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Tag: Talebani

Donne all’ombra del fascismo globale: la narrazione di una ragazza afghana e una verità che non conosce confini

Socialist Feminism by Frieda Afary, 19 agosto 2025, di Azadeh Omid

Negli ultimi quattro anni ho vissuto in un Paese in cui il cielo crolla costantemente sulla testa delle donne. Da ragazza afghana, accolgo ogni alba senza sapere se quel giorno vedrò il tramonto. Nell’ombra minacciosa dei talebani, essere donna non è solo una limitazione, ma un crimine, un crimine la cui punizione è l’esclusione dalla vita sociale e umana. Ogni
volta che sento che i talebani hanno arrestato donne per motivi come “non indossare l’hijab” o “insubordinazione”, mi si stringe il cuore. Quando esco di casa, l’hijab obbligatorio non solo mi copre il corpo, ma agisce anche come una catena intorno al collo e alla mente. La sicurezza è inutile anche a casa. Il silenzio della sera è rotto dal pensiero che “domani potrebbe essere il mio turno”.

Questo incubo non è personale. È collettivo. Centinaia di migliaia di donne in Afghanistan oggi stanno vivendo questa ansia e repressione. Siamo intrappolate in una trappola che non ci offre alcuna via di fuga né il coraggio di resistere. Ma devo dire che questo inferno non è stato costruito solo dai talebani. È il prodotto diretto degli accordi presi dalle grandi potenze: Stati Uniti, NATO, Pakistan, Iran, Arabia Saudita, Qatar, Russia e Cina. Ognuna di loro ha trasformato il nostro Paese in una scacchiera con i propri interessi economici e militari. Una scacchiera in cui la vita e la libertà delle donne sono solo pedine inutili.

Questa catastrofe non riguarda solo l’Afghanistan. Il fascismo, indipendentemente dalle sue forme e dal suo linguaggio, è nemico della libertà e dell’uguaglianza delle donne, sia che si manifesti nei fondamentalisti religiosi di Kabul o nei nuovi governanti di Washington DC, che usano il linguaggio dell’odio e della discriminazione per aprire la strada alla violenza e alla disuguaglianza. L’ascesa di Trump negli Stati Uniti è stata una sirena d’allarme globale e non solo una crisi interna. Quando una donna perde il diritto al controllo del proprio corpo, l’eco di questa sconfitta raggiunge anche l’Afghanistan, l’Iran, la Palestina, la Siria…

La storia delle lotte delle donne ha dimostrato che fascismo e autoritarismo possono crescere solo quando il silenzio e la complicità prendono il sopravvento. Questo silenzio, che si manifesti sotto forma di indifferenza delle nazioni o di conciliazione tra i governanti, è l’ossigeno che mantiene vive le fiamme dell’autoritarismo. Le donne negli Stati Uniti, in Iran, in Palestina, in Kurdistan, in Turchia, in Ucraina, in Russia, in Cile, in Spagna, in Sudafrica, in Afghanistan e in molte altre parti del mondo hanno imparato attraverso la lotta e la resistenza che l’emancipazione non è un dono dall’alto. La libertà deve venire dal basso, dal cuore delle strade, dalle voci delle donne, dal coraggio e dalla solidarietà.

Sono ancora qui, in un Paese che vuole farmi tacere e dimenticarmi. Ma ogni giorno, anche se nessuno sente la mia voce, dentro di me c’è una fiamma che dice “no”. Questo “no” non è rivolto solo ai talebani, ma a qualsiasi sistema che emargini le donne, in nome della religione o sotto la copertura di una falsa democrazia.

La nostra emancipazione è strettamente legata alla presa in carico del nostro destino. Nessuna potenza straniera, nemmeno con la pretesa di libertà, potrà liberarci. Proprio come il fascismo non ha confini, anche la nostra lotta deve essere globale, una rete di donne e uomini che si ribellano al dominio, alla disuguaglianza e alla violenza in ogni parte del mondo.

Sono una ragazza afghana, ma la mia storia è la storia di tutte le donne che lottano nel mondo di oggi per il diritto di respirare, prendere decisioni e vivere. Finché questa lotta continuerà, il fascismo non durerà per sempre.
Azadeh Omid

15 agosto 2025

Foto originariamente pubblicata su https://femena.net/2024/08/15/three-years-and-counting-the-struggle-and-resistance-of-afghan-women/

[Trad. automatica]

Kabul si sta prosciugando e le soluzioni potrebbero arrivare troppo tardi

The New York Times, 13 agosto 2025, di Elian Peltier*, Immagini di Jim Huylebroek
Reportage da Kabul, Afghanistan.

I sei milioni di persone che vivono nella capitale afghana potrebbero rimanere senza acqua entro il 2030. Il governo sta cercando soluzioni, ma le riserve finanziarie sono esaurite come i bacini idrici di Kabul.

Mentre il tramonto avvolgeva Kabul in una recente sera d’estate, due vicini si scambiavano insulti per l’accesso a una risorsa in rapida diminuzione: l’acqua.

“Se vieni con quattro taniche, salti la fila”, sibilò Aman Karimi a una donna mentre le strappava un tubo dalle mani e riempiva i propri secchi dal rubinetto di una moschea. “È il mio turno, ed è un mio diritto.”

