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Tag: Talebani

Le donne afghane fuggite dai talebani per studiare all’estero rischiano il ritorno imminente dopo i tagli all’USAID

bbc.com Yogita Limaye* 8 marzo 2025

 

I novantamila occhi dei talebani a Kabul regna il Grande Fratello

La Repubblica, 6 marzo 2025, di Alberto Cairo

Gli afgani hanno appreso da tv e radio la notizia del piano di installare novantamila telecamere di videosorveglianza nella capitale. Nessun annuncio ufficiale è venuto fino ad ora dalle autorità. I proprietari di svariati condomini riferiscono comunque di avere ricevuto nelle ultime settimane la richiesta di installare delle telecamere a proprie spese. Senza minacce ma in maniera pressante, ad invitarli hanno pensato i wakìl, i rappresentanti di quartiere, una volta eletti dai residenti, ora nominati d’ufficio. Ogni condominio deve averne, hanno spiegato, soprattutto quelli d’angolo, posti agli incroci. L’invito non è avvenuto in maniera uniforme, essendo nel Paese molto lasciato all’iniziativa personale dei funzionari, alle loro opinioni e al loro zelo, creando confusione.

Si tratterebbe secondo alcuni di una cifra di apparecchi molto alta, volutamente esagerata per intimorire, per altri invece è un numero credibile in una città ormai enorme e in continua espansione. Dove saranno installati? la domanda. Ovunque o soprattutto nei quartieri considerati ribelli, quelli a maggioranza tajika, l’etnia rivale del regime, o sciita? I talebani hanno rivelato alla Bbc che si tratta di telecamere cinesi ad alta precisione in grado di identificare persone e cose a grande distanza e ad ogni ora. La convinzione che funzioneranno solo parzialmente è però legittima, viste le continue e lunghe interruzioni nell’erogazione dell’elettricità.

Comunque sia, rafforzeranno i controlli e la pressione sulla popolazione, al momento già pesanti grazie perquisizioni, fermi, delazioni. La gente tace, non esprime opinioni in pubblico, non rischia. Il numero degli informatori è alto.

In realtà niente di nuovo in questo. Ognuno degli ultimi regimi se ne è servito copiosamente, reclutando collaboratori ovunque. Ho dei precisi ricordi in proposito. Arrivato a Kabul nel 1990 – i comunisti erano al potere – avevo ingaggiato un insegnante che mi aiutasse a capire un po’ il Paese, usanze e tradizioni e mi insegnasse i rudimenti della lingua.Mi accorsi presto che era malvisto dai guardiani e dalla signora cuoca-donna delle pulizie. Di solito loquaci, in sua presenza parlavano a malapena. Pensai a beghe personali e non badai quando mi dissero che era affiliato al Khad, la polizia segreta. Dovetti ricredermi quando sparìimprovvisamente una settimana prima della caduta del presidente Najibullah.

Sotto il primo regime talebano e quello instaurato dagli occidentali dopo il 2001, lavorando a un programma di riabilitazione fisica e sociale, aiutavamo con micro-prestiti le persone disabili a iniziare piccole attività commerciali. Alcuni misero su dei chioschi per vendere sigarette e piccole cose. Per quanto il capitale investito fosse minimo e gli affari decisamente magri, ripagavano
puntualmente le rate. Ammirevoli, pensavo. Invece il chiosco nascondeva un’altra attività, ben remunerata. Piazzati in punti cruciali, riportavano ogni movimento considerato sospetto. A uno di loro un giorno cadde di tasca una radio ricetrasmittente. «L’ho trovata per strada», si giustificò. Sparì anche lui con il cambio di regime nel 2021.

C’è comunque chi applaude alle nuove telecamere, non solo i sostenitori dei talebani, una larga fetta della popolazione. Rapine e furti diminuiranno, dicono (già sono diminuiti, va ammesso). Per le donne, ormai punite da una interminabile lista di divieti, la vita potrebbe invece diventare sempre più soffocante, specie per quelle che ancora lavorano o continuano in qualche modo a studiare. Darebbe alla polizia per la prevenzione del vizio e la promozione della virtù un ulteriore strumento di controllo. Facilmente immaginabili poi gli effetti sulla dissidenza, su quel poco che ne rimane. Il Ministero degli Interni sarà a capo dell’intera operazione.

Altri sono tuttavia i problemi che tormentano gli afgani oggi. L’economia in primo luogo. La disoccupazione (giovanile in particolare) è altissima. Non passa giorno senza che qualcuno contatti NOVE Caring Humans, la mia organizzazione, per chiedere aiuto o un lavoro. Il numero dei poveri e dei bambini a rischio malnutrizione riportato dalle Nazioni Unite resta spaventoso. Posso solamente confermare che tantissime famiglie hanno perso gli introiti che consentivano loro una vita decente e si arrabattano miseramente. I programmi governativi non hanno per ora portato miglioramenti. Circa l’istruzione femminile, la promessa delle autorità di riaprire le scuole alle ragazze appena le condizioni di sicurezza lo permetteranno, dopo tre anni resta una promessa. E poi l’incertezza dovuta alle lotte interne al regime, con il gruppo di Kandahar opposto al clan degli Haqqani e il rafforzamento della politica più intransigente; i ritorni forzati da Pakistan e Iran che hanno riportato nel Paese migliaia di afgani senza una casa e un lavoro; le numerose cliniche chiuse a causa della sospensione dei progetti sostenuti da USAID decisa dalla nuova amministrazione americana, le piccole e medie organizzazioni umanitarie che devono licenziare il personale perché senza fondi.

Quello del taglio agli aiuti internazionali desta un enorme timore. Migliaia le persone che vivono e si curano grazie ad essi. Attraverso i media e internet gli afgani sono informati, pensano che sia solo l’inizio. L’Inghilterra è stata la prima a dichiararlo: aumenterà le spese militari a scapito dei fondi che invia all’estero. Nella corsa agli armamenti, altri paesi potrebbero imitarla. L’Afghanistan sa di rischiare un isolamento ancora maggiore, economico e politico. Non potrà che contare sulla propria resilienza. Quanta dovrà averne?

Alberto Cairo, fisioterapista, lavora in Afghanistan per NOVE Caring Humans, ong italiana

Nelle carceri talebane, donne torturate e abusate

La difficile situazione delle donne nelle prigioni talebane: confessioni costrette da spogliarelli e abusi
Amin Kawa, 8 AM Media, 2 marzo 2025

In questa indagine cinque manifestanti donne arrestate e imprigionate dai talebani condividono i loro resoconti di torture fisiche e psicologiche avvenute nei centri di detenzione talebani a Kabul. Tra i metodi di tortura descritti: appenderle per i piedi, mettere sacchetti di plastica sulla testa e sul viso, legare le mani dietro la schiena, tenerle in stanze umide, frustarle con cinture, mettere la canna di un kalashnikov vicino alle orecchie e minacciarle di morte. Inoltre, le donne hanno sopportato insulti volgari, abusi verbali, l’essere chiamate prostitute, accuse di essere serve e spie americane e minacce di danni ai loro familiari. Tutte queste donne soffrono attualmente di gravi problemi di salute mentale e fisica, tra cui dolori articolari.

Due delle ex detenute hanno confermato di essere state costrette a confessare nude o seminude per assicurarsi che non avrebbero più protestato contro le politiche dei talebani. È stato loro negato l’accesso all’assistenza legale, al contatto con la famiglia, alla comunicazione con altre prigioniere o guardie e alle cure mediche per le esigenze legate al ciclo mestruale.

Le indagini di “Hasht-e Subh Daily” indicano che tutte le donne arrestate dai talebani sono state sottoposte a torture fisiche e psicologiche nei centri di detenzione e nelle prigioni. La gravità della tortura era proporzionale alla popolarità e al riconoscimento delle detenute nella società, in particolare sui social media. Alcune manifestanti hanno subito torture più gravi, altre relativamente meno. Le interviste con cinque prigioniere hanno rivelato che tutte avevano subito torture e confessioni forzate ed erano state minacciate di morte, lapidazione, esecuzione tramite plotone di esecuzione e rappresaglie contro le loro famiglie.

Il trattamento variava da una detenuta all’altra, alcune trattenute per brevi periodi e altre per diversi mesi. I talebani costrinsero tutte le donne rilasciate a fornire confessioni, preparate prima degli interrogatori e con la costrizione di recitarle di fronte alle telecamere con quelle precise parole. Se rifiutavano venivano sottoposte ad abusi fisici e verbali, tra cui percosse con cinture, schiaffi e insulti degradanti.

Racconti terribili

Humaira (pseudonimo), una delle donne che protestavano, ha confermato in un’intervista con Hasht-e Subh Daily di essere stata torturata dai talebani, descrivendo la detenzione come brutale e disumana. Ha raccontato che ogni volta che veniva portata per l’interrogatorio, veniva prima appesa per i piedi, le mani legate dietro la schiena, e poi frustata prima di essere tenuta in stanze umide. Gli interrogatori comprendevano umiliazioni, insulti e confessioni forzate.

Humaira ha dichiarato che le era consentito usare il bagno solo tre volte al giorno e le era proibito parlare con le guardie. Non aveva contatti con la sua famiglia e le erano state negate le medicine nonostante la sua malattia. Era stata anche privata dell’assistenza legale e le venivano estorte confessioni forzate a giorni alterni. I talebani la costringevano a rilasciare dichiarazioni su azioni che non aveva mai commesso. Sebbene fosse presente in prigione  personale femminile talebano, tutti gli atti di tortura venivano eseguiti da combattenti maschi, che la picchiavano e la insultavano.

Quando parlava delle confessioni forzate, la voce di Humaira tremava e scoppiò a piangere. Spiegò che, a causa delle norme culturali dell’Afghanistan e per proteggere la sua famiglia da traumi psicologici, aveva nascosto loro l’entità della sua sofferenza. “La mia famiglia non sa delle mie confessioni forzate perché l’ambiente culturale dell’Afghanistan è molto duro. Se venissero a sapere cosa mi è successo, i miei famigliari cadrebbero in depressione e subirebbero un duro colpo emotivo. I talebani ci hanno spogliate completamente, hanno filmato le confessioni e hanno minacciato di pubblicare i video se avessimo parlato degli interrogatori. Hanno usato questo metodo con tutte le prigioniere, facendoci ripetere  davanti alla telecamera confessioni preparate, mentre tre uomini armati stavano lì vicino, minacciandoci. Immagina una donna nuda o seminuda davanti a una telecamera: cosa potrebbe esserci di peggio?”

Humaira ha aggiunto che le confessioni estortele erano del tutto inventate. “I talebani mi hanno costretta a dire che avevo ricevuto denaro dall’America per protestare contro le loro politiche. Mi hanno minacciata di confessare che avevo ricevuto denaro da Richard Bennett, il relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani, per protestare contro l’hijab. Volevano che dicessi che intendevo reclutare ragazze per attività immorali e addestrarle come ballerine da inviare in Occidente per essere sfruttate. Queste false confessioni sono state estorte a tutte, spesso mentre erano nude o seminude”.

Nelle celle di isolamento non c’era nessuno che offrisse anche solo un briciolo di compassione. “I talebani hanno avuto accesso al mio telefono e ai miei account sui social media, interrogandomi sugli indirizzi di altre manifestanti donne e mostrandomi le loro foto, chiedendomi di scrivere i loro nomi”, ha affermato Humaira, che non riusciva a sopportare la tortura e sveniva entro dieci minuti quando veniva appesa per i piedi, dopodiché veniva trasferita in stanze umide e picchiata.

Humaira ha raccontato le storie di altri prigionieri, dicendo che facevano sembrare meno grave la sua sofferenza. “I talebani hanno offerto a una giovane donna la libertà se avesse sposato un membro dei talebani. Ho visto un’altra donna imprigionata con i suoi figli, senza visitatori. I bambini erano depressi, i loro corpi senza vita, indeboliti dallo shock della loro situazione. Erano stati arrestati con accuse che non capivano nemmeno. Ogni giorno diventavano più deboli, subendo un enorme trauma psicologico”.

Dice di essere sotto shock e di provare un grave disagio mentale ed emotivo. Secondo lei, nessuno aiuta nessuno nella situazione attuale. Aggiunge: “Purtroppo, le mie condizioni non sono buone. Non posso parlare con i dottori al telefono. Vorrei che ci fosse un dottore che potesse ascoltare tutte le mie parole e avesse un rimedio per la sofferenza e la tortura che ho sopportato. Finora, nessuno mi ha aiutato e sto lottando con un dolore e un’incertezza immensi”.

Condizioni detentive disumane

Anche Parnian (pseudonimo), un’altra donna che ha protestato e che ha sperimentato l’amara e dolorosa realtà delle prigioni talebane, conferma che le donne nei centri di detenzione talebani sono sottoposte a torture, umiliazioni e insulti. Afferma che sebbene le sue ferite fisiche siano guarite, non dimenticherà mai gli insulti e le parolacce che ha sentito dai talebani. Racconta che i talebani l’hanno arrestata in modo orribile e che durante i suoi giorni in isolamento le è stato permesso di usare il bagno solo una volta al giorno, costretta a sopportare due cicli mestruali in isolamento senza servizi igienici o prodotti per l’igiene. L’umidità della cella, la mancanza di pulizia e la malattia hanno fatto sì che tutto il suo corpo emanasse un cattivo odore. Dice: “Ho pregato molte volte senza abluzioni, chiedendo a Dio di attribuire il peccato ai talebani. Lì puzzavo, e sento che quell’odore è ancora nel mio corpo”.

Parnian conferma che anche a lei i combattenti talebani le hanno legato le mani dietro la schiena e le hanno messo un sacco nero sulla testa durante l’arresto. Dice che è stata portata all’interrogatorio almeno tre giorni dopo essere stata messa in isolamento, e aggiunge: “C’era un tavolo a forma di croce. La sedia dietro era molto bassa, mettevano le mani sul tavolo e le ammanettavano. Ma non era un vero interrogatorio: ti facevano sedere, ti insultavano, ti picchiavano, ti chiamavano prostituta, ti accusavano di andare dagli americani di notte, ti dicevano che sette o otto uomini ti sarebbero stati addosso e usavano parole volgari. Poi recitavano testi religiosi, si soffiavano addosso come per proteggersi dai presunti peccati e dicevano che Dio li aveva salvati dal nostro male. Se dicevo qualcosa, mi prendevano a pugni e schiaffi”.

“Durante l’interrogatorio, un talebano aveva una cintura in mano, che usava spesso, colpendo con la parte metallica, che poteva farti svenire se colpiva l’osso. Non facevano domande, ti prendevano con la scusa dell’interrogatorio e ti torturavano. Dicevano di ripetere tutto quello che ci suggerivano. Quando ho detto che non l’avrei fatto e che non avrei mentito, mi hanno schiaffeggiato così forte che mi sono bruciati gli occhi. Hanno detto: “Hai dato il tuo corpo agli occidentali e ora non ci parli?” Quando ho sistemato il mio velo, hanno detto: “Hai camminato a piedi nudi per le strade, resta qui allo stesso modo e parla”. Alla fine, ho dovuto fare una confessione forzata e ripetere tutto quello che dicevano per sfuggire al loro tormento”.

Questa ex prigioniera talebana afferma che le torture psicologiche e fisiche dei talebani sono indimenticabili. Sottolinea che il pestaggio di una donna da parte di uomini, gli insulti e le umiliazioni che lei e altri hanno sopportato non saranno mai dimenticati e un giorno i talebani saranno ritenuti responsabili di tutte queste atrocità. Dice di aver assistito ad altri incidenti scioccanti in prigione. Aggiunge: “Un giorno volevo andare in bagno e una donna era malata. La donna era sdraiata nell’angolo della stanza, soffriva per le doglie e nessuno si preoccupava di lei. Ha sopportato il suo dolore e ha partorito da sola nelle sporche condizioni carcerarie. E’ stato orribile. C’erano donne in prigione i cui figli non avevano mai visto il mondo esterno. Il motivo per cui la maggior parte delle donne venivano imprigionate era sconosciuto, molte venivano arrestate solo per la loro etnia”.

Parnian racconta che nei primi tempi i talebani le bruciarono una mano e in seguito, poiché la bruciatura raggiunse l’osso, non la appesero più per i piedi, ma la sottoposero ad altre torture, tra cui pugni, calci e percosse con cinture. Aggiunge: “Quando mi dicevano di dire qualcosa e mi rifiutavo, mi coprivano il viso con sacchetti di plastica finché non ero costretta a parlare. Mi picchiavano con le cinture. Una volta, la cintura mi colpì l’occhio e ho ancora la cicatrice. L’acqua del riscaldamento si infiltrava nella stanza, bagnando tutto. Mi diedero una vecchia, sporca e sottile coperta e i suoi effetti rimangono: ho ancora dolore alle gambe e alla schiena. Ho visto ragazze trascinate per i piedi e ho sentito le loro urla mentre imploravano il religioso di fermarsi, dicendo che le stavano tagliando le gambe. Ho persino sentito le urla di uomini a cui erano appese pietre ai testicoli”.

Parnian aggiunge: “Un giorno, quando mi hanno portato all’interrogatorio, mi hanno chiesto chi mi sosteneva. Uno di loro si è messo dietro di me con una baionetta innestata su un Kalashnikov e ha detto che se non avessi confessato, mi avrebbe tagliato la carne con il coltello e mi avrebbe staccato la pelle dalla mano”.

Le cicatrici psicologiche non si possono dimenticare

Mehrafarin (pseudonimo), un’altra ragazza che protesta e che ha subito la detenzione da parte dei talebani, dice di aver protestato per il diritto delle donne all’istruzione e alla fine ha dovuto sopportare varie forme di umiliazione, insulti e torture da parte dei talebani, così come lo sguardo discriminatorio della società. Aggiunge che le ferite fisiche guariscono nel tempo, ma le cicatrici psicologiche che ha sopportato non saranno mai guarite o dimenticate. Con voce strozzata dice: “Quando una ragazza viene detenuta in Afghanistan, la sua vita sociale non torna mai alla normalità. Nessuno può sopportare questa amarezza. Le persone fanno commenti estremamente duri e ingiusti e ricorrono a insulti e umiliazioni”.

Aggiunge: “I talebani non mi hanno permesso di incontrare la mia famiglia in prigione. Ci picchiavano e ci insultavano, ci chiedevano perché non eravamo sposate. Dicevamo che eravamo minorenni e che dovevamo studiare, ma ci chiamavano infedeli e ci picchiavano con pugni, calci e calci dei fucili. Mia sorella, a causa dei colpi alla testa, ha sviluppato disturbi neurologici e forti mal di testa. Sono anche malata e sotto shock. I talebani non consideravano le donne in prigione come esseri umani ”.

Sandokht (pseudonimo), una delle donne che protestavano, dice: “Quando i talebani ci hanno arrestate, avevo paura di essere aggredite sessualmente. Tutte le ragazze erano spaventate e le nostre mani e i nostri piedi tremavano. Quando sono arrivate le dipendenti talebane, ci hanno spaventate e minacciate ancora di più. Ci dicevano che ci avrebbero lapidate, che avrebbero sparso del sale sulla neve e sul cemento e poi ci avrebbero lasciate all’aria fredda a camminarci sopra. Ci chiedevano se capivamo contro chi ci stavamo schierando. Dicevano che ora che eravamo lì, avremmo dovuto piangere così tanto che i nostri volti si sarebbero spellati dalle lacrime”.

Aggiunge: “Avevo paura delle minacce delle dipendenti talebane. Avevo un bambino piccolo che piangeva e diceva che dovevamo andare a casa perché faceva freddo e non c’era acqua. Anche l’acqua del water era tagliata e gocciolava. Non importa quanto mio figlio chiedesse acqua, non riuscivo a trovare acqua pulita per lui. Gli ho dato un po’ di acqua del water in una brocca e il giorno dopo non riusciva a sollevare la testa, ammalato gravemente. Non c’erano né dottori né medicine. I talebani hanno chiesto soldi alla mia famiglia per il mio rilascio, ma loro hanno detto che non avevano più una figlia. Mi hanno rinnegata per liberarsi dei talebani”.

Mehrasa (pseudonimo), un’altra donna che protesta, dice che i talebani le hanno legato le mani dietro la schiena durante il suo arresto. La prima notte in prigione le hanno versato acqua fredda sulla testa, l’hanno portata per interrogarla e le hanno chiesto perché stesse protestando contro il regime dei talebani. “Mi hanno puntato una pistola all’orecchio e hanno detto che mi avrebbero uccisa, giustiziata. Mi hanno chiesto perché stessi protestando. Mi hanno picchiata e sono stata così spaventata che sono svenuta”.

I talebani hanno negato alla sua famiglia di averla portata dentro e poi hanno detto: “Siete disonorevoli e senza dignità perché non sapete che vostra moglie e vostra figlia stanno servendo degli stranieri”. Secondo lei, il peggior tipo di tortura è quando i talebani detengono una donna senza alcun crimine, senza accesso a un avvocato difensore e senza un giusto processo.

Questa ex prigioniera talebana afferma che tutto è possibile nelle prigioni talebane. Le donne arrestate dai talebani immaginano di tutto, dalla lapidazione allo stupro. Aggiunge anche che le donne i cui arresti sono pubblicizzati dai media vengono risparmiate dalla morte e dalla lapidazione, ma vengono comunque torturate.

Nel frattempo, negli ultimi tre anni, i talebani hanno arbitrariamente arrestato diverse donne con varie accuse. Oltre a tenere tribunali extragiudiziali e a fustigare pubblicamente le donne, i talebani hanno imprigionato centinaia di donne e ragazze in un processo ingiusto, accusandole di collaborare con fronti anti-talebani, di avere relazioni extraconiugali o di parlare al telefono con uomini che considerano non-mahram (uomini non imparentati).

Già precedentemente Hasht-e Subh Daily, in diverse indagini, aveva scoperto che alcune donne nelle prigioni e nei centri di detenzione dei talebani erano state sottoposte ad aggressioni sessuali sia individuali che di gruppo da parte di membri talebani e che durante gli interrogatori i talebani avevano ordinato alle detenute di spogliarsi e gravemente torturate quelle che si rifiutavano, al punto che i loro organi genitali venivano picchiati.

I talebani mandano le figlie in scuole “occidentali”


L’attore e filantropo scozzese David Hayman ha affermato che i talebani stanno mandando le loro figlie in una scuola in Afghanistan finanziata dalla sua organizzazione benefica, Spirit Aid

Kabul Now, 26 febbraio 2025

In un’intervista al quotidiano scozzese The Herald, Hayman ha affermato che attualmente la scuola accoglie circa 80 studenti, sia maschi che femmine.

“Ho ancora la mia piccola scuola in Afghanistan, che ospita 80 alunni, ragazzi e ragazze. I talebani mandano le loro figlie a scuola”, ha detto.

Hayman ha condannato le azioni dei talebani, definendoli “bastardi doppi” per aver negato l’istruzione alla maggior parte delle ragazze afghane, mentre vi iscrivevano le proprie figlie.

Non ha rivelato l’ubicazione della scuola in Afghanistan.

L’attore, che ha fondato Spirit Aid nel 2001, ha dichiarato che spera di mettere in scena un’opera teatrale che metta in luce la difficile situazione delle donne afghane.

“Le donne sono ormai delle non cittadine, non possono più ridere o cantare nelle loro case, dove l’istruzione è limitata alla scuola primaria e non possono accettare un lavoro”, ha affermato.

Secondo il sito web dell’organizzazione benefica, Spirit Aid è attiva in Afghanistan dal 2002 e fornisce aiuti umanitari, tra cui servizi medici, alle comunità isolate.

Dopo il loro ritorno al potere nel 2021 i talebani hanno vietato l’istruzione alle ragazze oltre la sesta elementare e hanno escluso le donne dalle università e dalla maggior parte dei lavori. Nonostante i ripetuti appelli delle Nazioni Unite, delle organizzazioni per i diritti umani e della comunità internazionale, compresi i paesi islamici, i talebani non hanno ancora invertito le loro politiche.

Tuttavia, diversi resoconti indicano che alcuni membri senior dei talebani stanno silenziosamente assicurando l’istruzione alle proprie figlie. Un‘indagine del 2022 dell’Afghanistan Analysts Network (AAN) ha scoperto che membri di alto rango dei talebani stanno mandando le proprie figlie in scuole e università all’estero.

AAN ha citato un funzionario talebano in Qatar che ha ammesso di aver iscritto le sue figlie nelle scuole locali: “Dato che tutti nel quartiere andavano a scuola, le nostre figlie hanno preteso di andarci anche loro”.

Il rapporto ha anche scoperto che la figlia di un attuale ministro talebano sta studiando medicina presso un’università in Qatar.

“I membri dei talebani e le loro famiglie che vivono qui [in Qatar] hanno forti richieste per un’istruzione moderna, e nessuno si oppone né per i ragazzi né per le ragazze, di qualsiasi età”, ha detto ad AAN un ex funzionario talebano di stanza in Qatar.

I Talebani respingono la Corte Penale Internazionale

Anirudh Sharma, Jurist News, 22 febbraio 2025

I talebani rifiutano la giurisdizione della CPI e dichiarano nulla l’adesione allo Statuto di Roma del 2003

Giovedì i Talebani hanno annunciato che l’Afghanistan non riconoscerà più la giurisdizione della Corte penale internazionale (CPI), in quanto, a loro dire, l’adesione del Paese allo Statuto di Roma del 2003 sarebbe da considerarsi legalmente nulla, dopo che il mese scorso il procuratore della CPI, Karim Khan, ha richiesto mandati di arresto per il leader supremo dei Talebani, Hibatullah Akhundzada, e per il Presidente della Corte suprema afghana, Abdul Hakim Haqqani.

I Talebani hanno accusato la Corte penale internazionale di parzialità politica e di non aver ritenuto gli occupanti stranieri responsabili delle atrocità commesse durante la campagna militare condotta dagli Stati Uniti in Afghanistan dal 2001 al 2021. Il gruppo ha inoltre sottolineato che le principali potenze globali, tra cui gli Stati Uniti, non sono firmatarie dello Statuto di Roma, affermando che è “ingiustificato che una nazione come l’Afghanistan, che ha storicamente sopportato l’occupazione straniera e la sottomissione coloniale, sia vincolata dalla sua giurisdizione”.

L’Afghanistan ha firmato lo Statuto di Roma nel 2003 sotto un governo sostenuto dall’Occidente, consentendo così alla CPI di perseguire i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità che si verificano nel territorio afghano. Tuttavia, i talebani, che hanno estromesso il governo precedente e preso il potere nell’agosto 2021, hanno dichiarato che tale decisione è ora priva di qualsiasi sostegno legale. ” In quanto entità che sostiene i valori religiosi e nazionali del popolo afghano nel quadro della Sharia islamica, l’Emirato islamico dell’Afghanistan non riconosce alcun obbligo nei confronti dello Statuto di Roma o dell’istituzione denominata “Corte penale internazionale” “, hanno affermato i talebani.

“In numerosi Paesi, tra cui l’Afghanistan, milioni di civili innocenti, soprattutto donne e bambini, hanno subito oppressioni e atti di violenza. Tuttavia, questo ‘tribunale’ ha clamorosamente fallito nell’affrontare queste gravi ingiustizie”, ha dichiarato il vice portavoce dei Talebani, Hamdullah Fitrat.

Il procuratore della CPI Karim Khan ha citato l’azione penale contro le donne, le ragazze e le persone LGBTQ+ afghane come elemento centrale dei mandati di arresto emessi nei confronti dei principali esponenti talebani. La persecuzione basata sul genere viola l’articolo 7 (1) (h) dello Statuto di Roma ed è considerata un crimine contro l’umanità. Secondo quanto riportato dall’UNESCO nell’agosto 2022, almeno 1,4 milioni di ragazze afghane non hanno ricevuto l’istruzione secondaria sotto il governo talebano.

L’amministrazione talebana respinge queste affermazioni, sostenendo che il suo governo è in linea con gli insegnamenti radicati nei comandi divini. “Ogni decreto che emette è basato sulla consultazione con gli studiosi e deriva dal Corano e dagli Hadith [detti del profeta dell’Islam] e rappresenta i comandi di Allah”, ha dichiarato il portavoce del governo.

Sebbene il governo talebano abbia ritirato la sua adesione allo Statuto di Roma, la CPI mantiene la giurisdizione sui crimini commessi prima del ritiro, secondo quanto stabilito dall’articolo 127 dello Statuto di Roma.

 

La Corte penale internazionale apre uno spiraglio di giustizia per le donne afghane

altraeconomia.it 17 febbraio 2025

Il procuratore capo della Cpi Karim Khan ha richiesto a fine gennaio un mandato di arresto per i leader dei Talebani, accusati di aver commesso il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere. Un atto importante per le donne perseguitate e per certi versi inedito ma che per essere efficace richiede che i Paesi occidentali e i firmatari dello Statuto di Roma rinnovino il sostegno alla Corte. Il commento del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane

Il 23 gennaio 2025 il procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi) Karim Khan ha lanciato un forte atto d’accusa nei confronti dei Talebani: ha richiesto l’arresto del leader supremo, Mullah Hibatullah Akhundzada, e per il suo giudice capo, Abdul Hakim Haqqani, perché ritenuti responsabili del crimine contro l’umanità di persecuzione di genere.

La documentata accusa sta in due lunghi e dettagliati documenti che danno il quadro dei crimini commessi dai Talebani in questi ultimi tre anni e mezzo e del ruolo diretto dei due accusati nell’architettare e sostenere la sistematica violazione dei diritti delle donne e delle persone Lgbtqi+, persecuzione commessa almeno dal 15 agosto 2021 e fino a oggi in tutto il territorio dell’Afghanistan.

È una decisione storica: per la prima volta una richiesta di indagine della Cpi è incentrata sul crimine di persecuzione di genere come reato principale, e non solo per le azioni persecutorie contro le donne e le ragazze ma anche per quelle messe in atto nei confronti delle persone Lgbtqi+

Un atto coraggioso, che supera i tentennamenti e le politiche contraddittorie dell’Onu e degli Stati cosiddetti democratici che rifiutano formalmente il riconoscimento del governo talebano ma intanto invitano i propri esponenti ai convegni internazionali e con loro fanno affari.

Finalmente qualcosa si muove anche a livello istituzionale in difesa delle donne afghane e del loro diritto all’esistenza. Qualcuno si è accorto della loro quotidiana insopportabile sofferenza e, andando oltre le astratte dichiarazioni in difesa dei diritti umani, si è esposto con un atto concreto.

Di fronte all’assoluta impermeabilità del governo talebano alle ingiunzioni delle istituzioni internazionali che richiedono il ritiro dei provvedimenti e il ripristino dei diritti delle donne, la risposta non può essere quella di cancellare il problema dalle agende politiche e recedere dalle pressioni per ingraziarsi i Talebani con concessioni commerciali e aiuti economici. E nemmeno quella di scommettere su una divisione del fronte talebano per poterne appoggiare gli esponenti più moderati, perché non ci sono Talebani cattivi e Talebani buoni: sono tutti comunque fondamentalisti.

La provata continuata oppressione delle donne in quanto genere e delle persone che non si conformano alla visione del mondo dei Talebani sarebbe stata meglio definita dal termine “apartheid di genere” (Adg), con il quale ormai da tutti viene nominata la persecuzione sistematica delle donne che avviene in Afghanistan, e in modo meno eclatante anche in altri Paesi. Ma la Cpi non poteva usare questo termine perché l’Adg non è un reato previsto dallo Statuto di Roma, che contempla l’apartheid basato sulla discriminazione etnica ma non sul genere.

Sebbene la Cpi abbia cercato di aggiornare e integrare il reato di persecuzione di genere, l’Adg rimane una definizione più ampia e comprensiva di tutte le sfaccettature e gli aspetti politici che le differenze di genere comprendono. Perciò da varie parti si avanza la richiesta di rivedere lo Statuto di Roma integrandolo con il crimine specifico di Adg. Anche il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda) si unisce a questa richiesta nella sua “Campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere” già avviata da novembre 2024.

Nel settembre dello scorso anno Canada, Germania, Australia e Paesi Bassi, seguiti successivamente da altre 20 nazioni, hanno annunciato la loro intenzione di deferire i Talebani presso il più alto tribunale delle Nazioni Unite, la Corte di giustizia internazionale, per le diffuse violazioni dei diritti umani contro le donne nel mancato rispetto della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw) di cui l’Afghanistan è firmatario. La procedura è in corso, vedremo nei prossimi mesi come andrà avanti.

Intanto, il 28 novembre scorso Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico hanno esortato il procuratore della Cpi a indagare sulle violazioni sistematiche e continue dei diritti delle donne e delle ragazze da parte dei Talebani.

Accogliendo la loro richiesta, a fine gennaio, il procuratore, che aveva già annunciato la ripresa delle indagini sulla situazione in Afghanistan dopo un periodo di differimento, ha presentato le richieste di arresto per i due Talebani.

I giudici della Cpi hanno tempo tre mesi per decidere se accogliere la richiesta. Se i mandati venissero emessi, i due uomini potrebbero essere arrestati in qualsiasi Paese membro della Corte, anche se, data la loro propensione a rimanere all’interno di Paesi amici, gli arresti e i processi sono in realtà una prospettiva lontana.

Potrebbe sembrare quindi un atto con scarse ricadute pratiche. Tuttavia, anche se questi mandati non dovessero portare all’arresto immediato e al perseguimento dei leader Talebani, avrebbero comunque l’effetto di danneggiare la loro posizione politica di fronte all’opinione pubblica mondiale. Rappresenterebbero un passo significativo nella lotta contro il riconoscimento internazionale del governo talebano, in un momento in cui molti Stati e l’Onu stesso si stanno adoperando per trovare giustificazioni umanitarie ed economiche che permettano di riconoscere al governo talebano il diritto a rientrare di fatto nella comunità internazionale nonostante la loro visione fondamentalista, condannata a parole da tutti gli Stati ma subita nei fatti in nome del pragmatismo.

La presa di posizione della Cpi ci costringe a ricordare che è ancora viva la tragedia delle donne in Afghanistan, un Paese uscito dai radar mediatici sulla spinta di altre catastrofi più recenti e dalla consapevolezza che l’opinione pubblica spesso facilmente dimentica le tragedie appena escono dall’immediato presente.

Ma soprattutto dovrebbe rendere evidente ai politici e alle istituzioni mondiali che impegnarsi con il governo dei Talebani, convocarli ai convegni internazionali, mediare con loro significa dare credibilità a un governo di criminali.

Per le donne vittime della persecuzione di genere la prospettiva aperta dalla Cpi rappresenta una speranza di riconoscimento della gravità della loro sofferenza e del loro coraggio. Ma se la giustizia vuole essere giusta non deve dimenticare le responsabilità dei Paesi occidentali. Nei vent’anni di guerra e occupazione le forze della coalizione, Stati Uniti in testa, si sono macchiate di numerosi atti di violenza e torture sulla popolazione civile.

Human rights watch (Hrw) e Amnesty international ricordano giustamente che tutte le vittime sono uguali e hanno uguale diritto al riconoscimento e al risarcimento. Perciò la Cpi non deve limitarsi a prendere in considerazione le vittime recenti del governo talebano ma deve invece riconsiderare le responsabilità di tutti gli attori in campo colpevoli di atti di barbarie, violenze, torture e ingiustizie che hanno provocato le numerosissime vittime civili.

L’Afghanistan ha aderito nel 2003 al Trattato di Roma che ha istituito la Cpi. Era il 2006 quando venne avviato un esame preliminare sui possibili crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Afghanistan dalle varie parti, cioè l’esercito degli Stati Uniti e la Cia, le forze di sicurezza afghane e la rete dei Talebani e degli Haqqani. Ma fu solo nel 2017 che l’allora procuratore Fatou Bensouda chiese ai giudici della Camera preliminare di autorizzare l’indagine ufficiale.

Passarono anni di immobilismo in attesa che si decidesse quale ambito di inchiesta fosse consentito effettuare. E quando nel 2023 è stato concesso di includere nelle indagini anche i recenti “nuovi attori” oltre ai responsabili dei venti anni precedenti, Khan ha deciso di concentrare le sue inchieste sui Talebani e sull’Iskp, escludendo di fatto la Cia, l’esercito statunitense e le forze della Repubblica afghana dalla sua competenza, considerando troppo oneroso condurre ricerche su casi di così ampia portata.

Una decisione forse realistica ma che ha creato una “gerarchia nelle vittime” determinata dall’identità del presunto autore, invece che dalla portata e gravità dei crimini. “Un insulto a migliaia di vittime di crimini commessi dalle forze governative afghane e dalle forze statunitensi e della Nato”, come l’ha giustamente definita un’attivista afghana.

La Cpi sta affrontando in questi giorni una pressione significativa a livello internazionale, che potrebbe avere conseguenze sulle sue indagini e sulla sua stessa esistenza. Gli Stati parte dello Statuto di Roma che governa la Corte, tra cui l’Italia, dovrebbero confermare l’importanza di questa istituzione e supportare concretamente l’esercizio del suo mandato indipendente, garantendole con il sostegno e l’assistenza pratica la possibilità di espandere le sue indagini in Afghanistan.

Beatrice Biliato fa parte del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda)

Donne Insieme: nuova petizione del Cisda per le donne in Afghanistan

Casale News, 14 febbraio 2025

Sabato 15 febbraio, dalle 9.30 alle 18, presidio e letture per bambini in Piazza Mazzini

Il Collettivo Donne Insieme, che da qualche anno segue con assiduità le vicende dell’Afghanistan ed in particolare della condizione delle donne, si ripresenta con un presidio in piazza Mazzini sabato 15 febbraio dalle 9.30 alle 18 per promuovere la nuova petizione Stop Fondamentalismi – Stop Apartheid di genere e per raccogliere fondi per il finanziamento dei progetti di sostegno già avviati negli anni scorsi.

In questi ultimi mesi il governo talebano ha aggiunto nuovi provvedimenti restrittivi delle possibilità di vita delle donne (le libertà e i diritti sono già del tutto negati, ora si può soltanto parlare di condizioni di sopravvivenza): è stato introdotto il divieto di aprire le finestre o addirittura l’ordine di murarle (sì, proprio così) per impedire alle donne di vedere cortili, cucine, pozzi dei vicini e altri luoghi frequentati da altre donne; è stato chiuso il corso di studi Ostetricia e medicina, per cui le donne non avranno più la possibilità di essere curate, non potendo in futuro rivolgersi a medici donna.

A fronte di questa situazione, un lungo elenco di paesi ha preso una decisa posizione di condanna del governo talebano, rivolgendosi alla Corte Internazionale di Giustizia e/o alla Corte Penale Internazionale: proprio quest’ultima ha richiesto un mandato di arresto internazionale per il leader supremo dei talebani, Hibatullah Akhundzada e suoi collaboratori. Altri paesi invece, Europa inclusa, hanno accettato il confronto diplomatico diretto col governo fondamentalista, accogliendo le condizioni poste da quest’ultimo (escludere la presenza femminile dai negoziati ed escludere dai temi affrontati proprio la condizione delle donne)

La persecuzione sistematica delle donne da parte dei fondamentalisti talebani ha spinto il Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno Donne –afghane, con cui Donne Insieme collabora) a promuovere una petizione al Governo Italiano affinché sostenga alcune azioni e se ne faccia promotore presso le istituzioni internazionali:

– Riconosca l’apartheid di genere” come crimine contro l’umanità (si riferisce a violazioni sistematiche e istituzionalizzate contro le donne)

– Non venga dato riconoscimento di alcun tipo al regime fondamentalista talebano

– Venga dato invece sostegno e supporto alle voci democratiche antifondamentaliste che ancora resistono all’interno del Paese

Il presidio di Donne Insieme è finalizzato a raccogliere adesioni a questa petizione, ad informare sulla situazione delle donne e sulle azioni promosse a vari livelli.

Uno spazio sarà dedicato ai bambini, che potranno ascoltare la lettura di fiabe afghane dalle 10,30 alle 11,30.

La petizione Stop Fondamentalismi – Stop Apartheid di genere si trova qui

Si può aderire come Associazione scrivendo a rete@cisda.it

Il SIGAR, l’organismo di controllo USA, lancia l’allarme sull’Afghanistan

Hammad Sarfraz,  The Express Tribune, 3 febbraio 2025

Gli aiuti esteri hanno fatto poco per frenare l’oppressione dei talebani o fermare la spirale discendente del paese

 

Dopo il caotico ritiro degli Stati Uniti, miliardi di dollari in aiuti esteri sono stati riversati in Afghanistan, ma i talebani continuano a essere riluttanti a migliorare la governance, a combattere il terrorismo o a porre fine all’oppressione delle donne, ha avvertito un organismo di controllo statunitense.

Il paese dilaniato dalla guerra è invece sprofondato in una crisi ancora più profonda sotto il dominio dei talebani, secondo l’ultimo rapporto trimestrale dell’Ispettore generale speciale per la ricostruzione dell’Afghanistan (SIGAR). La situazione, ha affermato l’ente di controllo, rimane disperata, con il gruppo militante che rafforza la sua presa sul potere ignorando le crescenti preoccupazioni per un’economia in difficoltà, diffuse violazioni dei diritti e la crescente minaccia del terrorismo.

Nel suo rapporto al Congresso, l’ispettore generale ha osservato che oltre 3,71 miliardi di dollari di aiuti statunitensi sono confluiti in Afghanistan dal 2021, con oltre il 64% dei fondi instradati attraverso le agenzie delle Nazioni Unite, la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA) e l’Afghanistan Resilience Trust Fund gestito dalla Banca mondiale. Tuttavia, l’organismo di controllo ha avvertito che gli aiuti hanno fatto poco per mitigare le politiche repressive dei talebani o impedire il continuo declino del paese, sollevando nuove domande sull’efficacia del sostegno internazionale.

Le donne, che secondo l’ONU sono state cancellate dalla vita pubblica afghana sotto l’ultima iterazione del governo talebano, continuano ad affrontare gravi restrizioni, ha messo in guardia il rapporto SIGAR. L’istruzione secondaria per le ragazze rimane vietata e alle donne è proibito lavorare nella maggior parte dei settori, tra cui ONG e assistenza sanitaria. Il rapporto sottolinea anche la crescente difficoltà nella distribuzione degli aiuti umanitari, poiché le barriere imposte dai talebani impediscono che l’assistenza essenziale raggiunga coloro che ne hanno più bisogno.

Gli analisti notano che le politiche dei talebani presentano sorprendenti somiglianze con il loro primo governo degli anni ’90, nonostante anni di impegno internazionale e miliardi di aiuti volti a incoraggiare la moderazione. “I talebani afghani hanno gradualmente imposto restrizioni che ricordano il loro precedente regime”, ha affermato Hassan Akbar, Pakistan Fellow presso il Wilson Center, un think tank con sede a Washington. Ha aggiunto che né gli sforzi diplomatici né gli aiuti umanitari hanno temperato l’approccio intransigente del gruppo.

Preoccupazioni crescenti

Il rapporto dell’ispettore generale speciale documenta ulteriormente che nel 2022 gli Stati Uniti hanno trasferito 3,5 miliardi di dollari in asset congelati della banca centrale afghana a un fondo con sede in Svizzera, che ora vale quasi 4 miliardi di dollari. Tuttavia, i talebani, ancora non riconosciuti a livello internazionale e sotto sanzioni, non hanno accesso a questi fondi. L’ente di controllo statunitense per la ricostruzione afghana nota che il congelamento ha reso fragile il sistema bancario del paese e ne ha aggravato il collasso economico.

L’ultimo rapporto di supervisione porta alla luce anche un aumento del 40% negli attacchi ISIS-K nel 2024, mentre il Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP) e i suoi affiliati hanno effettuato più di 640 attacchi, un aumento del 25% rispetto all’anno precedente. Un assalto di dicembre da parte dei militanti del TTP ha ucciso 16 ufficiali della sicurezza nel Waziristan meridionale, spingendo Islamabad ai primi attacchi aerei transfrontalieri contro le forze talebane. Gli attacchi nella provincia di Paktika in Afghanistan hanno ucciso diversi comandanti del TTP e distrutto una struttura di addestramento.

Le valutazioni dell’intelligence suggeriscono che le aree controllate dai talebani fungono da centri operativi per gli estremisti, sollevando timori che l’Afghanistan stia di nuovo diventando un santuario per le organizzazioni terroristiche. Gli scontri di confine tra Pakistan e forze talebane sono aumentati e, in risposta, Islamabad ha deportato centinaia di migliaia di rifugiati afghani. Mentre aumentano le tensioni regionali, i rapporti indicano che i talebani continuano a fornire un passaggio sicuro per i combattenti del TTP, aggiungendosi alle crescenti preoccupazioni sul ruolo del paese nel panorama della sicurezza dell’Asia meridionale.

Ashok Swain, professore di pace e conflitto all’Università di Uppsala, ha sottolineato i legami di lunga data dei talebani con il terrorismo, osservando che queste connessioni rimangono parte integrante dell’identità del gruppo. “Storicamente, la loro identità è profondamente intrecciata con gli atti di terrorismo e la soppressione del dissenso attraverso la violenza”, ha spiegato.

Swain ha aggiunto che c’è scetticismo sulla volontà dei talebani di abbandonare queste tattiche, soprattutto alla luce delle loro recenti azioni. La fiducia, ha detto l’accademico svedese, è subordinata a cambiamenti osservabili nel comportamento per un periodo prolungato, combinati con misure concrete verso l’inclusività, la responsabilità e l’aderenza alle norme internazionali. Senza tali riforme, ha ammonito Swain, i talebani sembrano essere tornati a tattiche che supportano il terrorismo e aggravano i conflitti regionali.

Punto di svolta

La decisione del presidente Donald Trump di congelare gli aiuti esteri degli Stati Uniti per 90 giorni ha aggravato i problemi dell’Afghanistan, con le agenzie di soccorso che hanno avvertito che potrebbe spingere milioni di persone ancora più in profondità nella crisi. Mentre la sospensione è pensata per rivalutare la spesa, rischia di paralizzare gli sforzi di aiuto in Afghanistan, dove l’economia è già in caduta libera. L’ONU ha avvertito che un congelamento prolungato potrebbe innescare una carestia di massa e il crollo dei servizi di base. Secondo l’ultima valutazione del SIGAR, circa 16,8 milioni di afghani hanno bisogno di assistenza urgente. Tuttavia, le restrizioni imposte dai talebani continuano a bloccare la distribuzione degli aiuti, peggiorando la carenza di cibo e mettendo a dura prova l’assistenza sanitaria. Gli ospedali, ha avvertito il rapporto, stanno esaurendo le scorte, la malnutrizione infantile è in aumento e la diminuzione dell’accesso all’acqua pulita sta alimentando la diffusione delle malattie.

“Il congelamento degli aiuti statunitensi acuirà le divisioni all’interno dei talebani, peggiorerà la crisi umanitaria e accrescerà la minaccia di attacchi da parte di gruppi terroristici attivi”, ha ammonito Hassan Akbar, Pakistan Fellow presso il Wilson Center.

Nel complesso, il rapporto trimestrale del SIGAR dipinge un quadro desolante del futuro dell’Afghanistan sotto i talebani. Nel suo documento di 133 pagine, l’ente di controllo statunitense evidenzia la priorità del regime al controllo sulla governance, con scarsa attenzione alla ricostruzione del paese o al miglioramento delle condizioni di vita della sua gente. “I talebani non hanno mostrato alcuna capacità, o volontà, di governare in modo efficace”, afferma il rapporto, aggiungendo che la situazione rimane di repressione, fame e incertezza.

Herat: i dipendenti delle NU devono farsi crescere la barba

Afghanistan International, 18 dicembre 2024

Mentre l’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) nel suo Report di novembre 2024 – di cui una sintesi nell’articolo – segnala i notevoli impedimenti e le restrizioni che i funzionari talebani pongono alle operazioni umanitarie dell’Onu, fonti interne a questo ente hanno comunicato ad AMU TV che il Dipartimento vizi e virtù di Herat ha ordinato ai dipendenti maschi delle Nazioni Unite di astenersi dal presentarsi al lavoro senza barba, pena la reclusione

L’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) ha segnalato che nel mese di novembre di quest’anno sono state registrate 164 interruzioni degli aiuti in Afghanistan, con un aumento del 56% rispetto al mese precedente.

L’OCHA ha aggiunto che il 99% di questi interventi è stato attuato da funzionari talebani.

Mercoledì (18 dicembre) l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento dell’assistenza umanitaria (OCHA) ha pubblicato un nuovo rapporto sugli ostacoli all’accesso umanitario in Afghanistan a novembre.

Il rapporto afferma che le restrizioni di accesso hanno portato alla sospensione temporanea di 72 progetti umanitari e alla chiusura definitiva di due progetti, mentre anche un centro umanitario è stato temporaneamente chiuso durante questo periodo.

L’OCHA ha aggiunto che questi incidenti si sono verificati principalmente nelle regioni meridionali, centrali e occidentali. Le statistiche mostrano che questi casi sono aumentati del 56% rispetto al mese precedente e dell’11% rispetto allo stesso periodo del 2023.

Secondo il rapporto, durante questo periodo sono stati registrati casi di interruzione di interventi pianificati, richieste di un elenco di dipendenti e di informazioni sensibili, interferenze nel processo di reclutamento, restrizioni alla copertura delle dipendenti e impedimento alle donne di accedere ai servizi.

Il rapporto mostra inoltre che la violenza contro il personale, le proprietà e le strutture umanitarie è aumentata del 37%, con sei membri dello staff arrestati, due casi di violenza fisica e quattro casi di minacce segnalati il ​​mese scorso.

L’ONU ha aggiunto che queste restrizioni sono state di ostacolo alla fornitura di aiuti umanitari.

Già in precedenza erano circolate segnalazioni di interferenze dei talebani negli affari degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite. A questo proposito, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) aveva annunciato che i talebani avevano arrestato 113 dipendenti dell’organizzazione nella prima metà del 2023.

Cosa significa per l’Afghanistan la sospensione degli aiuti Usa?

Massud Saifullah, DW, 5 febbraio 2025

L’Afghanistan governato dai talebani non ha le risorse per fornire alla sua popolazione servizi pubblici di base. Gli esperti avvertono che un taglio permanente degli aiuti degli Stati Uniti potrebbe avere conseguenze devastanti per il popolo afghano

Le misure prese dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump per sospendere gli aiuti allo sviluppo esteri degli Stati Uniti e ridurre al contempo le operazioni dell’USAID rischiano di avere un impatto significativo sull’Afghanistan, che dipende dall’aiuto esterno per i servizi essenziali.

Nonostante il ritiro delle truppe e di altri funzionari dall’Afghanistan nell’agosto 2021, gli Stati Uniti sono rimasti il ​​principale donatore del Paese.

Secondo un rapporto dell’ufficio dell’Ispettorato generale speciale per la ricostruzione dell’Afghanistan, o SIGAR, Washington ha “stanziato o altrimenti reso disponibili più di 21 miliardi di dollari [20,2 miliardi di euro] in assistenza all’Afghanistan e ai rifugiati afghani” da quando i talebani hanno preso il controllo totale del paese.

Gli Stati Uniti sostengono che i fondi per gli aiuti sono destinati al popolo afghano, con misure di salvaguardia volte a impedire ai talebani di accedervi.

I talebani affrontano il “caos”

Tuttavia, i talebani hanno beneficiato indirettamente del flusso di dollari USA, che ha contribuito a stabilizzare la valuta afghana e ad attenuare il rischio di una rapida inflazione. La sospensione degli aiuti USA minaccia di sconvolgere questo fragile equilibrio.

“Il blocco degli aiuti esteri degli Stati Uniti, compresi i finanziamenti dell’USAID, ha causato il caos tra i talebani”, ha detto a DW Ghaus Janbaz, un ex diplomatico afghano.

Molti esperti sostengono che gli aiuti esteri all’Afghanistan, tra cui le centinaia di milioni di dollari forniti ogni anno dagli Stati Uniti, abbiano inavvertitamente aiutato i talebani a mantenere il controllo sul paese.

Con l’afflusso di fondi in calo, ritengono che i talebani potrebbero soccombere alle richieste internazionali o scontrarsi con una più forte opposizione all’interno del Paese.

“Negli ultimi tre anni, i talebani non sono riusciti a creare un’economia autosufficiente, il che li ha resi fortemente dipendenti da tali aiuti”, ha aggiunto Janbaz.

Il popolo afghano pagherà il prezzo, affermano gli attivisti

Da quando hanno ripreso il controllo dell’Afghanistan, i talebani hanno sistematicamente negato alle donne i diritti fondamentali , tra cui l’istruzione e il lavoro fuori casa.

Sotto il dominio dei talebani, alle donne afghane è proibito mostrare il proprio volto in pubblico. La questione dei diritti delle donne è rimasta un ostacolo importante per qualsiasi paese che stabilisca relazioni ufficiali con i talebani.

Di conseguenza, nessun paese al mondo ha riconosciuto formalmente i Talebani come governo legittimo dell’Afghanistan.

I talebani non sono riusciti a creare un governo inclusivo né a introdurre un processo che consenta ai cittadini afghani di partecipare alla vita pubblica.

Mentre si moltiplicano le richieste di aumentare la pressione sui talebani, alcuni mettono in guardia dal fatto che tagliare gli aiuti vitali non farà che aumentare le sofferenze del popolo afghano.

“Secondo i rapporti delle Nazioni Unite, 26 milioni di persone in Afghanistan dipendono dagli aiuti esteri per sopravvivere”, ha affermato Wazhma Frogh, un’attivista per i diritti delle donne afghane che vive all’estero e collabora con le organizzazioni umanitarie ancora attive in Afghanistan.

“Se le organizzazioni umanitarie perdessero l’accesso ai fondi, non sarebbero in grado di fornire nemmeno l’assistenza più elementare”, ha detto a DW.

“I talebani non hanno alcun programma per il supporto o lo sviluppo del popolo afghano. L’unica assistenza proviene dall’ONU, dalle agenzie internazionali e dalle organizzazioni umanitarie afghane”, ha aggiunto, avvertendo che la decisione di Trump di tagliare gli aiuti peggiorerà significativamente le condizioni per i comuni afghani.

Nessun piano di Trump per l’Afghanistan?

La riduzione degli aiuti all’Afghanistan è il risultato dei drastici ordini esecutivi del presidente Trump, che non erano specificamente mirati all’Afghanistan ma agli aiuti allo sviluppo nel loro complesso.

Al momento l’Afghanistan sembra essere ai margini dell’agenda di politica estera di Trump, mentre l’attenzione si concentra sui conflitti in Medio Oriente e in Ucraina.

Il 4 febbraio, durante una conferenza stampa congiunta con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, un giornalista afghano ha chiesto a Trump quali fossero i suoi piani per l’Afghanistan.

Lui rispose che non riusciva a capire “il suo splendido accento”, lasciando poco chiaro se non fosse riuscito davvero a comprendere la domanda o se la stesse del tutto evitando.

“Non credo che l’amministrazione Trump abbia ancora un piano per l’Afghanistan”, ha affermato Frogh.

Tuttavia, Trump si è espresso a gran voce riguardo alle richieste che fa ai talebani, in particolare la restituzione dell’equipaggiamento militare lasciato dagli Stati Uniti e il controllo della base aerea di Bagram, che secondo lui è ora sotto l’influenza cinese, affermazione che i talebani hanno negato.

Secondo l’ex diplomatico Janbaz, queste dichiarazioni non riflettono una concreta strategia degli Stati Uniti nei confronti dell’Afghanistan, ma rientrano piuttosto nella retorica della campagna elettorale di Trump.

“Il tempo rivelerà come Trump gestirà la situazione in Afghanistan, ma ciò che è chiaro è che il suo approccio non rispecchierà quello della precedente amministrazione”, ha concluso.

A cura di: Wesley Rahn