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Tag: Talebani

I talebani hanno vietato di costruire finestre da cui si possano intravedere delle donne

Per esempio quelle che danno su cucine o cortili: è l’ennesima misura adottata in Afghanistan per rendere la loro vita ancora più difficile e isolata

Il Post, 30 dicembre 2024

Sabato 28 dicembre il regime dei talebani che governa in Afghanistan dal 2021 ha emanato un decreto che vieta di costruire, nei nuovi edifici, finestre che si affaccino su stanze e ambienti altrui dove potrebbero esserci delle donne. «Vedere le donne che lavorano in cucina, nei cortili o nei pozzi mentre raccolgono l’acqua, potrebbe indurre ad atti impuri», si legge nel decreto.

È soltanto l’ultima di una serie di regole imposte negli ultimi anni per limitare la vita sociale, l’indipendenza e l’autonomia delle donne, che secondo l’interpretazione dell’Islam estremamente conservatrice praticata dai talebani godono di molti meno diritti rispetto agli uomini.

Il decreto è stato emesso dal leader del regime afghano, Hibatullah Akhundzada, ed è stato annunciato su X dal suo portavoce Zabihullah Mujahid. Dal testo del decreto emerge una visione profondamente stereotipata e discriminatoria delle donne, che secondo i talebani appartengono agli ambienti della casa tradizionalmente associati alla cura e all’accudimento della famiglia: la cucina, appunto, e altri luoghi dove si può reperire e preparare del cibo per la famiglia.

L’indicazione del decreto non si limita agli edifici di nuova costruzione, ma anche a quelli già esistenti. Se una stanza ha già una finestra che si affaccia su una cucina o un cortile il proprietario dell’edificio è obbligato a trovare un modo per «evitare danni», per esempio installando un muro o qualcosa che schermi la vista. La norma renderà la vita delle donne ancora più separata da quella degli uomini, in una condizione ormai permanente di subalternità.

I talebani stanno applicando norme simili a quelle che emanarono durante il loro primo regime, dal 1996 al 2001, durante il quale alle donne furono negati moltissimi diritti. Quando ripresero il potere, nel 2021, cercarono di presentarsi come un gruppo moderato e aperto, che avrebbe trattato le donne in maniera diversa rispetto agli anni precedenti.

Già nei mesi successivi tuttavia divenne chiaro che non sarebbe stato così. Tra le altre cose, negli ultimi tre anni i talebani hanno chiuso le scuole secondarie femminili (l’equivalente di medie e superiori italiane), hanno proibito alle donne di accedere all’università, e hanno vietato l’accesso a parrucchieri e saloni di bellezza.

Lo scorso agosto hanno approvato la prima legge emanata dal ministero per la Prevenzione dei vizi e la Promozione delle virtù, creato per promuovere il rispetto di un’interpretazione estremamente rigida della dottrina islamica. La legge, divisa in 35 articoli, stabilisce per esempio che le donne non possano cantare, recitare o leggere ad alta voce in pubblico, dato che secondo i talebani la voce di una donna è qualcosa di intimo e deve rimanere privata. La legge vieta inoltre alle donne di viaggiare senza essere accompagnate da un uomo con cui hanno un legame di sangue, e di avere incontri di qualsiasi tipo con uomini che non siano loro parenti.

Due giorni dopo l’emanazione del decreto sulle finestre, inoltre, il regime ha annunciato che chiuderà le associazioni e le ong afghane e straniere che impiegano delle donne. Già nel 2022 i talebani avevano emanato un divieto simile, che però di fatto non era stato applicato.

CISDA – Stop Fondamentalismi. Stop Apartheid di genere

Giovanna Cardarelli, ANPI Oggi e Domani, dicembre 2024

Dopo quasi tre mesi è terminato il lungo periodo in Italia di Shakiba, militante di Rawa (Associazione Rivoluzionaria Donne Afghane), sostenuta da Cisda dal lontano 1999

La sua presenza in molteplici iniziative sul territorio, con ampia partecipazione ovunque, è stata molto preziosa per poter ascoltare dalla sua voce come vivono le donne in questo momento in Afghanistan ma soprattutto come le attiviste di Rawa, che sono rimaste nel paese, hanno deciso di continuare la lotta politica e di resistenza al regime talebano misogino e fondamentalista.

Sentire dalla sua voce cosa significa lottare e resistere, anche dalla clandestinità, in quel paese è stato molto importante; manifestare è molto pericoloso ma le donne non si fermano, per tutte loro può voler dire essere arrestate, torturate e a volte anche uccise come già successo.

Le costrizioni che i talebani hanno imposto alle donne sono molteplici; non possono studiare, non possono lavorare, non possono uscire sole ma devono essere accompagnate da un uomo, non possono far sentire la loro voce, le donne indigenti arrestate per aver mendicato in base alle nuove e draconiane leggi dei talebani hanno parlato di stupri e percosse “brutali” subite durante la detenzione; insomma qualsiasi cosa è loro preclusa, vivono in un regime di apartheid dimenticate un po’ da tutti ma non da chi vuole fare affari con i talebani a scapito dei diritti umani e riconoscendo così di fatto quel regime

Il paese vive una forte crisi umanitaria, non c’è lavoro, non ci sono soldi, si vive in uno stato di miseria, le inondazioni di quest’autunno hanno aggravato la situazione di interi villaggi che, governate da talebani, non hanno ricevuto aiuti.

Noi continuiamo a sostenerle sia politicamente che con progetti che loro stesse hanno avviato; attraverso raccolte fondi e progetti riusciamo ad inviare danaro per le loro attività, dalle scuole segrete per ragazze e donne, a piccoli shelter ecc. Aggiornamenti su tutto questo su www.cisda.it

Ora che Shakiba è tornata in Afghanistan spetta a noi di Cisda continuare ad essere la loro voce e tenere alta l’attenzione sulle condizione di apartheid che stanno vivendo le donne in quel paese

Cosa abbiamo fatto in questo ultimo periodo
Con la rete di associazioni con la quale collaboriamo in Italia e in Europa, abbiamo lanciato una campagna “STOP FONDAMENTALISMI STOP APARTHEID DI GENERE” che vuole spingere il nostro Governo – in quanto membro delle Nazioni Unite e di Istituzioni Internazionali – a prendere posizione contro il governo di fatto dei Talebani e a sostenere la proposta di codificazione del reato di Gender Apartheid nei Trattati Internazionali.

Come prima azione della Campagna abbiamo avviato una PETIZIONE in occasione della giornata mondiale per i diritti umani: potete firmarla direttamente sul sito Cisda, sia individualmente che come Associazione, Enti, Partiti ecc. aiutandoci a sostenerla e a diffonderla.

Il CISDA, in collaborazione con alcune giuriste, ha inoltre redatto e inviato una “proposta di codificazione del reato di “apartheid di genere” come contributo della società civile ai lavori in corso della Sesta Commissione giuridica dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per un recepimento nella Convenzione sulla prevenzione e la punizione dei crimini contro l’Umanità in fase di discussione da parte dell’ONU.