Kabul è arida, prosciugata dalle scarse precipitazioni e dallo scioglimento delle nevi, e prosciugata da pozzi non regolamentati. La città è diventata così arida che i suoi sei milioni di abitanti potrebbero rimanere senza acqua entro il 2030, e ora stanno lottando per questo.

Le sue riserve idriche si stanno esaurendo quasi due volte più velocemente di quanto si stiano rigenerando. L’amministrazione talebana, a corto di fondi, non è stata finora in grado di portare l’acqua dalle dighe e dai fiumi vicini alla città soffocata.

Ora Kabul rischia di diventare la prima capitale moderna ad esaurire le riserve idriche sotterranee, ha avvertito l’organizzazione no-profit Mercy Corps in un recente rapporto .

“Stiamo lottando sempre di più perché per noi l’acqua è come l’oro”, ha detto il signor Karimi, mentre spingeva una carriola piena di 180 litri d’acqua che la sua famiglia di cinque persone avrebbe usato per cucinare, lavare e bere. Il signor Karimi, un sarto, ha detto che si sono trasferiti di recente in una nuova casa a causa dell’impennata dei prezzi delle case, ma la nuova casa non ha l’acqua corrente.

Kabul, circondata da montagne innevate e attraversata da tre fiumi, non è mai stata considerata una città arida. Ma, nonostante la sua popolazione sia cresciuta di circa sei volte negli ultimi 25 anni, non è stato ancora messo in atto un sistema di gestione idrica adeguato per attingere acqua da altre fonti o per regolamentare l’estrazione sotterranea da serre, fabbriche ed edifici residenziali che stanno proliferando in tutta la città.

L’approvvigionamento idrico è un problema critico in tutto l’Afghanistan. Secondo le Nazioni Unite, almeno 700.000 afghani vengono sfollati ogni anno a causa dei cambiamenti climatici, principalmente a causa della siccità. Un terzo dei 42 milioni di abitanti dell’Afghanistan non ha accesso all’acqua potabile.

I donatori internazionali hanno finanziato numerosi progetti di dighe e iniziative per collegare le case di Kabul a una rete fognaria affidabile, stanziando centinaia di milioni di dollari. La maggior parte di questi progetti non ha mai visto la luce o è stata bruscamente interrotta dopo il 2021, quando i talebani hanno preso il controllo e altre nazioni si sono rifiutate di riconoscere il nuovo governo dopo il ritiro degli Stati Uniti.

“Kabul lotta con problemi idrici da due decenni, ma non è mai stata una priorità”, ha affermato Najibullah Sadid, esperto di risorse idriche. “Ora i pozzi si stanno prosciugando ed è un’emergenza”.

Gli abitanti di Kabul hanno scavato sempre più pozzi nei cortili e negli scantinati, prosciugando una città prosciugata dall’estrazione idrica incontrollata.

Secondo un rapporto del 2021 dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale, solo un quinto degli abitanti di Kabul ha accesso all’acqua corrente. Ma anche le tubature sono sempre più fuori servizio. Persino l’agenzia nazionale per l’ambiente fa affidamento su un’autocisterna che trasporta più di 2.600 galloni d’acqua al giorno, perché il suo pozzo si è prosciugato e le sue tubature sono fuori servizio.

Kabul è come se fosse sotto flebo, con migliaia di litri d’acqua forniti da centinaia di tricicli di fabbricazione cinese e camion dell’era sovietica che attraversano la città.

Centinaia di tricicli di fabbricazione cinese sono disponibili anche con consegna a domicilio.
Chi non può permettersi di acquistare acqua dalle aziende di distribuzione si affida ai pozzi sempre più scarsi delle moschee o alla carità dei residenti benestanti. Al tramonto, le carriole escono e le strade tortuose e le ripide colline brillano di grandi taniche di olio da cucina giallo girasole trasformate in contenitori per l’acqua.

Una mattina di recente, Haji Muhammad Zahir è corso giù per le scale dopo aver sentito un messaggio registrato che pubblicizzava l’acqua che scorreva a cascata lungo la sua strada alberata. Le aziende di distribuzione idrica sono spuntate come funghi in tutta Kabul, anche in quartieri benestanti come il suo, dove residenti di lunga data ora condividono le loro strade con ex combattenti e funzionari talebani.

Ex presidente del Consiglio Comunale e ingegnere meccanico in pensione, il signor Zahir ha affermato che il suo pozzo si era prosciugato anni fa e che la conduttura pubblica della sua casa a due piani perdeva acqua solo ogni tre giorni. Ha esortato i talebani a tenere a galla Kabul, ma ha aggiunto: “Dove sono i soldi per questo?”

Il governo sta cercando disperatamente di reperire fondi. In tutto il Paese, dal 2021 sono state completate quattro dighe, tra cui una a 32 chilometri da Kabul che, se collegata tramite una conduttura, potrebbe portare acqua a migliaia di famiglie. Un altro progetto di oleodotto nella vicina valle del Panjshir deve ancora ricevere l’approvazione definitiva dalla leadership del Paese.

Entrambi mancano di finanziamenti: i donatori stranieri hanno chiuso i rubinetti e gli investimenti privati sono scarsi. “I nostri progetti sono grandi e possiamo fornire solo metà dei fondi”, ha dichiarato in un’intervista Matiullah Abid, portavoce del Ministero dell’acqua e dell’energia afghano.

Nei pressi della moschea dove il signor Karimi aveva rimproverato un vicino, la fila di persone in attesa dell’acqua si era lentamente assottigliata.

Tra gli ultimi c’era Atefeh Kazimi, 26 anni, che ha riempito alcune taniche in cambio di qualche afghano, la moneta nazionale, per la moschea. Poi ha trascinato la sua carriola per 30 minuti fino a casa.

C’era una moschea più vicina a casa sua, ma il pozzo era asciutto.

Safiullah Padshah e Yaqoob Akbary hanno contribuito al reportage.

*Elian Peltier è un corrispondente internazionale del Times e si occupa di Afghanistan e Pakistan.

[Trad. automatica]

L’anniversario. Afghanistan, l’incubo taleban compie 4 anni. Le donne? Cancellate

Avvenire, 15 agosto 2025, di Lia Capuzzi

L’addio tumultuoso degli Usa il 15 agosto 2021 ha segnato uno spartiacque: nel Paese c’è un vero e proprio apartheid di genere, mentre l’assistenza umanitaria si è ridotta

«Come sto? Come in una prigione». Soraya, il nome è di fantasia per ragioni di sicurezza, 30 anni, era una docente di inglese in un liceo fino a undici mesi fa. Prima, ai tempi della Repubblica, lavorava in una scuola della sua comunità – che è preferibile non indicare –, a due ore a nord di Kabul. Ha continuato a farlo anche dopo il 15 agosto 2021, quando i taleban sono tornati al potere in seguito al ritiro precipitoso delle forze Usa e Nato. Poco dopo che l’ultimo aereo statunitense è partito lasciando dietro di sé migliaia di collaboratori locali e le loro famiglie, gli ex studenti coranici hanno vietato l’istruzione femminile dalla fine delle elementari. Soraya impartiva ugualmente lezioni alle studentesse delle superiori in una “scuola clandestina”, una delle tante cresciute nell’esteso “cono d’ombra” dell’Emirato islamico dell’Afghanistan. Un’area che il regime estende o restringe a propria discrezione. «Sapevano della nostra esistenza. Solo per un po’ ci hanno lasciato fare per non irritare il consiglio degli anziani che ci proteggeva. Poi, un anno fa sono cambiate le autorità locali. E un mese dopo hanno fatto irruzione ei hanno arrestati tutti». Soraya e le altre quattro colleghe sono state rilasciate nel giro di poche ore. I due colleghi maschi sono in cella da dieci mesi. «In fondo neanche noi siamo mai uscite. Nel quartiere tutti ci evitano. Pensano che siamo state violentate in carcere… Ora sopravvivo facendo piccoli oggetti di artigianato. Ma ho paura che tornino a prendermi.….».

Una società senza donne
La cancellazione della componente femminile dalla vita civile, come l’ha definita nel nuovo rapporto la missione Onu in Afghanistan (Unama), è senza dubbio il tratto più vistoso di quattro anni di potere taleban. Attraverso una sfilza di oltre un centinaio di editti – sempre temporanei e senza, di fatto, cambiare la Costituzione – il regime ha realizzato una vera e propria apartheid di genere: le donne sono escluse dalla pubblica amministrazione, da quasi tutte le professioni, dal sistema educativo. Non possono viaggiare se non accompagnate da un “mahram”, parente maschio, devono coprire corpo e volto, non possono entrare nei parchi e nemmeno parlare ad alta voce. Misure applicate con crescente intensità fino all’attuale giro di vite attuale, denunciato da Unama.

Il ritorno di Mosca
A quest’ultimo ha contribuito lo spazio conquistato dal regime in ambito internazionale. Al principio isolati e con 7 miliardi di dollari di fondi congelati nelle banche statunitensi, i taleban sono riusciti progressivamente a insinuarsi nelle sempre più evidenti fratture della comunità internazionale. In particolare, quella tra Occidente – o Occidenti – e asse russo-cinese. Cruciale la rottura dei legami con al-Qaeda e l’impegno contro il terrorismo internazionale, in particolare i rivali estremisti di Isis-K. E il “bottino” offerto: le terre rare che fanno gola al mondo, da Donald Trump a Xi Jinping. Lo scorso febbraio, il portavoce dei taleban Zabihullah Mujahid, ha dichiarato di avere avviato «contatti» diplomatici con 40 Paesi. Il ministero degli Esteri di Kabul, in realtà, nel sito ufficiale, restringe la lista a 29. Di fatto, poi, di questi, con una mossa inedita, solo la Russia di Vladimir Putin ha riconosciuto l’Emirato il mese scorso. A 46 anni dal ritiro dell’Armata Rossa dalla nazione, Mosca si è ritagliata un ruolo da protagonista nel “Grande gioco” afghano battendo sul tempo la Cina che – insieme Emirati, Uzbekistan e Pakistan – non ha mai chiuso l’ambasciata a Kabul. La scelta del Cremlino non sembra comunque destinata a restare isolata. India, Qatar, Arabia Saudita, Turchia, Azerbaigian, Kazakistan e Turkmenistan hanno aperto alla collaborazione diplomatica e consolare con i taleban. L’imminente missione del presidente di Teheran, Masoud Pezeshkian, sarebbe la seconda di alto dopo quella del premier uzbeko Abdulla Aripov di un anno fa. Ad accelerare la svolta iraniana, la determinazione a ridurre la pressione dei rifugiati afghani: oltre 1,5 milioni sono stati rispediti indietro nell’ultimo anno, 250mila solo a giugno. Proprio il nodo migratorio sta causando mutamenti anche nell’orientamento europeo. Ufficialmente la linea non cambia. Retorica e condanne verbali a parte, però, la Germania ha appena siglato un accordo con cui accetta due inviati dell’Emirato per gestire i rimpatri mentre la Norvegia ha accettato una delegazione taleban all’ambasciata di Oslo. Pur senza una presenza fissa, Paesi Bassi, Repubblica Ceca e Bulgaria hanno già concordato protocolli di liberazione. Perfino l’Onu ha ospitato un gruppo di osservatori alla Conferenza sul clima di Baku e, nel giugno 2024, complice lo smantellamento dei campi di papaveri da oppio, ha avuto a Doha il primo incontro formale con i rappresentanti del governo di fatto.

Le macerie della guerra
Il processo è, però, lento e i taleban – a differenza del vecchio detto afghano – non hanno più il tempo. Senza l’aiuto del mondo, da cui dipendeva per tre quarti il bilancio nazionale, l’economia è al collasso e 23 milioni di persone hanno necessità di assistenza umanitaria per sopravvivere. Tre afghani su cinque non possono pagare sono costretti a indebitarsi per avere accesso alle cure di base, come denuncia Emergency. «L’Afghanistan attuale è la cartina tornasole di cosa resta dopo decenni di conflitto», dice il direttore locale Dejan Panic. Dopo oltre mezzo secolo di scontro civile, i combattimenti sono finiti. La pace asfissiante dei taleban, però, è l’altra faccia della guerra.

Afghanistan, la resistenza delle donne. Seconda parte

Pressenza, 14 agosto 2025, di Fiorella Carollo

Negli ultimi quattro anni, le organizzazioni, tra cui Rawa, che cercavano di organizzare proteste e di far sentire la voce delle donne afghane come resistenza contro i Talebani hanno subìto arresti, minacce, uccisioni delle loro aderenti e questo è il motivo per cui la protesta ha cambiato forma.

Ora, come organizzazione, e credo che questo valga anche per la maggioranza delle donne afghane, ci stiamo concentrando su metodi clandestini di resistenza e crediamo che una di queste forme di resistenza sia aumentare la consapevolezza delle donne e il loro livello di istruzione. Ed è per questo che negli ultimi quattro anni abbiamo cercato di organizzare corsi segreti a domicilio di inglese, informatica o scienze, per le ragazze che non possono andare a scuola e per le donne più grandi. Abbiamo cercato di mobilitare un grande numero di donne per poter dare più consapevolezza e coraggio alle giovani generazioni affinché resistano ai Talebani.

Anche la resistenza delle donne in Iran ci ha incoraggiato e ispirato molto, facendoci capire che il fascismo religioso e il fondamentalismo religioso, sebbene siano al governo da decenni, non possono mettere a tacere le donne.

Le donne più istruite e consapevoli dei propri diritti saranno sicuramente in grado di affrontare le minacce e di trovare il modo di resistere. E lo vediamo ancora di più attraverso l’uso dei social media, dei corsi online, attraverso corsi segreti e opportunità educative. Le donne stanno cercando di mobilitarsi di più contro i Talebani e soprattutto contro la polizia religiosa.

Posso sicuramente dire che il nostro lavoro sta migliorando rispetto a quanto si faceva prima. E la semplice ragione è che prima del 2021 c’erano molte opportunità per le donne, università private, college, scuole, tutto. Ora solo organizzazioni come Rawa e alcune ONG offrono opportunità di istruzione o corsi di alfabetizzazione per le donne.

Il problema che abbiamo è la sicurezza. Purtroppo, non possiamo costruire classi numerose o centri per le donne. Non possiamo portare più donne in alcune regioni, soprattutto non possiamo portare avanti alcun progetto dove i Talebani sono molto forti e nelle piccole città. Nelle grandi città è più facile prenderci cura delle misure di sicurezza.

La maggior parte sono lezioni clandestine o segrete a domicilio. Si svolgono all’interno delle case degli insegnanti. Non paghiamo l’affitto per l’edificio o per la lezione. Una normale stanza per la vita quotidiana è usata anche come una classe. La rete degli insegnanti è composta da persone che già conosciamo e di cui ci fidiamo, che sono molto creative nel trovare studenti affidabili e nell’ampliare le loro reti senza trasformare la loro casa in una scuola ufficiale. In ogni classe, il numero medio di studentesse è di 15-20.

In alcune zone vediamo che 50-60 donne vorrebbero partecipare e purtroppo, per motivi di sicurezza, non possiamo permetterlo. Non possiamo nemmeno scegliere due o tre case molto vicine, perché se succedesse qualcosa a una delle nostre classi segrete potrebbe venire coinvolta anche l’altra. Quindi, dobbiamo stare attente a mantenere la distanza tra le nostre classi. L’insegnante e le studentesse sono molto creative nel trovare soluzioni ai loro problemi di sicurezza. È comune in Afghanistan che le donne si riuniscano per confezionare abiti e per insegnare/imparare il Corano, che è considerato un atto religioso. In ognuna di queste lezioni abbiamo il Corano e l’insegnante, qualora i Talebani entrassero in casa, direbbe che si tratta di studi coranici e che la lavagna e tutto il resto servono per insegnare il Corano. E ai Talebani va bene.

Nelle nostre classi nel tempo si sviluppa una grande solidarietà tra le ragazze, le donne e le insegnanti. Di recente, una delle ragazze a causa delle pressioni della famiglia aveva abbandonato la classe; è accaduto a Kabul, che è la zona più sicura rispetto ad altre. Le sue compagne di classe indagano e quando scoprono che è il fratello a non permetterlo, un folto gruppo di 10-12 compagne di classe si è unito per convincerlo. Sfortunatamente, non ci sono riuscite, pur avendo ottenuto il consenso dei membri maschi della sua famiglia e sebbene si fossero offerte di alternarsi nell’accompagnarla.

La politica di Rawa non è solo quella di fornire l’alfabetizzazione, ma anche di dare alle donne ferite l’opportunità di parlare tra di loro di cosa soffrono, che tipo di discriminazione subiscono all’interno della famiglia, cosa possiamo fare. In moltissimi casi l’insegnante va a trovare la famiglia quando sorgono problemi di qualsiasi tipo. E’ successo recentemente a Jila, una giovane studentessa; la famiglia voleva darla in matrimonio, mentre lei voleva continuare le sue lezioni. L’insegnante è andata a parlare con i membri maschi della famiglia per dire loro che la figlia non era ancora pronta per questa proposta di matrimonio e fortunatamente loro hanno acconsentito a rimandarlo.

Abbiamo molti esempi di questi piccoli successi nel migliorare la vita delle donne, delle bambine e delle ragazze afghane, il che ci dà molto coraggio. Come organizzazione nutriamo grande speranza nel futuro; ora viviamo un momento buio della nostra storia, ma non è destinato a durare per sempre. Prima o poi la luce tornerà a risplendere sull’Afghanistan.

Afghan Geeks: la rivoluzione silenziosa delle donne afghane che imparano a programmare in segreto

euronews.com 6 agosto 2025

Mentre i Talebani vietano studio e lavoro alle donne, un giovane rifugiato in Grecia insegna programmazione online a 28 afghane, aprendo loro una via verso l’indipendenza digitale
Da quando i Talebani sono tornati al potere nell’agosto 2021, le donne in Afghanistan vivono sotto un regime oppressivo: non possono lavorare, uscire da sole, frequentare ristoranti o proseguire gli studi oltre la scuola primaria.
Tra loro c’è Sondaba, una delle tante donne che hanno visto crollare ogni libertà. Ma in mezzo al silenzio e alla paura, ha trovato una finestra aperta sul mondo: un corso di programmazione online gratuito in dari, la sua lingua madre.

Un rifugiato, una missione

Dietro a questo progetto c’è Murtaza Jafari, 25 anni, rifugiato afghano arrivato in Grecia da adolescente su un barcone dalla Turchia. All’epoca non conosceva l’inglese, né sapeva come accendere un computer. Ma un insegnante gli ha aperto una porta: un corso di coding. Da lì, tutto è cambiato.
Oggi Murtaza è il fondatore di Afghan Geeks, una piattaforma che offre corsi di programmazione a distanza a donne in Afghanistan. A dicembre 2024, insegna a 28 studentesse, suddivise tra principianti, intermedie e avanzate, accompagnandole anche nella ricerca di stage e lavori da remoto.Dietro a questo progetto c’è Murtaza Jafari, 25 anni, rifugiato afghano arrivato in Grecia da adolescente su un barcone dalla Turchia. All’epoca non conosceva l’inglese, né sapeva come accendere un computer. Ma un insegnante gli ha aperto una porta: un corso di coding. Da lì, tutto è cambiato.
Oggi Murtaza è il fondatore di Afghan Geeks, una piattaforma che offre corsi di programmazione a distanza a donne in Afghanistan. A dicembre 2024, insegna a 28 studentesse, suddivise tra principianti, intermedie e avanzate, accompagnandole anche nella ricerca di stage e lavori da remoto.

Lavorare senza essere viste

Per molte di queste donne, il lavoro digitale è l’unica possibilità di reddito e autonomia personale. Le più esperte collaborano direttamente con Afghan Geeks, offrendo servizi di sviluppo web e creazione di chatbot. Jafari afferma di avere clienti in Afghanistan, Stati Uniti, Regno Unito ed Europa.
Eppure, dopo mesi di insegnamento, non ha mai visto i volti delle sue studentesse.
“Parlo con loro ogni giorno. So delle loro vite sotto i Talebani, della loro salute. Ma non ho mai chiesto loro di accendere la telecamera. Lo rispetto. È la nostra cultura. Ed è una loro scelta”, racconta Jafari.

Una rete di speranza, dietro gli schermi

Nonostante le barriere, il desiderio di imparare e costruire un futuro non si è spento. Afghan Geeks rappresenta più di un corso di coding: è una comunità, una forma di resistenza pacifica, una possibilità concreta di autodeterminazione.
“In Afghanistan le donne non possono studiare, non possono lavorare. Questo è il minimo che posso offrire come cittadino afghano”, dice Murtaza.
Nel silenzio imposto dalla repressione, lo schermo di un computer diventa il ponte verso la libertà. Una rivoluzione silenziosa, fatta di righe di codice e voci senza volto, ma con una determinazione che parla forte e chiaro.

Afghanistan: i talebani arrestano almeno sette giornalisti a luglio

rawa.org Federazione Internazionale dei Giornalisti 6 agosto 2025

Il ricorso alla detenzione arbitraria e all’intimidazione dei giornalisti tramite la minaccia del carcere è stato uno strumento frequente dei talebani.

A luglio, i giornalisti afghani hanno subito continue molestie e intimidazioni da parte delle autorità talebane, con l’incarcerazione di almeno sette operatori dei media. La Federazione Internazionale dei Giornalisti si unisce alla sua affiliata, l’Unione dei Giornalisti Indipendenti Afghani (AIJU), nel chiedere l’immediato rilascio di tutti gli operatori dei media e la fine della loro detenzione arbitraria.

Gli arresti sono stati registrati durante il monitoraggio dell’IFJ tra il 6 e il 30 luglio. In un caso, tre giornalisti sono stati arrestati il 24 luglio dal Ministero per la Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio. Il caporedattore della Tawana News Agency e direttore dell’Afghanistan Media Institute, Abuzar Sarempuli, è stato arrestato insieme ad altri due giornalisti della Tawana, Basheer Hatef e Shakeeb Ahmad Nazari. Le autorità sostengono che Sarempuli abbia ricevuto fondi dalla Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA), dall’UNESCO e dal governo iraniano per promuovere l’occupazione femminile e pubblicare articoli critici nei confronti dei talebani. Successivamente è stato accusato di corruzione morale e spionaggio, con una “confessione” filmata e diffusa dai talebani. Lo status di tutti e tre i reati rimane sconosciuto.

Il 15 luglio, il direttore e il vicedirettore della Pixel Media Content Company a Kabul, Ahmad Nawid Asghari e Mushtaq Ahmad Halimi, sono stati arrestati dai Talebani con l’accusa di aver diffuso una serie televisiva “non islamica” per testate giornalistiche straniere. Entrambi avrebbero giurato di aderire alle direttive dei Talebani sui media il 28 luglio, prima di essere rilasciati il 30 luglio. Il 21 luglio, un operatore mediatico non identificato è stato arrestato a Kabul, accusato di aver fornito supporto tecnico a testate giornalistiche afghane in esilio. Il 6 luglio, un giornalista provinciale, di cui non è stato reso noto il nome, è stato arrestato per aver pubblicato un articolo ritenuto incoerente con la narrazione approvata dai Talebani e rilasciato dopo due giorni.

Nello stesso periodo, tre giornalisti detenuti in custodia cautelare a lungo termine sono stati rilasciati. Islam Totakhil e Ahmad Zia Amanyar, delle emittenti radiofoniche gestite congiuntamente Radio Jawanan e Radio Begum, sono stati rilasciati il 30 luglio. Erano detenuti dal gennaio 2025, quando i talebani chiusero entrambe le emittenti e furono accusati di aver condiviso sui social media contenuti riguardanti ex giocatrici di cricket afghane ora residenti in Australia. Anche il caporedattore di Radio Khoshhal, Solaiman Rahil, è stato rilasciato il giorno dopo, il 31 luglio, dopo essere stato arrestato il 5 maggio per aver pubblicato su Facebook un video su due donne povere, in cui si presumeva criticassero un alto funzionario dei media talebani.

Il ricorso alla detenzione arbitraria e l’intimidazione dei giornalisti da parte dei Talebani, tramite la minaccia del carcere, sono stati strumenti frequenti dei Talebani: il Rapporto sulla Libertà di Stampa in Asia Meridionale 2024-25 dell’IFJ documenta 28 arresti di operatori dei media tra il 1° maggio 2024 e il 30 aprile 2025. Il World Press Freedom Index 2025 ha classificato l’Afghanistan al 178° posto su 180 paesi, posizionandolo peggio di Corea del Nord e Iran.

L’AIJU ha accolto con favore il rilascio di sei giornalisti come un segnale positivo da parte dei Talebani, ma è rimasta preoccupata per le altre detenzioni in corso nel Paese.

L’AIJU ha dichiarato: “L’AIJU invita rispettosamente le autorità dell’Emirato Islamico a dimostrare buona volontà facilitando il rilascio dei restanti detenuti, molti dei quali sono in custodia da un lungo periodo”.

L’IFJ ha dichiarato: “Le continue incarcerazioni di giornalisti con accuse dubbie, le direttive draconiane sui media e la chiusura di testate indipendenti dimostrano il precario ambiente mediatico in Afghanistan. I talebani dovrebbero rispettare i diritti dei media e porre fine alle incarcerazioni e alle persecuzioni dei media indipendenti e critici”.



L’Afghanistan fuori dal mondo

Enrico Campofreda dal suo Blog 3 agosto 2025

Hibatullah Akhundzada nell’unica, o quasi, immagine che circola sul suo conto con barba d’ordinanza e turbante bianco, a inizio settembre s’appresta a consolidare il quarto anno da guida suprema talebana. Ruolo da scrivere un po’ con la minuscola, niente a che vedere con la gerarchia vantata dagli sciiti iraniani. Eppure lui, sunnita, lo preserva accanto a quello della creazione del Secondo Emirato Afghano risorto il 15 agosto 2021. Quattro anni trascorsi e sembrano molti di più. Perché i media internazionali pronti in quell’infuocata estate a seguire ogni passo della dismissione del potere di Ashraf Ghani, premier inventato da Stati Uniti e Banca Mondiale, nel giro di qualche giorno dimenticarono Kabul e la sua gente, puntando gli obiettivi solo sulle truppe che mollavano la capitale, come aveva già fatto l’Armata Rossa (15 febbraio 1989), e in similitudine con la rotta statunitense da Saigon (30 aprile 1975). Uniche eccezioni gli scoop sui leader taliban che entravano a Palazzo, accomodati su poltrone vellutate e dorate, fra flash e puntuali dichiarazioni d’intenti e di programma rilasciate dall’uomo della comunicazione, da quel momento diventato celebre: Zabihullah Mujahid. Quasi subito partiva la cortina di ferro, informativa innanzitutto, perché dalla Casa Bianca si stabilivano i termini dell’isolamento e della punizione, tramite il blocco dei fondi nazionali, oltre nove miliardi di dollari tuttora fermi in alcune banche americane ed europee; mentre l’Occidente, smarrito sul terreno militare e politico, si prendeva la rivincita sostenendo la bontà delle sanzioni. Giustificate anche dall’ottusa linea di taluni ministeri ripristinati, quello della Promozione della Virtù e della Prevenzione del Vizio che ‘niqabava’ le poche donne mantenute in vista addirittura davanti alle telecamere d’una purgata tivù di Stato. Poi, mese dopo mese, cresceva lo stillicidio dei divieti: nessuna presenza fuori dall’abitazione senza l’accompagnatore (mahram o giù di lì), scuole proibite per le ragazze oltre i dieci anni, fino alla definitiva chiusura in casa senza contatti con l’istruzione e la società. Lo sport, la danza, la musica neanche a parlarne, tornavano tabù e continuano a esserlo…

Eccessi d’un ottuso deobandismo non solo religioso, ma politico e tribale che unisce claniche interpretazioni della Shari’a e del pashtunwali, su cui però, come vedremo, insistono differenze e diversità d’interessi fra boss del nuovo potere. Eppure anno per anno si scopre che i mullah dell’Emirato così isolati non restano. Sia per i fraterni contatti coi gruppi talebani presenti sul e oltre confine pakistano, sia perché il blocco del mondo che non guarda a Occidente per i motivi più vari (affari, geopolitica, fedi, tradizioni e tant’altro) non si fa congelare dalla Diplomazia con la maiuscola. Del resto quest’ultima, di cui appunto europei e statunitensi si fanno vanto, ha in alcune figure e soprattutto strutture (le varie Intelligence) il ‘Cavallo di Troia’ per dialoghi a tutto tondo. Infatti la politica americana, che ha scelto di ritirare gli scarponi dal terreno afghano in virtù di particolari accordi coi vituperati turbanti, non ha del tutto abbandonato le basi aeree create. Presenti sul territorio anche le agenzie delle Nazioni Unite, ormai snobbate e soffocate nel vicino Medio Oriente finito sotto il tacco d’Israele e che altrove risultano vive e attive, seppure con fondi e finanziamenti ridimensionati dalle imposizioni degli uomini soli al comando, come il quarantasettesimo inquilino dello Studio Ovale che dispone e indispone a suo piacimento in faccia al Congresso e pure alla Costituzione americana. Comunque l’Unama – istituita nel marzo 2002 con la risoluzione Onu 1401 – forse a parziale conforto della guerra dichiarata sei mesi prima dal quarantatreesimo presidente Usa, prosegue un’azione d’assistenza a una popolazione rimasta povera e assillata da una difficile sussistenza. Nel 2024 l’agenzia ha calcolato 23,7 milioni di afghani, e 3 milioni di bambini, bisognosi d’aiuto per la nutrizione quotidiana, una falla ingigantita proprio dai tagli economici internazionali e dalle più recenti contrizioni: dei tre miliardi di dollari necessari erano giunti solo 650 milioni. Un castigo per i cittadini, non per gli apparati gestiti da taliban e accoliti.

Per quello che s’è visto da almeno quattro decenni e che si continua a osservare, escludendo le emergenze di guerra, fame e malattie, una delle crisi che coinvolgono le famiglie locali con ricaduta sulla comunità internazionale è la migrazione forzata. Tentativi d’espatrio fra i giovani che cercano una salvezza con la grande fuga verso un loro occidente espanso che va dall’Iran, solitamente visto come primo approdo e terra di passaggio, alla Norvegia. Sebbene la Fortezza Europa abbia innalzato muri visibili e impercettibili fatti di doganieri armati e incanagliti da nuove regole non più accoglienti volute da molti Stati membri e dalla stessa istituzione di Bruxelles. Oppure più semplici rifugi, dopo percorsi relativamente brevi verso Islamabad o Peshawar, già negli anni Ottanta ciclopici campi profughi per milioni di fuggitivi dalle stragi dei Signori della Guerra. Lì generazioni di bambine e bambini afghani arrivavano, crescevano sotto le tende e le stelle, fra stenti e ristrettezze diventavano adulti e a loro volta genitori. Vite sigillate in un tempo sospeso. I pochi viaggi sicuri di profughi e rifugiati, tuttora in atto, ruotano attorno a iniziative di solidarietà, come i ‘corridoi umanitari’ italiani progettati dalla Federazione delle Chiese Evangeliche e dalla Comunità di Sant’Egidio in collaborazione col ministero degli Esteri. A inizio luglio proprio quest’ultima ha condotto nel nostro Paese oltre un centinaio fra componenti familiari e singoli individui, tra loro quaranta minori. Si tratta comunque di profughi che, dalla fuga in Pakistan dopo l’arrivo dei taliban, stazionavano a Islamabad vivacchiando alla meno peggio. Con l’Emirato non esistono protocolli in atto per simili uscite sia per l’assenza di rapporti ufficiali sia perché sicuramente i permessi verrebbero negati, la nazione non si priva dei suoi abitanti. Mentre degli allontanamenti successivi alla presa talebana di Kabul, compiuti anch’essi in aereo da amministratori e collaboratori dei governi Karzai e Ghani, che riparavano all’estero coi familiari, già al momento si sapeva o s’intuiva passassero per il benestare prima che dei turbanti dei ‘signori della guerra Nato’. Salire sui C-17 Globemaster in decollo o provare ad aggrapparsi alle ali precipitando tragicamente nel vuoto, come si vide fare a decine di disperati a ridosso di quel Ferragosto, segnava il confine fra la speranza di chi otteneva il benestare all’espatrio e l’angoscia suicida di chi lo vedeva negato.

Successivamente un errore informatico d’un militare britannico, che inviava una lista teoricamente top secret a un attivista per la ricollocazione di afghani, invischiati con le missioni Nato per appartenenza alle forze di Sicurezza o in qualità di semplici soldati dell’Afghan Defence Army – come rivela in questi giorni il quotidiano britannico The Times – da una parte metteva a repentaglio l’incolumità delle persone elencate, dall’altra confermava che le evacuazioni salvifiche erano programmate per queste categorie di cittadini. Oggi l’Unama gestisce altre precarietà, riguardanti i rimpatri che gli ultimi meno morbidi governi pakistani impongono all’Emirato. Quest’ultimo in parte tratta, poi nicchia oppure accetta e fa orecchie da mercante perché dovrebbe contribuire a sfamare un’infinità di bocche. “Quello che dovrebbe essere un momento positivo di ritorno a casa per le famiglie fuggite dai conflitti decenni addietro è segnato da esaurimento, traumi e profonda incertezza” ha affermato a metà luglio Roza Otunbayeva, portavoce del Segretario generale per l’Afghanistan in visita al valico frontaliero di Islam Qala. Ci sono già state altre grida di dolore, Naseer Ahmad Andisha, rappresentante permanente dell’Afghanistan presso le Nazioni Unite a Ginevra, esplicitamente parla della necessità d’un rinserimento del Paese nell’alveo della Comunità Internazionale. Un bel busillis. Andisha è un uomo d’apparato degli organismi internazionali. Nato nell’area di Kapisa fra le province del Panshir e Laghman, s’è formato fra l’Australia e il Texas, è stato ambasciatore, direttore presso la Divisione di Cooperazione Economica nel lasso temporale delle ‘sperimentazioni di democratizzazione’ del suo Paese, quando i chiacchierati esecutivi Karzai e Ghani hanno inanellato mancanze, ruberie e poi inciuci con fondamentalisti del calibro di Fahim, Khalili, Hekmatyar, Dostum fatti ministri e vicepresidenti. Forse anche per questo mister Andisha sa che in Afghanistan non c’è un prima e un dopo, e che meschinità e soprusi trovavano alloggio nelle stanze d’un potere imposto dalle missioni Nato e dai suoi propagandisti, le stanze ora occupate dai talebani.

I fedeli che continuano a pregare in moschea, chi va al mercato a vendere e comprare povere cose, chi sente scorrere il tempo nelle casupole avvinghiate sulle colline d’una capitale soffocata e assetata (oltre sei milioni gli abitanti e pozzi di pescaggio dell’acqua sempre più invasivi a fronte di scarse precipitazioni), intravvede nel raggiunto biancore della propria chioma un abbandono costante, ultimamente accresciuto dal volere mondiale. Ma la mano tesa è contestata da altre realtà, radicate o effimere. Potenti o rappresentative solo sulla carta. