
Questi giorni sono incisi come una fiamma spenta nei cuori di una generazione, una generazione le cui voci di speranza, con ogni frustata sui loro corpi e sulle loro anime, si sono appassite in sussurri senza vita. Per 1.260 giorni, il tempo non è passato per loro né si è fermato; ha solo scavato nuove ferite nel tessuto dei loro spiriti. Questi giorni testimoniano la graduale morte della speranza e la silenziosa sepoltura di grida e voci mai ascoltate.
Talebani è sinonimo di orrore
Abbiamo sempre saputo che i talebani erano un gruppo terroristico a tutti gli effetti, allevato nelle madrase del Pakistan, non per costruire, ma per distruggere. Uomini rozzi, con la barba folta e dall’aspetto spaventoso, fucili a tracolla, crudeltà sfacciata, che frustavano le donne in piazza Spinzar a Kabul con selvaggia brutalità. Nella nostra mente, l’immagine dei talebani è sempre stata sinonimo di orrore. Come si potrebbe non temere un gruppo che si lega le bombe al corpo con precisione esperta, solo per farsi esplodere e fare a pezzi centinaia di vite innocenti?
Ora, da tre anni, viviamo sotto lo stesso incubo che un tempo definiva le nostre peggiori paure. Se questo può anche essere chiamato “vivere”. Perché noi respiriamo e basta, senza essere veramente vive. Chissà? Forse nel loro prossimo decreto, persino respirare sarà proibito “fino a nuovo avviso”.
Un regime costruito sulle rovine della dignità umana
Per tre anni, siamo state sistematicamente spogliate della nostra umanità. Scuola, università, lavoro, viaggi, voce, visione, finestre e persino la nostra stessa identità ci sono stati tolti. Siamo state imprigionate nelle nostre stesse case, le nostre voci messe a tacere. E quando abbiamo osato protestare, ci hanno frustato senza pietà, selvaggiamente, imperdonabilmente. Per tre anni, stupro, umiliazione e oppressione non sono stati semplici incidenti; sono stati politica, una strategia deliberata per distruggere lo spirito collettivo, estinguere la speranza e fortificare un regime costruito esclusivamente sulle rovine della dignità umana.
E tuttavia, attraverso tutto questo, sono le donne che hanno tenuto duro in questo campo di distruzione. Donne che si sono inginocchiate davanti ai corpi senza vita dei loro sogni, le loro lacrime e le loro urla hanno messo a nudo la loro impotenza di fronte a un mondo a cui semplicemente non importa.
Non hanno solo protestato. Hanno pagato il prezzo. Con la prigionia, con le frustate, con il loro sacrificio. Sono le donne che si svegliano ogni mattina con il suono dei loro sogni che crollano intorno a loro e ogni notte sono costrette a seppellire le loro aspirazioni nel silenzio soffocante di questa terra oscura.
Un vergognoso silenzio
Ma il dolore non deriva solo dai mostri misogini che si definiscono un governo. No, questo incubo è più grande di un regime. Con l’arrivo di queste bestie, risentimenti sepolti da tempo, ignoranza radicata e misoginia nascosta nel tessuto stesso della società sono emersi. È come se la loro presenza avesse dato una licenza, un permesso distorto a una società che aveva sempre considerato le donne inferiori, per metà viste, per metà ignorate. E ora, apertamente, infligge le sue ferite ai loro corpi e alle loro anime.
Eppure, loro resistono. Donne che sono state abbandonate dalle loro case, dalle loro comunità e persino dalla storia stessa. Sole. Ma orgogliose. Sfidanti di fronte a un’oppressione così grande che ha annegato il mondo in un vergognoso silenzio.
Solo pochi giorni fa, le grida disperate della figlia del nostro vicino risuonavano tra le pareti della loro casa mentre suo padre la picchiava. La chiamerò Farah. Farah era all’undicesimo anno quando arrivarono i talebani. Era una ragazza piena di ambizione, traboccante di sogni, sogni abbastanza grandi da creare un mondo completamente nuovo. Voleva diventare una scrittrice. Aveva imparato a memoria ogni libro di Elif Shafak e Mahmoud Dowlatabadi.
Ma i sogni di Farah furono bruciati, letteralmente. I suoi libri dati alle fiamme. Fu picchiata fino alla sottomissione e costretta a sposare un uomo vedovo, la cui unica qualifica era la sua ricchezza, un uomo che l’aveva trascinata da un mondo di sogni alla schiavitù di una vita imposta. E quando la gente protestò contro la decisione di suo padre, lui ebbe una sola risposta: “Le scuole sono chiuse. Di questi tempi, tenere una figlia nubile è difficile”.
L’oppressione è diventata ordinaria
La storia di Farah, per quanto amara e tragica, non sembra più nemmeno un evento degno di nota. Nella realtà soffocante che governa la vita delle donne qui, storie come la sua sono diventate insignificanti. Ogni giorno, centinaia di storie del genere, scritte e non scritte, si dipanano, racconti che, in un altro tempo, avrebbero acceso la rabbia, avrebbero fatto piangere. Ma ora sono diventati solo un’altra parte della routine quotidiana di questa terra.
Come disse una volta Hannah Arendt: “La più grande vittoria degli oppressori è quella di normalizzare l’oppressione”. E qui, nella terra di Farah, l’oppressione non ha più bisogno di giustificazioni. L’ingiustizia cammina per le strade, respira nelle case e si annida nelle menti. Quando l’oppressione diventa ordinaria, nessuno urla più. E così, la storia di Farah, come le storie di innumerevoli altri, è sepolta in quello stesso silenzio mortale. Un silenzio che non riflette altro che la morte dell’umanità stessa.
Dentro ogni uomo un talebano nascosto
Ogni volta che abbiamo provato a parlare del silenzio degli uomini di fronte alla crudeltà dei talebani verso le donne, le nostre voci sono state strozzate prima ancora di poter uscire dalle nostre gole. Ci hanno detto: “No, non avete il diritto di dire queste cose”. Hanno sostenuto: “Se gli uomini protestano, verranno uccisi”. Alcuni, persino con orgoglio, hanno detto: “Il semplice fatto che un uomo permetta alla sorella o alla moglie di uscire e alzare la voce è di per sé un atto di sostegno”.
Ma perché? Perché la responsabilità è stata così drasticamente ridotta? Perché l’aspettativa di una decenza umana di base è stata abbassata a un livello così spaventoso? Se domani i talebani dovessero imporre a tutta la società gli stessi decreti che hanno cancellato le donne dalla vita pubblica, questo silenzio e questa indifferenza continuerebbero? No. Questo silenzio non è solo paura. Questo silenzio ha radici più profonde. È radicato nell’accettazione, nella normalizzazione, in un talebano nascosto che ha sempre vissuto nei cuori della maggior parte degli uomini in questa società. Perché nessuno lo dice? Perché nessuno ammette che la maggior parte delle persone in questa società porta dentro di sé un talebano silenzioso e nascosto? Un talebano senza pistola, senza decreto, uno che, attraverso il silenzio e la complicità, spiana la strada stessa dell’oppressione.
Il femminicidio di Saman Abbas, la ragazza pachistana uccisa dai familiari, ha colpito l’opinione pubblica italiana e ha aperto gli occhi sulla realtà di giovani donne – nate in Italia o arrivate da piccole – la cui libertà è repressa con violenza inaudita da parte dei maschi della famiglia. Nonostante le denunce Saman era stata abbandonata alla sua malasorte, vittima di un rapporto padre-figlia esiziale, basato sul «possesso-dominio», come viene definito da Teresa Manente e Rossella Benedetti, le avvocate di parte civile nel processo per l’omicidio e l’occultamento di cadavere di Saman. Il caso della giovane pachistana è sviscerato nei diversi aspetti in Femminicidi d’onore, dal «processo Saman» ai diritti negati delle donne migranti a cura di Ilaria Boiano e Isabella Peretti (Futura Editrice, pp. 164, euro 15).
SICCOME SAMAN si ribellava alle angherie cui era sottoposta – segregata in casa, divieto di studiare e promessa in sposa a un cugino più vecchio – veniva definita la «pazza» dalla madre. Proprio della madre, Nazia, condannata all’ergastolo insieme al padre Shabbar, colpisce la complicità, dovuta forse al fatto che anche lei era vittima di una segregazione totale, che non le aveva permesso di alzare lo sguardo sul mondo che la circondava. Quindi, «non vi è dubbio alcuno che con l’uccisione della figlia, Nazia uccida anche una parte di sé», secondo Giovanna Fava, anche lei avvocata nel processo.
Ma quante Saman ci sono? Quante le vittime di femminicidio d’onore? Abbiamo sentito parlare di Hina Saleem la prima ragazza pachistana vittima di femminicidio in Italia, di Sana Cheema, altre sono morte nell’indifferenza, come Begun Shahnaz, lapidata, Kaur Balwinder, uccisa e buttata nel fiume.
È Tiziana Dal Pra, fondatrice dell’associazione Trama di Terre, a ricordarcele. Tutte vittime del controllo della sessualità da parte della famiglia ma anche della comunità di appartenenza, all’interno della quale un ruolo importante è spesso giocato dai fondamentalismi religiosi. Ma, come giustamente sostiene Tiziana Dal Pra, quando si trattano questi temi non dobbiamo autocensurarci per paura di essere accusate di islamofobia.
I diritti delle donne sono universali e non si può rinunciare a difenderli per una sorta di relativismo culturale che, questo sì, le condanna a essere sottomesse. Le forze reazionarie che sostengono che le altre «culture» sono barbare e violente lo fanno per difendere l’Occidente, come sostiene Isabella Peretti, e, in Europa, per difendere l’identità cristiana. Tuttavia, non si può negare il ruolo dei fondamentalismi religiosi, tutti, nell’oppressione della donna, anche nell’imposizione di un velo ideologico.
LA RIVOLUZIONE delle donne iraniane contro la teocrazia – che ha fatto del ciador l’identità della donna musulmana – è partita proprio dalla lotta contro l’obbligo del velo. Naturalmente il controllo delle «Saman», non si esercita solo con il velo, però basta guardare le foto di Saman velata o con la fascia rossa tra i capelli per vedere due donne completamente diverse. Quale è stata uccisa? Sicuramente la seconda. Le donne afghane sono quelle che, soprattutto con il ritorno dei taleban al potere – complici gli Usa negli accordi di Doha – soffrono le peggiori condizioni costrette a vivere in un sistema di inflessibile apartheid di genere. Private anche della possibilità di parlare, «la voce è la nudità della donna», non solo nell’islam. Per eliminare giustificazioni culturali o religiose, le afghane con l’appoggio del Cisda e di una rete europea, hanno avviato una campagna per il riconoscimento del crimine di apartheid di genere intollerabile anche per il diritto internazionale.
Nel libro si richiama la responsabilità di chi dovrebbe proteggere le donne in pericolo. Innanzitutto, rendendole visibili, dando loro la parola – come nel Tribunale delle donne migranti – per individuare i problemi e i bisogni. Dalle testimonianze risulta un sistema legale e istituzionale inadeguato a riconoscere e affrontare le violenze – sfruttamento, tratta, prostituzione, matrimoni combinati, pregiudizi – che subiscono le donne migranti lasciate in una condizione di estrema vulnerabilità per il mancato riconoscimento dei loro diritti.
Crimini contro l’umanità. Solo il suono di queste parole fa incrinare l’animo, crea crepe, allarga quegli spiragli troppo sottili per far giungere “qui” l’atrocità di ingiustizie che vengono commesse altrove. Eppure, a livello di diritto internazionale ancora non esiste un preciso trattato che prevenga e sanzioni i crimini contro l’umanità.
Ora la sesta commissione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite sta spingendo sull’acceleratore, anche per contrastare paesi come la Russia che ostacolavano i lavori. Il traguardo si intravede a cavallo tra il 2028 a 2029, e i primi passi per raggiungerlo vanno fatti adesso e bene. Inserendo da subito, nella definizione di crimine contro l’umanità, l’apartheid di genere. Non è qualcosa che possiamo dare per scontata né rimandare, ma deve comparire con l’esattezza dei dettagli che possano trasformare quest’azione in un’efficace leva del mondo legale per cambiare il mondo reale.
Insieme a un gruppo di giuriste, il Coordinamento italiano sostegno donne afghane (Cisda) ha cercato di sistematizzare il crimine di apartheid di genere con una definizione, lanciando la campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere. Quello che possiamo fare noi, come cittadine e cittadini, è cercare di dare volti, significati, potenza e senso all’intento, leggendo, aderendo alla campagna di Cisda, o semplicemente dedicando del tempo a capirne le ragioni e crearci un’opinione indipendente ma consapevole. Ne abbiamo parlato con Patrizia Fabbri, attivista dell’associazione.
Quale definizione suggerite per identificare l’apartheid di genere?
Chiediamo di definire il crimine di apartheid di genere come “qualsiasi atto, politica, pratica o omissione che, in modo sistematico e istituzionalizzato, è commesso da un individuo, uno stato, un’organizzazione, un’entità o un gruppo, con lo scopo o l’effetto di stabilire, mantenere o perpetuare il dominio di un genere sull’altro, attraverso la segregazione istituzionalizzata, l’oppressione o la discriminazione in ambito politico, economico, sociale, culturale, educativo, professionale o in qualsiasi altro ambito della vita pubblica e privata”.
Perché avete scelto proprio questa?
È fondamentale sottolineare che questi atti possono essere commessi anche da attori non statali, prima di tutto, perché esistono molte realtà dove ufficialmente lo stato contrasta l’apartheid di genere, ma lascia che gruppi non istituzionali, ma organizzati, commettano questo crimine. L’idea è quindi di includere il reato di omissione: in quanto garante dei diritti umani, lo stato è perseguibile anche quando omette di perseguire una condotta criminale in questo ambito. L’altro aspetto per noi importante da chiarire riguarda il soggetto passivo di questo crimine: abbiamo incluso qualsiasi gruppo di persone identificate dal loro genere e gli individui non conformi al genere. Questo significa riconoscere tutte le azioni violente di discriminazione anche nei confronti delle persone Lgbtqia+.
Con quale intento avete lanciato la campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere e a chi è rivolta?
Siamo partite con una raccolta firme per chiedere al governo italiano di sostenere tre obiettivi principali e di farsene promotore presso le istituzioni internazionali. Il primo è il riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità, recependo la nostra definizione. Il secondo è il non riconoscimento né giuridico, né di fatto, del regime fondamentalista talebano in Afghanistan: infatti, se nessuno stato riconosce ufficialmente il governo talebano de facto, in realtà poi molti paesi intrattengono rapporti con il regime, per motivi logistici, geografici ed economici.
Che cosa sta accadendo in Afghanistan?
L’Afghanistan è un paese molto ricco di terre rare, ma è anche quello in cui il regime talebano sta attuando la soppressione dei diritti più elementari, soprattutto delle donne. Alle donne non è concesso frequentare la scuola oltre le elementari, lavorare, uscire di casa se non accompagnate da un uomo della famiglia. Non possono frequentare parchi, giardini e bagni pubblici, devono essere integralmente coperte in volto, non possono cantare né pregare ad alta voce. Ora i talebani sono arrivati a proibire loro di “ticchettare” quando indossano i tacchi: siamo veramente alla negazione della persona in quanto tale. La terza richiesta riguarda infatti il sostegno alle forze afghane anti fondamentaliste e democratiche: è particolarmente importante che avvenga, di pari passo con la condanna ai fondamentalismi. Il sostegno della laicità rappresenta l’unico vero e possibile argine alle barbarie commesse.
Da quali rischi ci può proteggere quest’azione?
Da quello di lasciare che i nostri governi appoggino una realtà che si ritiene il male minore, come potrebbe avvenire in Siria, per esempio. Pur gioendo della fuoriuscita di Assad, non va tralasciato il fatto che le forze del gruppo che ha preso il potere, l’HTS, sono forze fondamentaliste che erano alleate con Al Qaeda. Anche se si sono “dati una ripulita”, l’origine resta quella, e il terrore è che vengano sdoganati, lasciando che si formi una società basata su principi di nuovo fondamentalismo.
Puoi farci qualche altro esempio?
È un tema delicato e, proprio per questo, da non trascurare. L’Occidente, a mio avviso, nella maggior parte dei casi è in malafede e appoggia determinati gruppi perché potenti, ma anche quando non lo è, non bada alla provenienza di determinati personaggi, gruppi o associazioni. E in certi contesti non si può essere superficiali, non si può pensare di aiutare alcune realtà indipendentemente da chi ci sta dietro, anche per un rischio di corruzione. Un esempio estremo ma esplicativo è il fatto che all’inizio del 2024 l’ONU abbia accettato il diktat dei talebani contro la presenza delle associazioni afghane contrarie al loro governo, “perché col nemico si deve parlare”. Alcuni compromessi possono essere necessari, ma altri aspetti non si possono accettare.
Cisda insiste nel parlare di fondamentalismi, al plurale.
Serve a ribadire e ricordare che non esiste solo il fondamentalismo islamico e che, in generale, il concetto di fondamentalismo non va per forza collegato alla religione. Spesso siamo assuefatti e consideriamo l’apartheid di genere, ogni oppressione e discriminazione sulla base del genere della persona, come una diretta conseguenza di un approccio tipico solo del fondamentalismo islamico, quando in realtà non è così.
Che significato ha questa scelta?
Per noi è importante che si parli sempre di fondamentalismi in generale, perché lo sono tutti i fenomeni che portano a un’interpretazione conservatrice e a un’attuazione rigida e intransigente di una religione, come anche di un pensiero politico, scientifico, filosofico, eccetera. Il problema sta nelle modalità in cui si crede e si porta avanti un’idea, non tanto nell’idea stessa. Esiste un limite invalicabile che divide le profonde convinzioni interiori, un “fondamentalismo individuale”, dal vero e proprio fondamentalismo con cui si arriva a imporre la propria visione a un’intera società, con azioni a livello di stato o di gruppi di potere. Un esempio “occidentale” sono gli antiabortisti americani, che uccidono i medici che procurano aborti.
Di fondamentalismi ce ne sono in diverse parti del mondo; la “i” è un dettaglio indispensabile per tenere gli occhi aperti su ogni crimine contro l’umanità, per aprire crepe, per non chiudere gli occhi e la porta davanti a chi sta subendo una violenza.
Il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane ha lanciato una petizione per chiedere al governo italiano e alle Nazioni Unite di riconosce l’apartheid di genere come crimine contro l’umanità al pari delle discriminazioni su base etnica. E di non riconoscere il governo dei Talebani, sostenendo invece i movimenti democratici del Paese. Una lotta che non si “limita” all’Afghanistan
“Apartheid di genere significa qualsiasi atto, politica, pratica o omissione che, in modo sistematico e istituzionalizzato, è commesso da un individuo, uno Stato, un’organizzazione, un’entità o un gruppo, con lo scopo o l’effetto di stabilire, mantenere o perpetuare il dominio di un genere sull’altro, attraverso la segregazione istituzionalizzata, l’oppressione o la discriminazione in ambito politico, economico, sociale, culturale, educativo, professionale o in qualsiasi altro ambito della vita pubblica e privata”.
È la definizione di crimine di apartheid di genere che il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda), con il supporto di un team di giuriste, ha elaborato e inviato direttamente attraverso la delegazione italiana alla VI Commissione delle Nazioni Unite che sta lavorando all’elaborazione di un Trattato globale per la prevenzione e la punizione dei crimini contro l’umanità.
È un lavoro complesso, sul quale l’Onu si sta confrontando da sei anni. Alla fine del 2024, tuttavia, nonostante l’ostruzionismo di alcuni Paesi, è stato delineato un percorso che definisce una tempistica per le proposte che gli Stati membri e la società civile possono sottoporre alla Commissione, anche se le negoziazioni vere e proprie sul Trattato sono previste solo nel 2028 e 2029.
Per sostenere il proprio contributo a questo processo, il Cisda, con la rete di associazioni con la quale collabora in Italia e in Europa, ha lanciato la “Campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere“, evidenziando la stretta connessione tra fondamentalismi e apartheid di genere.
Nell’ambito di questa campagna è stata avviata una raccolta firme per una petizione con la quale si chiede al governo italiano di sostenere una serie di obiettivi e di farsene promotore presso le istituzioni internazionali. Iniziando dal riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità (al pari di quello su base etnica) all’interno dei Trattati internazionali e di come sia applicato sistematicamente e istituzionalmente in Afghanistan; al non riconoscimento, né giuridico né di fatto, del regime fondamentalista talebano, sostenendo l’azione presa da alcuni Paesi di deferimento dell’Afghanistan alla Corte internazionale di giustizia per violazioni della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne e quella alla Corte penale internazionale per ulteriori indagini sulle continue violazioni dei diritti delle donne compiute dai talebani.
Infine, il Cisda chiede il sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e i partiti fondamentalisti. E contestualmente di negare la rappresentanza alle esponenti e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta.
Ma entriamo nel dettaglio di ciascuno di questi obiettivi e cerchiamo di capire perché sono così fortemente connessi.
Prima di tutto bisogna ricordare che il concetto di “apartheid di genere” non è ancora codificato nel diritto internazionale come crimine in quanto quello di apartheid, come definito nello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, si concentra sulla discriminazione razziale.
Le violazioni dei diritti umani basate sul genere, come la violenza sessuale, lo stupro, la negazione dei diritti riproduttivi e la segregazione di genere hanno invece caratteristiche uniche distinte dalla discriminazione razziale e il loro riconoscimento come crimine consentirebbe di affrontare, a livello giuridico internazionale, le violazioni sistematiche che colpiscono ragazze, donne e individui non conformi al genere, come le persone Lgbtqi+.
Nella definizione proposta dal Cisda, gli elementi chiave sono la segregazione istituzionalizzata, l’oppressione e la discriminazione, caratteristiche fondamentali dei regimi storici di apartheid, ma si sottolinea che tali atti possono essere commessi anche da attori statali, come gruppi organizzati. Si tratta di una precisazione importante che evidenzia il ruolo che questi ultimi possono svolgere nel commettere e perpetuare gravi violazioni dei diritti umani. A tutto ciò si aggiunge l’inclusione dell’omissione come forma di condotta criminale, in cui le autorità non agiscono per prevenire o punire la discriminazione o la violenza di genere.
Importante è poi la definizione del “soggetto passivo” nella quale è compreso qualsiasi gruppo di persone identificate dal loro genere e gli individui non conformi al genere: una definizione fondamentale per estendere le protezioni oltre il tradizionale concetto binario uomo-donna e andare a perseguire la discriminazione e le azioni violente rivolte alle persone Lgbtqi+.
Il Cisda ha voluto collegare strettamente il concetto di “fondamentalismi” (il plurale non è un caso) a quello di apartheid di genere perché ritiene che la discriminazione e l’oppressione sulla base del genere della persona siano diretta conseguenza di un approccio fondamentalista alla società. Approccio che non riguarda esclusivamente l’Islam o le religioni in generale.
Ormai assuefatti ad associare il fondamentalismo all’Islam, dimentichiamo infatti che il termine nasce da un movimento religioso protestante diffuso soprattutto negli Stati Uniti a fine Ottocento, che, in opposizione al protestantesimo liberale e a tutte le tendenze razionalistiche e critiche, impone l’accettazione rigida e intransigente dei “fondamentali” del Cristianesimo. E per venire all’oggi, basti pensare ai movimenti estremisti cristiani antiabortisti per comprendere quanto il fondamentalismo non sia esclusiva peculiarità di alcune interpretazioni dell’Islam.
E non è un fenomeno circoscrivibile alla sola religione perché il termine fondamentalismo indica “l’atteggiamento di chi persegue un’interpretazione estremamente conservatrice e un’attuazione rigida e intransigente di una religione, un pensiero politico, scientifico, letterario”. Per questo il Cisda ha scelto di utilizzare il plurale, perché vuole dire “Stop” a qualsiasi forma di fondamentalismo, sia esso religioso o politico o razziale o ideologico.
Concretamente la campagna, e di conseguenza la petizione, si focalizza sulla condanna al regime fondamentalista talebano, responsabile della soppressione dei più elementari diritti umani della popolazione civile, in particolare delle donne e degli individui Lgbtqi+, frutto del deliberato proposito di tradurre in sistema di governo un’idea fondamentalista che ha come principale obiettivo l’annientamento sistematico e istituzionale delle donne.
L’Afghanistan è il Paese che rappresenta il caso più emblematico di “apartheid di genere”. Qui le donne non possono andare a scuola, lavorare, uscire da sole, frequentare parchi, giardini o bagni pubblici, mostrare il volto in pubblico, cantare, pregare ad alta voce e sono bandite dalla vita pubblica e sociale per rimanere segregate in casa.
Anche se in Afghanistan l’apartheid di genere è un crimine perpetrato quotidianamente, l’autodeterminazione della donna vede drammatiche limitazioni ovunque nel mondo, anche in quello occidentale. Per questo la condanna ai fondamentalismi va di pari passo con la promozione del valore della laicità, unico argine efficace alla barbarie.
Ed ecco che veniamo al terzo obiettivo indicato nella petizione del Cisda: il sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e con i partiti fondamentalisti.
Quello della laicità e dell’adesione ai principi democratici delle forze di opposizione a un regime assolutista e fondamentalista è un tema vitale che, in un momento in cui l’Afghanistan è ormai uscito dai radar dei media, è prepotentemente tornato alla ribalta in Siria dove la gioia per la caduta del criminale Bashar al-Assad rischia di trasformarsi in nuovo terrore per la salita al potere del gruppo fondamentalista Tahrir al-Sham.
La storia dell’Afghanistan può dunque essere un monito per chi guarda l’attualità con occhi superficiali. Dalla fine degli anni Settanta ha subito ingerenze straniere da parte di potenze internazionali e regionali che hanno finanziato e armato gruppi fondamentalisti. Questi drammatici eventi, comuni a molti Paesi, hanno generato decenni di guerre provocando migliaia di vittime civili, corruzione endemica, traffico di droga, devastazione del tessuto sociale e ambientale e migrazioni forzate.
Ma in Afghanistan ci sono anche organizzazioni democratiche che, fin dagli anni Settanta, si sono attivate per l’uguaglianza e la giustizia sociale delle donne, per i diritti fondamentali all’istruzione, alla difesa legale, alle cure mediche e per la liberazione dalla povertà e dalla violenza. Come ad esempio l’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane (Rawa) o l’Associazione umanitaria per l’assistenza alle donne e ai bambini dell’Afghanistan (Hawca) che il Cisda sostiene dalla loro nascita.
Uomini e donne che, nonostante avessero l’opportunità di lasciare il Paese dopo il ritorno dei talebani, hanno deciso di rimanere, sfidando i rischi quotidiani del regime repressivo talebano, e continuano a operare in Afghanistan a fianco delle donne, dei bambini, di una popolazione che per la maggioranza vive in condizioni di estrema povertà oltre che di oppressione e di negazione di ogni diritto umano.
Ed è importante che, insieme al sostegno alle forze democratiche e antifondamentaliste, non venga riconosciuta alcuna rappresentanza politica alle esponenti politiche e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta. Troppo spesso infatti si vedono assurgere al ruolo di difensori dei diritti delle donne afghane personaggi ambigui e compromessi con i precedenti regimi.
Patrizia Fabbri è attivista per il Cisda, il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane, che da tempo collabora con Altreconomia. Per seguire i progetti del Cisda e sostenerne l’operato clicca qui
La campagna “Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere”, mira a sensibilizzare l’opinione pubblica e a sollecitare azioni concrete da parte del governo italiano e della comunità internazionale contro i fondamentalismi, con un focus particolare sul regime talebano.
Il CISDA (Coordinamento Italiano di sostegno alle donne afghane) è un’organizzazione che da 25 anni si dedica a sostenere la lotta delle donne afghane, anche attraverso il finanziamento di progetti segreti per garantire la loro sicurezza.
“I progetti sono segreti perché il regime talebano ha cancellato ogni diritto delle donne, come quello di studiare oltre i 12 anni, lavorare fuori casa o viaggiare, e negli ultimi giorni ha anche tolto loro la possibilità di lavorare come ostetriche”, racconta Beatrice Biliato del CISDA ai microfoni di SBS Italian.
Nella campagna “Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere”, lanciata in concomitanza con la giornata mondiale dei diritti umani, il CISDA ha inviato una richiesta all’ONU affinché l’apartheid di genere venga riconosciuto come crimine contro l’umanità.
“Questo sarebbe un passo fondamentale per sensibilizzare la comunità internazionale sulla grave situazione delle donne afghane”, spiega Beatrice Biliato ai microfoni di SBS Italian.
Oltre alla richiesta all’ONU, il CISDA, nella sua campagna, ha anche inoltrato una richiesta al governo italiano di intervenire contro il regime talebano.
“Lo stato italiano non dovrebbe riconoscere né di fatto né di diritto il governo dei talebani, condannando quanto sta avvenendo in Afghanistan”, afferma Beatrice Biliato mentre spiega anche quanto sia importante fermare i finanziamenti al regime.
Licia Veronesi racconta la petizione lanciata da Cisda, Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane, per contrastare l’apartheid di genere, a partire dal suo riconoscimento come crimine contro l’umanità a RBE Radio e TV