Il divieto dei talebani di studiare medicina scatena le proteste delle donne in tutte le province

Il nuovo divieto imposto dai talebani pone fine all’istruzione medica per le donne, sollevando allarme sul futuro dell’assistenza sanitaria per le donne afghane

Afghan Witness, CIR, 20 dicembre 2024

Il 2 dicembre 2024, giornalisti e agenzie di stampa afghane hanno riferito che il leader supremo dei talebani Hibatullah Akhundzada aveva emanato un nuovo decreto che proibiva alle donne di iscriversi e frequentare studi negli istituti medici. Secondo i media afghani , la decisione è stata annunciata dal ministro della Salute pubblica dei talebani in un incontro con i responsabili degli istituti sanitari di Kabul. Questa nuova misura proibirà alle donne di studiare ostetricia, protesi dentarie, infermieristica, scienze di laboratorio, tra le altre materie.

Cronologia delle restrizioni all’istruzione delle donne e delle ragazze
La decisione segue una serie di restrizioni all’istruzione di donne e ragazze. A marzo 2022, le autorità di fatto hanno vietato alle ragazze di studiare oltre la sesta elementare (circa 11 anni). A dicembre 2022, la decisione è stata estesa a un divieto nazionale per le donne di iscriversi e studiare nelle università. A dicembre 2023, le autorità talebane hanno chiuso vari istituti privati, nonostante la mancanza di una decisione ufficiale in merito. A febbraio 2024, i talebani hanno proclamato che alle laureate sarebbe stato consentito di presentare domanda per studiare in istituti medici pubblici in 11 province . Tuttavia, tale risoluzione è stata annullata nell’annuncio più recente.
Secondo fonti di AW a Kabul, l’unica forma di istruzione laica rimasta disponibile per le ragazze oltre la sesta elementare nella capitale sono i corsi di lingua inglese offerti da centri privati ​​a un costo elevato. Questo è probabilmente il caso di altre aree urbane, lasciando donne e ragazze provenienti da famiglie più povere o da aree rurali senza accesso a nessuna forma di istruzione laica.

Reazioni delle organizzazioni internazionali
In seguito alla decisione, Médecins Sans Frontières (MSF, Medici Senza Frontiere) ha rilasciato una dichiarazione sul proprio sito web. L’organizzazione, che gestisce progetti in sette province in cui più della metà dei suoi dipendenti sono donne, ha affermato che “non c’è un numero sufficiente di operatrici sanitarie nel paese” e che “le nuove limitazioni limiteranno ulteriormente l’accesso a un’assistenza sanitaria di qualità e porranno seri pericoli alla sua disponibilità in futuro”.
Il 9 dicembre 2024, l’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) ha rilasciato un comunicato stampa in cui si riferiva alla nuova misura come a un “divieto draconiano”. L’OHCHR ha sottolineato che, poiché attualmente solo le donne sono autorizzate a fornire assistenza medica a ragazze e donne in Afghanistan, la nuova misura “porterà a inutili sofferenze, malattie e forse morti di donne e bambini afghani, ora e nelle generazioni future, il che potrebbe equivalere a femminicidio”.
Le proteste delle donne in risposta all’annuncio
La decisione di vietare alle donne di proseguire gli studi nel settore sanitario è stata accolta con proteste in tutto il Paese. A Badakhshan Kabul , Kapisa e Takhar , decine di studentesse si sono radunate dentro e fuori i loro istituti scolastici per protestare.
A Herat, le donne si sono radunate fuori dal complesso del governatore talebano, tenendo cartelli con la scritta “L’istruzione è un nostro diritto”, “La scienza è un nostro diritto” e “Cerca la conoscenza dalla culla alla tomba” (un detto popolare in dari). Il gruppo di donne che protestavano è stato sfidato da presunti membri talebani di Herat che sono stati visti parlare con il gruppo, tuttavia, AW non è stato in grado di tradurre ciò che è stato detto tra loro. Secondo Afghanistan International, che ha condiviso il video, “i combattenti talebani hanno cercato di interrompere la protesta delle donne”.
La maggior parte delle donne ha scelto di protestare al chiuso, la maggior parte in luoghi non divulgati e con il volto coperto. AW ha identificato cinque gruppi organizzati guidati da donne che protestavano al chiuso. Tutti i gruppi sono stati creati tra il 2021 e il 2023 e sono stati attivi da allora, come si vede nella Tabella 1 di seguito.

 Reazione dei gruppi di opposizione armata
Oltre ai gruppi di donne, anche un gruppo di resistenza armata avrebbe agito per rappresaglia contro le nuove restrizioni. Il 3 dicembre 2024, l’Afghan Freedom Front (AFF) ha condiviso un video che mostrava presumibilmente un attacco contro veicoli talebani. Secondo la dichiarazione dell’AFF, l’esplosione aveva come obiettivo un convoglio talebano diretto all’ospedale Khair Khana da 102 posti letto a Kabul per allontanare con la forza le tirocinanti infermiere e ostetriche dai locali.
Non è la prima volta che AW registra che l’AFF rivendica un attacco a sostegno delle donne: nel gennaio 2024, durante gli arresti in corso di donne e ragazze da parte di membri talebani con l’accusa di abbigliamento inadeguato, l’AFF ha preso di mira anche un convoglio di veicoli talebani nel quartiere Khair Khana di Kabul.

Osservazioni
L’amministrazione de facto dei talebani ha gradualmente imposto restrizioni sempre più severe all’accesso all’istruzione per donne e ragazze da quando hanno preso il potere nell’agosto 2021. Fino a poco tempo fa, alle donne era ancora consentito formarsi per diventare operatrici di supporto sanitario. Tuttavia, la decisione più recente del dicembre 2024 impedisce di fatto alle donne di iscriversi e studiare negli istituti sanitari in tutto il paese.
Con il nuovo divieto in vigore, le ragazze oltre la sesta elementare non hanno accesso all’istruzione laica nel paese, ad eccezione dei corsi di inglese offerti da istituti privati, probabilmente disponibili solo nelle grandi città. Per la maggior parte delle donne e delle ragazze afghane, gli istituti religiosi rappresentano ora l’unica opzione per l’istruzione.

 

GRUPPI CHE HANNO PROTESTATO – PRIMA E ULTIMA LORO PROTESTA

Women’s Movement Toward FreedomMarzo 2023Dicembre 2024
Network for Women’s Political Participation in Afghanistan Settembre 2021Dicembre 2024
Association of Resilient Women of AfghanistanDicembre 2022Dicembre 2024
Purple Saturdays MovementDicembre 2022 Dicembre 2024
Spontaneous Movement of Afghanistan’s Women ProtestersSettembre 2021Dicembre 2024

I talebani hanno vietato di costruire finestre da cui si possano intravedere delle donne

Il Post, 30 dicembre 2024

Per esempio quelle che danno su cucine o cortili: è l’ennesima misura adottata in Afghanistan per rendere la loro vita ancora più difficile e isolata

Sabato 28 dicembre il regime dei talebani che governa in Afghanistan dal 2021 ha emanato un decreto che vieta di costruire, nei nuovi edifici, finestre che si affaccino su stanze e ambienti altrui dove potrebbero esserci delle donne. «Vedere le donne che lavorano in cucina, nei cortili o nei pozzi mentre raccolgono l’acqua, potrebbe indurre ad atti impuri», si legge nel decreto.

È soltanto l’ultima di una serie di regole imposte negli ultimi anni per limitare la vita sociale, l’indipendenza e l’autonomia delle donne, che secondo l’interpretazione dell’Islam estremamente conservatrice praticata dai talebani godono di molti meno diritti rispetto agli uomini.

Il decreto è stato emesso dal leader del regime afghano, Hibatullah Akhundzada, ed è stato annunciato su X dal suo portavoce Zabihullah Mujahid. Dal testo del decreto emerge una visione profondamente stereotipata e discriminatoria delle donne, che secondo i talebani appartengono agli ambienti della casa tradizionalmente associati alla cura e all’accudimento della famiglia: la cucina, appunto, e altri luoghi dove si può reperire e preparare del cibo per la famiglia.

L’indicazione del decreto non si limita agli edifici di nuova costruzione, ma anche a quelli già esistenti. Se una stanza ha già una finestra che si affaccia su una cucina o un cortile il proprietario dell’edificio è obbligato a trovare un modo per «evitare danni», per esempio installando un muro o qualcosa che schermi la vista. La norma renderà la vita delle donne ancora più separata da quella degli uomini, in una condizione ormai permanente di subalternità.

I talebani stanno applicando norme simili a quelle che emanarono durante il loro primo regime, dal 1996 al 2001, durante il quale alle donne furono negati moltissimi diritti. Quando ripresero il potere, nel 2021, cercarono di presentarsi come un gruppo moderato e aperto, che avrebbe trattato le donne in maniera diversa rispetto agli anni precedenti.

Già nei mesi successivi tuttavia divenne chiaro che non sarebbe stato così. Tra le altre cose, negli ultimi tre anni i talebani hanno chiuso le scuole secondarie femminili (l’equivalente di medie e superiori italiane), hanno proibito alle donne di accedere all’università, e hanno vietato l’accesso a parrucchieri e saloni di bellezza.

Lo scorso agosto hanno approvato la prima legge emanata dal ministero per la Prevenzione dei vizi e la Promozione delle virtù, creato per promuovere il rispetto di un’interpretazione estremamente rigida della dottrina islamica. La legge, divisa in 35 articoli, stabilisce per esempio che le donne non possano cantare, recitare o leggere ad alta voce in pubblico, dato che secondo i talebani la voce di una donna è qualcosa di intimo e deve rimanere privata. La legge vieta inoltre alle donne di viaggiare senza essere accompagnate da un uomo con cui hanno un legame di sangue, e di avere incontri di qualsiasi tipo con uomini che non siano loro parenti.

Due giorni dopo l’emanazione del decreto sulle finestre, inoltre, il regime ha annunciato che chiuderà le associazioni e le ong afghane e straniere che impiegano delle donne. Già nel 2022 i talebani avevano emanato un divieto simile, che però di fatto non era stato applicato.

Afghanistan, la stretta dei talebani: Le Ong con personale femminile costrette a chiudere

Il Fatto Quotidiano, 30 dicembre 2024

Il Ministero dell’Economia di Kabul ha annunciato la chiusura di tutte le Ong nazionali e straniere che impiegano personale femminile.

Nell’Afghanistan dei Talebani, che a dispetto delle promesse di cambiamento sembrano ricalcare fedelmente quella degli anni 90, un nuovo tassello si aggiunge al processo di cancellazione dei diritti delle donne. Dopo averle costrette a indossare il velo, averle escluse dagli spazi pubblici e dalla scuola oltre la prima media, e vietato l’accesso a gran parte dei lavori, ora arriva un ulteriore restrizione: alle donne sarà vietato lavorare nelle Ong.

Il Ministero dell’Economia di Kabul ha annunciato la chiusura di tutte le Ong nazionali e straniere che impiegano personale femminile. In una lettera pubblicata su X, le organizzazioni sono state avvertite che non rispettare il divieto comporterà la revoca immediata della licenza.

Lo stop riguarda qualsiasi attività che coinvolga donne all’interno di enti non controllati dai Talebani, un provvedimento che conferma la repressione nei confronti della libertà femminile. “In caso di mancata collaborazione, tutte le attività di quell’istituzione saranno cancellate e anche la licenza di attività concessa dal ministero sarà annullata”, ha ribadito il ministero.

 

La testimonianza«Vi racconto come vivono, davvero, le donne in Afghanistan»

Corriere del Ticino, 25 dicembre 2024, di Federica Serrao e Giacomo Butti

Shakiba, membro di RAWA (associazione che a Kabul lotta per i diritti umani), ci parla di un Paese caduto nel caos più totale – «Cosa potete fare voi che vivete in Occidente? Sensibilizzare l’opinione pubblica sul modo in cui i talebani sottomettono il popolo afghano»

Quando le chiediamo di raccontarci com’è cambiata la vita del popolo afghano da quel 15 agosto 2021, la faccia di Shakiba si fa cupa. «La caduta di Kabul». Basta nominarla e subito quel sorriso timido e cortese che, fino a pochi istanti prima, le aveva illuminato il viso, si spegne. Sospira, profondamente. Poi inizia a raccontarci di quell’incubo senza risveglio che è la quotidianità della popolazione afghana. «Negli ultimi tre anni la situazione è divenuta catastrofica. Gli Stati Uniti hanno consegnato il governo dell’Afghanistan a quegli stessi talebani che dicevano di star combattendo, e dei quali ora vogliono dipingere una versione più moderata». Ma non c’è nulla di moderato nelle politiche dei talebani, sempre più violenti – anzi – nei confronti della popolazione, specialmente femminile. Lo scorso mese di agosto, per fare un esempio, i talebani hanno imposto una nuova legge con la quale vietare alle donne di parlare in pubblico: solo una delle disumane regole, contrarie ai diritti umani, volute dal gruppo fondamentalista. «I talebani sono fondamentalisti. Sono cresciuti nelle madrase (scuole islamiche, ndr) afghane con la mentalità del terrorismo e della lotta alle donne». Donne alle quali, per fare un altro esempio, non permettono di studiare. Donne che oggi sono costrette a nascondersi per aver accesso all’istruzione. Donne che oggi, nella società afghana, hanno perso ogni diritto. Donne come Shakiba, che oggi si racconta, protetta dall’anonimato, mostrando al mondo che cosa significa, davvero, vivere in Afghanistan oggi. Sotto il regime dei talebani, in un Paese senza libertà.

La voce di RAWA

Con Shakiba ci troviamo negli stabili dell’USI: è qui per raccontare agli studenti – in un paio di corsi proposti dall’ateneo – la propria storia. Non è la prima volta che lo fa: da qualche mese, con il sostegno del CISDA (Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane), gira varie strutture fra Italia e Germania. Poi tornerà in Afghanistan, a combattere per i diritti delle donne e non solo. Lei fa parte di RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan): un’associazione «clandestina» – fondata nel 1977 da Meena Keshwar Kamal – che da più di quarant’anni è attiva in ambito politico, sociale e umanitario a sostegno di tutta la popolazione afghana. È per questo che a noi si presenta con uno pseudonimo, chiedendo di non essere fotografata in viso: «Se queste informazioni dovessero arrivare ai talebani, al mio ritorno sarei imprigionata».

La gente, oggi, conosce ancor meno la reale situazione dell’Afghanistan. I media non descrivono questo posto per quello che è davvero, parlano di turismo.

Shakiba ci racconta di RAWA: «I nostri obiettivi e le nostre idee si fondano su principi come la libertà, la democrazia e l’indipendenza, ma anche su un governo laico. Per queste ragioni, siamo sempre stati visti come “clandestini”, e siamo sempre sotto continua minaccia», ci racconta. Anche con Ashraf Ghani al potere, il presidente che fu poi rovesciato dai talebani, le donne di RAWA si sono opposte al governo e alle sue politiche «sbagliate». «Manifestavamo e alzavamo la voce attraverso i media, il nostro sito web e la nostra rivista. Siamo state noi a sensibilizzare l’opinione pubblica, mostrando la reale situazione dell’Afghanistan in quel periodo». Superficialmente, racconta, tutto sembrava andare bene. Ma anche prima della caduta di Kabul, la situazione in Afghanistan era tutt’altro che idilliaca. «Alle donne era permesso andare a scuola e lavorare. Ma l’Afghanistan stava già diventando un centro di terrorismo». Migliaia e migliaia le vittime di una guerra mai sopita, mentre i talebani crescevano sempre più forti, finanziati da un mercato illegale, quello dell’oppio, da loro controllato. Al momento della caduta di Kabul, l’80% della produzione mondiale di oppio mondiale passava dall’Afghanistan. «La gente, oggi, conosce ancor meno la reale situazione dell’Afghanistan. I media non descrivono questo posto per quello che è davvero, parlano di turismo».

Ed è qui che entra in gioco RAWA. «È nostro dovere parlare e fare pressioni sui governi in tutto il mondo, per non riconoscere il governo dei talebani, per non finanziarli e non sostenerli». Come? Attraverso i social media. Sì, la protesta e l’opposizione, a poco a poco, si è spostata soprattutto nel mondo virtuale. Prima, quando i talebani erano appena tornati al potere, Kabul era piena di persone in protesta, tra le quali molte donne. Alzavano la voce, si facevano sentire. Ma mese dopo mese, le piazze si sono svuotate. «Oggi sono pochi i gruppi che scendono ancora per le strade. Dopotutto, è risaputo: i talebani hanno il potere, e lo usano anche e soprattutto attraverso le armi, con cui disperdono le persone che manifestano». Se non sono pistole, racconta Shakiba, sono enormi cisterne d’acqua, rovesciate sui manifestanti. Ma c’è di molto peggio. «Protestare è molto pericoloso: le donne che manifestano spesso vengono imprigionate, torturate e violentate nelle carceri». Di qui lo sviluppo social: «Ormai, chi sceglie di manifestare lo fa attraverso i social media. È il modo più semplice, al momento, per far sentire la propria voce e per informare e sensibilizzare le persone, mostrando quella che è la reale situazione dell’Afghanistan». C’è chi scrive poesie, chi saggi. Chi rilascia dichiarazioni, chi propone slogan. Con la speranza che le proprie parole arrivino il più lontano possibile.

Abbiamo camuffato le nostre scuole, facciamo credere ai talebani che si tratti di madrase, quando in realtà ospitano corsi a domicilio per ragazze e donne

«Il lavaggio del cervello»

Fuori dal mondo social, però, la situazione è sempre più fuori controllo. «I talebani cercano di fare il lavaggio del cervello a tutti nelle madrase. Ce ne sono più di 17.000 in tutto il Paese e continuano ad aumentare, giorno dopo giorno. In ogni strada se ne trovano tre, quattro, cinque. Vogliono rendere i bambini di oggi futuri talebani e futuri terroristi. Non è un caso che le madrase siano uno dei pochi posti in cui anche le donne sono ammesse, senza alcun divieto». Se l’unico studio ammesso è quello religioso, come crescere la società che verrà? Chi guiderà il Paese senza competenze? «Tutto ciò è molto pericoloso per il futuro dell’Afghanistan. Per questo RAWA ha deciso di fondare scuole clandestine nelle quali insegniamo scienze e matematica, ma anche storia e materie sociali, o come usare un computer». Sono scuole segrete, dove si convive, ogni giorno, con la paura di essere scoperti. «Abbiamo camuffato le nostre scuole, facciamo credere ai talebani che si tratti di madrase, quando in realtà ospitano corsi a domicilio per ragazze e donne, alle quali non insegniamo solo materie scolastiche. Cerchiamo di sensibilizzarle anche sui loro diritti, sulle questioni sanitarie e di diverso genere che pensiamo siano importanti per loro. Facciamo il possibile per non farle vivere nell’ignoranza, sotto queste leggi medievali».

In tutto questo, le donne, però, non sono sole. «Le nostre opinioni sono incoraggiate da molte persone, perché la maggior parte del popolo è stufa del potere del fondamentalismo e non vuole più vivere sotto il controllo di un governo così selvaggio, criminale», confessa Shakiba. «È anche per questo che RAWA è attiva da più di quarant’anni: la gente è al nostro fianco. Le persone sono la ragione per cui siamo state in grado, per tutto questo tempo, di lottare e combattere».

Scappare è molto difficile. Spesso vengono utilizzate le vie del contrabbando, ma si tratta di viaggi estremamente rischiosi

Chi sceglie la fuga

Ma in Afghanistan, a non funzionare, non sono solamente i diritti umani. Quando a così ampie fette di popolazione non è consentito lavorare, portare tutti i giorni il cibo in tavola è, quantomeno, difficile. «Un altro grosso problema è quello della disoccupazione. La maggior parte delle persone ha perso il lavoro e oggi ci troviamo di fronte a una grande percentuale di disoccupati. Negli ultimi tre anni, i talebani hanno rimosso le persone dagli uffici governativi, mettendo a capo i loro uomini». Grandi percentuali della popolazione, insomma, vivono in povertà. Una condizione che mette le donne, specialmente le vedove, in una situazione di profonda crisi nella quale sfamare i propri figli è divenuta una lotta quotidiana.

Come non pensare, allora, alla fuga? Tre anni fa, quando gli americani se ne stavano andando, avevano sconvolto il mondo intero le immagini di afghani che, terrorizzati dal ritorno dei talebani, si aggrappavano ai carrelli degli aerei in procinto di lasciare il Paese. Alcuni, con la forza che solo la disperazione può dare, rimanevano avvinghiati finché i velivoli si sollevavano da terra: pochi secondi dopo, sconfitti dalla fisica, cadevano nel vuoto, verso la propria morte.

Oggi, la situazione non è molto diversa. Alcuni, ancora, provano a lasciare l’Afghanistan. Ma come? «Scappare è molto difficile. Spesso vengono utilizzate le vie del contrabbando, ma si tratta di viaggi estremamente rischiosi. Tanti giovani, soprattutto uomini, percorrono queste strade diretti verso il Pakistan, l’Iran, la Turchia e la Grecia, oppure verso i Paesi occidentali, con il solo scopo di trovare un posto sicuro dove vivere. Migliaia, però, perdono la vita nel tentativo di lasciare l’Afghanistan. In ottobre, più di 250 giovani afghani sono stati uccisi a colpi di pistola al confine tra Iran e Afghanistan». Andarsene, evidenzia Shakiba, non è solo rischioso: è anche costoso, e burocraticamente complesso. «Solo una piccolissima percentuale di persone riesce a ottenere un visto, spesso grazie all’aiuto di ONG o associazioni in cui magari si ha lavorato in passato. E poi ci sono Paesi che non concedono visti agli afghani, come la Turchia e l’India. L’unico modo per riuscire a scappare molte volte, è quindi il contrabbando. Ma questa, chiaramente, è una situazione molto pericolosa».

L’unica cosa che le persone, da ogni angolo del mondo, possono fare, è sensibilizzare l’opinione pubblica sulla reale situazione del nostro Paese, facendo pressione sui loro politici affinché non sostengano il governo dei talebani, non lo finanzino e non lo riconoscano

La solidarietà del popolo, l’indifferenza dei governi

In Afghanistan c’è amarezza per l’operato delle Nazioni Unite. Fra fine giugno e inizio luglio 2024 – ne avevamo parlato qui – i vertici ONU avevano convocato la terza conferenza di Doha (voluta per stabilire un approccio globale più coordinato e coerente sulla situazione in Afghanistan) piegandosi all’imposizione dei talebani, che quale condizione per la loro presenza chiedevano la rimozione dei diritti delle donne dalla lista dei temi trattati al summit. «A noi era ovvio fin dal primo giorno, fin da quel 15 agosto del 2021, che le Nazioni Unite stessero trattando con i talebani. Hanno consegnato loro il governo, senza alcuna lotta, senza alcuna resistenza», commenta amaramente Shakiba. «I documenti che l’ONU rilascia non servono a nulla. Bisogna fare dei passi concreti. Se l’obiettivo è davvero quello di aiutare il popolo afghano bisogna introdurre delle misure, e smettere di finanziare i talebani. Solo in questo modo la nostra situazione cambierà». Un resoconto pubblicato a inizio anno dal SIGAR (Office of the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction, organo del governo statunitense che si occupa di monitorare la ricostruzione dell’Afghanistan), mostra come i contanti statunitensi inviati a Kabul dall’ONU per sostenere le attività umanitarie nel Paese finiscano, spesso, sotto il controllo dei talebani, finanziandone le operazioni.

Quanto all’aiuto da parte degli Stati Uniti, Shakiba è disillusa. L’elezione di Trump come nuovo presidente, a suo dire, non cambierà le carte in tavola. «Per noi non cambierà nulla. Non importa se il presidente è una donna, un afrodiscendente, se è Donald Trump, Kamala Harris o Joe Biden. Chiunque salga al potere, negli Stati Uniti, deve seguire la stessa linea politica. E sebbene presidenti diversi possano prendere iniziative diverse per la propria nazione, la loro politica estera non cambia davvero». Nonostante da parte delle Nazioni Unite un aiuto concreto stenti ad arrivare, Shakiba riconosce le buone intenzioni del popolo, da tutto il mondo. «Quando pensiamo al sostegno che riceviamo, dividiamo sempre i governi dalla gente comune: i primi, a nostro avviso, si comportano in maniera crudele verso l’Afghanistan, mentre il popolo, che ama la libertà, è sempre stato accanto a noi». Anche se, chiaramente, con dei limiti. «L’unica cosa che le persone, da ogni angolo del mondo, possono fare, è sensibilizzare l’opinione pubblica sulla reale situazione del nostro Paese, facendo pressione sui loro politici affinché non sostengano il governo dei talebani, non lo finanzino e non lo riconoscano. I cittadini dei Paesi europei e occidentali possono solo alzare la voce e stare vicino al popolo afghano, senza dimenticarlo». Giorno dopo giorno, l’Afghanistan si sente infatti sempre più abbandonato. Messo da parte. Vittima di un’immagine, quella di un Paese in mano a talebani “moderati” che non corrisponde alla verità. La verità di un Paese senza libertà.

Emirato islamico afghano, il fantasma dell’infiltrazione

agoravox.it   Enrico Campofreda  17 dicembre 2024

La morte di kaka* Khalil, ministro dei Rifugiati presso l’Emirato Islamico dell’Afghanistan, è un colpo che il nipote Sirajuddin, a sua volta ministro dell’Interno fa fatica a digerire. Primo: per una ragione di casato. Haqqani è un nome che incute rispetto e terrore sia nelle focose province di provenienza (Khyber Pakhtunkhwa) e stanzialità (Waziristan), sia nella stessa Kabul conquistata sul campo dai suoi manipoli di fiducia prima d’insediarsi nei dicasteri. Secondo: per le modalità dell’eliminazione. L’attentato suicida era una specialità di famiglia ricercata e predicata da Jalaluddin, fratello della vittima e padre dell’attuale ministro dell’Interno. Dopo essere stato mujaheddin nella guerra antisovietica, sostenuto e premiato anche da Ronald Regan, ed essersi fatto le ossa nei sanguinosissimi anni di lotta fra Signori della Guerra, Haqqani senior già flirtava coi qaedisti ed era vicino a Osama bin Laden. Durante il primo Emirato talebano (1996-2001) aprì il suo gruppo, che prende il nome dalla storica madrasa del deobandismo Darool Uloom Haqqania, a una collaborazione coi taliban. Ma nella maggiore Shura, quella di Quetta, non erano ben visti, tanto che nella fase d’insurrezione contro l’Enduring Freedom  statunitense e la successiva Isaf Mission della Nato (2001-2014) gli Haqqani compivano azioni in proprio, tramite  attentati, suicidi o con auto-bomba. Ecco, dunque, il nervo scoperto dell’erede più illustre del jihadismo del clan, quel Sirajuddin che dal 2015 ha ricucito i rapporti con Quetta e col capo turbante dell’epoca Mohammad Mansur. Durato poco alla guida talebana, perché freddato da un drone americano mentre si spostava lungo l’asse del confine dell’Afgh-Pakistan, dove la protezione dell’Intelligence di Islamabad serviva più per armamenti e finanziamenti che per copertura bellica. Sirajuddin, invece, aveva protezioni migliori e con lui tutti i parenti prossimi, capaci d’autoprodurre vigilanza di terra, affidando quella dal cielo ad Allah. Comunque finora gli era andata benone, visto che dal 2017, quando nelle province afghane impazzava il confronto-scontro con l’Isil-Khorasan che insidiava i taliban per il controllo del territorio, di morti ammazzati ce n’erano un tot al giorno. In genere smembrati da esplosivo.

 La concorrenza dello Stato Islamico, che dal Daesh siro-iracheno trasferiva certa operatività più a Levante, si basava sul reclutamento dei  combattenti talib, pagati con la stessa moneta: petrodollari sauditi ed emiratini. L’arruolamento sembrò tramontare nei mesi della discesa verso Kabul nella primavera 2021. La vittoria talebana produceva migliori opportunità per chi si trovava in quelle file e più che per la quiete pandemica, la conflittualità fondamentalista interna all’Afghanistan appariva spenta nel primo anno di governo sotto la guida del mullah Akhunzada. Lo scorrere del tempo mostra il contrario. Soprattutto perché un certo reclutamento ideologico e dogmatico prosegue, spostando il proprio asse in territori già noti come il poroso confine afghano-pakistano, ma pesca nuove risorse nel separatismo beluco e nel fanatismo uzbeko. Attentati vari compiuti nell’ultimo biennio fra Turchia, Russia, Iran vedono in azione miliziani di quella provenienza geografica accorpati nei manipoli dell’Isis-K. Con l’uccisione di Khalil Rahman Haqqani, il nucleo storico del clan subisce un’inattesa scudisciata all’immagine e al peso tribale interno al regime talebano. Di cui il ministro Sirajuddin non riesce a garantire più un controllo securitario, come fosse un qualsiasi lacché del traballante esecutivo  Ghani. La deflagrazione avvenuta a pochi passi dall’obiettivo, senza che i guardiani avessero posto un filtro, potrebbe provenire da un elemento infiltrato nel sistema di sicurezza talebano, scorno ancora maggiore. Ma c’è pure l’ipotesi d’una faida di fazione. Lo zio Khalil, nonostante i trascorsi di rigidità dottrinaria, s’era impuntato contro le restrizioni governative all’istruzione femminile. Che nelle ultime settimane hanno tracimato anche sul fronte lavorativo, negando quelle poche mansioni concesse finora alle donne come l’assistenza sanitaria. Fosse appunto una faida, ancor più l’Isis-K potrebbe infilarsi nella faglia talebana, ampliata da contrasti di potere oltreché da dogmi.

* zio, usato anche come attributo di rispetto per uomini adulti

 

SBS Australia – Il regime dei talebani “considera le donne come un pericolo per la società”

La campagna “Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere”, mira a sensibilizzare l’opinione pubblica e a sollecitare azioni concrete da parte del governo italiano e della comunità internazionale contro i fondamentalismi, con un focus particolare sul regime talebano.

SBS Australia – 20 dicembre 2024

Il CISDA (Coordinamento Italiano di sostegno alle donne afghane) è un’organizzazione che da 25 anni si dedica a sostenere la lotta delle donne afghane, anche attraverso il finanziamento di progetti segreti per garantire la loro sicurezza.

“I progetti sono segreti perché il regime talebano ha cancellato ogni diritto delle donne, come quello di studiare oltre i 12 anni, lavorare fuori casa o viaggiare, e negli ultimi giorni ha anche tolto loro la possibilità di lavorare come ostetriche”, racconta Beatrice Biliato del CISDA ai microfoni di SBS Italian.

Nella campagna “Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere”, lanciata in concomitanza con la giornata mondiale dei diritti umani, il CISDA ha inviato una richiesta all’ONU affinché l’apartheid di genere venga riconosciuto come crimine contro l’umanità.

“Questo sarebbe un passo fondamentale per sensibilizzare la comunità internazionale sulla grave situazione delle donne afghane”, spiega Beatrice Biliato ai microfoni di SBS Italian.

Oltre alla richiesta all’ONU, il CISDA, nella sua campagna, ha anche inoltrato una richiesta al governo italiano di intervenire contro il regime talebano.

“Lo stato italiano non dovrebbe riconoscere né di fatto né di diritto il governo dei talebani, condannando quanto sta avvenendo in Afghanistan”, afferma Beatrice Biliato mentre spiega anche quanto sia importante fermare i finanziamenti al regime.

Sahra Mani. Il sacrificio delle donne afghane nel silenzio del mondo

altraeconomia.it 12 dicembre 2024

 

Con il film “Bread & Roses”, prodotto da Jennifer Lawrence e la Nobel per la Pace Malala Yousafzai, la regista racconta la resistenza delle attiviste dopo la presa di Kabul dei Talebani nell’agosto 2021. Tre anni e mezzo dopo la situazione è disastrosa. Le immagini, girate in prima persona dalle protagoniste, raccontano il coraggio e la sofferenza di vivere sotto il regime. “Un apartheid di genere”, denuncia Mani. Un caotico mercato di Kabul, lo strombazzare delle auto che schivano le bancarelle, una donna con un vestito colorato che cammina tra le strade della capitale dell’Afghanistan recitando una poesia. “Mia madre crede che i sogni rivelino il futuro: per vanificare un incubo bisogna raccontarlo alla pioggia. Dopo la festa di fidanzamento ho sognato la Moschea blu, la gente che pregava e faceva vita normale. All’improvviso cadde un fulmine: i panettieri portavano il pane nelle bare e cominciavano a piovere sassi. Quando mi svegliai condivisi il mio sogno con la pioggia”.

Improvvisamente i colori si spengono e arriva il buio lasciando spazio alla marcia dei Talebani, la loro riconquista di metà agosto 2021. La struggente scena che apre il film “Bread & Roses” (disponibile da fine novembre su AppleTv), racchiude l’incubo che da quel giorno vivono nel Paese migliaia di donne e del prezzo che sono disposte a pagare per far sentire la loro voce.

Quella voce che la regista di origini afghane Sahra Mani ha deciso di far conoscere al mondo, per denunciare l’orrore del regime. Non trattiene le lacrime spiegando i molteplici significati del titolo. “Il pane perché le famiglie sono costrette a vendere i loro figli per acquistarlo -spiega- la rosa perché per me rappresenta la dignità. Quella perduta da queste persone nell’assoluto silenzio del mondo”. Che quelle potentissime immagini riprese in prima persona dalle protagoniste del film che rischiano quotidianamente la loro vita vogliono rompere.

Mani, le sue sono lacrime di rabbia?
SM Crollo al pensiero che queste storie siano dimenticate e ignorate dal mondo. Conosco tante donne che sono morte, altre che sono sparite e di cui non si sa più nulla, altre che hanno venduto loro figlio per sopravvivere. Sono storie vere.

Nel 2019 usciva nelle sale “A thousands girls like me” con cui raccontava l’inefficacia del sistema giudiziario afghano nel tutelare le donne. Si sarebbe mai immaginata che le cose potessero peggiorare così tanto nel giro di quattro anni?
SM No, non avrei mai pensato che i Talebani sarebbero tornati. Credevo che un giorno, forse, si sarebbe raggiunto un accordo e avremmo dovuto rinunciare a parte dei nostri diritti. Oggi siamo in guerra. Bombardano le città, le scuole femminili, vengono uccise le donne incinta, i neonati, chi semplicemente partecipa alle celebrazioni di un matrimonio. Quello che succede è di una gravità inaudita.

Com’è nato questo film?
SM
Con la caduta di Kabul ho deciso che dovevo fare qualcosa sapendo che le donne sarebbero state coloro che avrebbero pagato il prezzo più alto. E così è stato. Hanno perso il lavoro ma allo stesso tempo per molte famiglie erano l’unica forma di sostentamento. La povertà e la necessità di scendere in piazza per rivendicare il diritto di esistere sono diventate sfide quotidiane. In quel periodo ho cominciato a lavorare con alcune Ong per sostenere le loro battaglie e ho iniziato ad entrare in contatto con un numero sempre più alto di donne che, attraverso i video, mi raccontavano la difficoltà del loro essere attiviste in un sistema di oppressione. Mano a mano, ricevendone sempre di più, ho capito che hanno cominciato a fidarsi di me come film-maker e allo stesso tempo mi chiedevano implicitamente di fare qualcosa. L’interesse di Jennifer Lawrence è stata la svolta. Anche se proporre “Bread & Roses” non è stato facile.

Perché?
SM Da ormai otto anni stavo lavorando su un altro film e avevo presentato il progetto al Festival di Venezia per una coproduzione. Raccontava l’unica scuola di musica esistente in Afghanistan a Kabul: avevo tanto materiale ed era quasi tutto pronto. Proporre “Bread & Roses” era una scelta estremamente difficile: non ero sicura di reggere emotivamente e soprattutto significava non poter tornare più nel mio Paese a pubblicazione avvenuta. Mi sono resa conto che, però, era l’unica scelta possibile. Perché poteva essere il modo più concreto per aiutare le lotte delle attiviste e farle conoscere al mondo.

La qualità delle riprese e delle immagini è altissima, nonostante siano scene di vita quotidiana spesso riprese di nascosto.
SM Riuscirci è stato molto complicato. Dopo aver costruito una squadra sul campo con dei cameramen professionisti, un uomo e una donna, e poi piano piano abbiamo insegnato alle protagoniste a filmare la loro vita. Io mi sono trasferita per un anno e mezzo al confine con l’Afghanistan e da lì ho coordinato l’équipe che era sparsa un po’ in tutto il mondo, dal Pakistan alla Svezia, dalla Francia fino agli Stati Uniti. Ma l’elemento logistico era tutto sommato il più semplice se paragonato alla fatica emotiva. Avevo a che fare tutti i giorni con storie di perdita, resilienza, speranza, sofferenza ma soprattutto esistenze in bilico. A volte le attiviste sparivano per giorni, mesi, settimane e noi perdevamo traccia di loro.

Zahra Mohammadi fin da subito organizza la resistenza, Sharifa, ex dipendente del governo, è costretta a nascondersi in casa mentre Taranom è costretta a fuggire in Pakistan. Che cosa accomuna le tre protagoniste?
SM
Tutte sono giovani e talentuose, con idee moderne. Rappresentano coloro che potevano costruire il futuro del Paese ma vengono costrette a stare nelle loro case, che da tre anni e mezzo sono diventate prigioni. All’inizio i Talebani hanno tolto l’accesso all’educazione, poi il lavoro, poi l’impossibilità di uscire senza accompagnatore. Ma anche pregare, piuttosto che cantare da dietro una porta per richiamare l’attenzione di chi è fuori. Il regime vuole fare il deserto per poter radicalizzare il più alto numero possibile di giovani e una madre acculturata è l’ostacolo più grande che si possa avere. E non è un caso che oltre a colpire gli ospedali in cui le donne partoriscono limitano anche l’accesso alle facoltà di ostetricia e infermieristica che è cruciale per il tema della maternità. Da tre anni e mezzo abbiamo avuto solidarietà dal mondo ma ora serve di più. A partire dal codificare il “gender apartheid” come crimine contro l’umanità: quello sta succedendo in Afghanistan.

Invece i Talebani sono stati invitati a Doha a sedersi al tavolo con i membri delle Nazioni Unite. Che cosa ne pensa?
SM
Non concepisco neanche come sia possibile che un terrorista possa prendere un volo e sedersi al tavolo delle trattative. Chi sta decidendo di lasciare a un gruppo terroristico un pezzo del mondo? Qual è la motivazione politica che sta dietro a tutti questi giochi sporchi? E le donne, le donne dell’Afghanistan stanno pagando un prezzo altissimo. Al giorno d’oggi, sono presenti in casa ma senza alcuna attività sociale, politica ed economica, senza alcun diritto umano di base. Sono passati tre anni e mezzo e penso che sia sufficiente.

Grazie alla storia di Taranom, per sei mesi confinata in Pakistan in un centro per rifugiati che somiglia di più a una prigione, si conosce anche il tragico limbo di chi è in attesa di un visto.
SM
Tante delle persone che hanno collaborato con me sono ferme in Iran e in Pakistan. Aspettano una chiamata che non arriva mai. Molti Paesi hanno fermato le evacuazioni nonostante in tantissimi continuino a rischiare la vita, soprattutto chi vive ancora in Afghanistan ed è particolarmente esposto, come attivisti, artisti e registi che sono considerati dei criminali dal regime. Il mondo è giustamente impegnato su tante altre orribili “questioni” ma questo non rende la situazione in Afghanistan meno grave. Eppure dovrebbe interessare a tutti.

Perché?
SM
Lasciare il Paese in mano ai terroristi significa decidere sul futuro di tutti. Oggi il mio Paese paga il prezzo più alto, non possiamo escludere che domani sia il mondo intero a farlo per non aver fatto nulla.

Le reazioni alla morte di Khalil Haqqani: una vittima nel “gioco dei troni” tra l’Emiro e il Califfo

Mentre i Talebani impongono ai media la definizione di “martire” ad Haqqani ucciso in un attentato suicida, molti gioiscono per la fine di questo ufficiale talebano terrorista che ha provocato migliaia di morti innocenti

Amin Kawa, 8AM Media, 14 dicembre 2024

Khalil Ur-Rahman Haqqani, ministro talebano per i rifugiati e il rimpatrio e membro di spicco della Rete Haqqani, è stato ucciso in un attacco suicida nell’edificio del ministero a Kabul. Era l’unico ministro talebano armato e partecipava a tutte le riunioni ufficiali e non ufficiali con una pistola alla mano. Alcuni alti funzionari del precedente governo hanno definito la sua morte come “martirio”, ma un gran numero di cittadini ha criticato questa definizione accogliendo con favore la morte di Haqqani, accusato di aver guidato i battaglioni suicidi della Rete per oltre 20 anni, e affermando che ha portato un po’ di conforto alle famiglie delle vittime. Tuttavia il Ministero dell’Informazione e della Cultura talebano ha chiesto ai media nazionali di usare il termine “martirio” invece di “morte” nei loro resoconti, spingendo media a modificare le notizie pubblicate.

Alcuni cittadini hanno collegato l’uccisione di Haqqani alle divisioni interne ai Talebani, ritenendola parte della lotta per il potere tra Hibatullah Akhundzada e Sirajuddin Haqqani.

Negli ultimi due decenni la Rete Haqqani è stata responsabile di numerosi attacchi suicidi a Kabul e in altre province che hanno causato centinaia di vittime, tra cui donne e bambini. Da quando ha conquistato l’Afghanistan, la rete ha spesso glorificato i suoi battaglioni suicidi e ha fornito terreni e risorse governative alle loro famiglie. Mercoledì 11 dicembre 2024 lo zio di Sirajuddin Haqqani, membro anziano noto come il “Califfo degli attentatori suicidi”, è stato ucciso in un attacco suicida nella sede del ministero, mentre stava partecipando a una sessione formale, armato come sempre nelle riunioni ufficiali per la sua diffidenza verso le guardie del corpo.

Alcune ore dopo l’attacco, i Talebani hanno diffuso sui social media un’immagine del kamikaze, affermando che durante la sessione l’attentatore aveva fatto esplodere la sua carica esplosiva.

in un attacco “brutale” dell’ISIS…

Reazioni alla morte di Khalil Ur-Rahman Haqqani

L’uccisione di questo alto funzionario talebano ha scatenato le reazioni di diversi attivisti politici e di alti funzionari dei precedenti governi afghani. Alcuni hanno accolto con favore la sua morte, attribuendo alla Rete Haqqani la responsabilità dei numerosi attacchi suicidi che hanno causato migliaia di vittime in Afghanistan, ritenendo la morte di Haqqani una giusta punizione.

L’ex presidente afghano Hamid Karzai, invece, ne ha condannato l’uccisione definendolo un “martire” membro di un’importante famiglia jihadista afghana e sottolineando il suo ruolo nella lotta contro l’ex Unione Sovietica.

Allo stesso modo, anche esponenti politici come l’ex presidente dell’Alto Consiglio per la Riconciliazione Nazionale Abdullah Abdullah, il leader jihadista Hamed Gilani, l’ex ministro delle Finanze Omar Zakhilwal, l’ex membro del Parlamento Jafar Mahdavi e molti altri hanno descritto la morte di Haqqani come “martirio” e condannato l’incidente.

D’altra parte, Zahir Aghbar, ambasciatore dell’Afghanistan in Tagikistan, ha cancellato un messaggio che aveva pubblicato per condannare l’uccisione di Khalil Ur-Rahman Haqqani. Nel suo messaggio originale, Aghbar aveva definito l’attacco un “atto terroristico”. Dopo aver cancellato il post, ha scritto: “I Talebani stanno raccogliendo ciò che hanno seminato”.

Nel frattempo, Ishaq Dar, ministro degli Esteri del Pakistan, ha espresso il suo shock per l’uccisione del ministro per i Rifugiati e il rimpatrio dei Talebani. Ha dichiarato che il Pakistan condanna inequivocabilmente il terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni.

Contemporaneamente, alcuni utenti dei social media hanno attribuito la morte di Khalil Ur-Rahman Haqqani a divergenze interne ai Talebani, suggerendo che la Rete Haqqani non fosse d’accordo con le direttive emanate da Hibatullah Akhundzada, la Guida suprema dei Talebani, prevedendo che altre figure talebane potrebbero essere uccise in dispute interne, viste le lotte di potere in atto all’interno dei Talebani, in particolare per il controllo della Rete Haqqani, che dispone di ingenti risorse finanziarie e di stretti legami con gruppi terroristici internazionali.

Ali Sajad Mawlaee, un giornalista, ha scritto: “Il gioco dei troni: Emiro 1, Califfo 0”.

Mohammad Haleem Fidai, ex governatore della provincia di Logar, ha scritto su X (ex Twitter): “Sembra che questa azione sia stata istruita direttamente dal Mullah Hibatullah o, almeno, che sia stata eseguita con la sua consultazione e il suo accordo”. Con questo atto, Hibatullah cerca di inviare un chiaro messaggio: non solo ha il potere di neutralizzare, ma anche di eliminare fisicamente la Rete Haqqani a livello politico”.

Accoglienza ed espressione di soddisfazione per la morte di Khalil Ur-Rahman Haqqani

Alcuni sui social media hanno ricordato le vittime degli attacchi suicidi compiuti dalla Rete Haqqani e hanno espresso soddisfazione per la sua morte. Condividendo le immagini delle vittime degli attacchi suicidi di cui la Rete Haqqani ha rivendicato la responsabilità, hanno dichiarato di provare sollievo per la morte di questo ufficiale talebano.

Shahid Farhosh, ex giornalista, ha condiviso un biglietto di Zubair Hatami, cameraman televisivo rimasto vittima di un attacco suicida, e ha scritto di lui: “Dopo nove anni, oggi sono molto felice. Sapete perché? Perché proprio in questo giorno, il giorno in cui hanno versato il nostro sangue e ti hanno portato via da noi, ho ricevuto la notizia della morte di uno dei tuoi assassini più sanguinari”… Kalimullah Hamsukhan, un attivista politico, ha scritto: “Inshallah, il dolore raggiungerà le vostre case, una per una e voi ne siete stati la causa. Migliaia di cittadini innocenti della nostra patria sono stati vittime della vostra brama di paradiso, di vergini e di giovani ragazzi. Capite come ci si sente ora? L’attentatore era un kamikaze e lo chiamate martire eroico?”.

Hasamuddin Anwari, un altro utente di Facebook, ha scritto: “Zio Khalil è andato in paradiso; che tali partenze portino benedizioni. Ha tolto la vita a migliaia di persone e ne ha rese milioni di altre senzatetto. Ha rovinato la vita di quattro donne (la sua quarta moglie era una ragazza di 21 anni). Ha insegnato la vergognosa cultura degli attentati suicidi ai poveri e ignoranti bambini dell’Est. Ora è caduto nella trappola di questa maledetta cultura e se n’è andato per sempre”.

Ma chi era Khalil Ur-Rahman Haqqani?

Nato nel 1966 nella provincia di Paktia, nell’Afghanistan orientale, Khalil Ur-Rahman Haqqani è stato un importante membro della Rete Haqqani. Era lo zio di Sirajuddin Haqqani, ministro degli Interni dei Talebani nonché membro di spicco della Rete Haqqani. Dopo la caduta del primo regime talebano, Haqqani fu arrestato in un’operazione congiunta condotta da Stati Uniti e Pakistan. Fu rilasciato dopo quattro anni in cambio della liberazione di 350 soldati pakistani nella regione del Waziristan meridionale, nella provincia del Khyber Pakhtunkhwa.

Dopo la conquista dell’Afghanistan da parte dei Talebani, è stato nominato ministro per i rifugiati e il rimpatrio dei Talebani, carica che ha ricoperto fino alla sua morte.

Gli Stati Uniti avevano fissato una ricompensa di 5 milioni di dollari per chiunque lo avesse catturato durante la loro presenza in Afghanistan, inserendo la Rete Haqqani nell’elenco delle organizzazioni terroristiche straniere. Secondo quanto riportato dal sito federale “Ricompense per la giustizia”, Khalil Ur-Rahman Haqqani forniva “supporto logistico ai membri dei Talebani nella provincia di Logar, in Afghanistan, dal 2010”. Nel febbraio 2011, il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti lo ha designato come “terrorista globale specialmente designato” e gli ha imposto sanzioni, dichiarando “reato” qualsiasi rapporto finanziario con lui.

In precedenza, Mohammad Dawood Muzammil, governatore talebano di Balkh e comandante del gruppo, è stato ucciso in un attacco suicida a Balkh, per il quale l’ISIS ha rivendicato la responsabilità. Al momento della stesura di questo rapporto, nessun gruppo ha rivendicato la responsabilità dell’attacco a Khalil Ur-Rahman Haqqani.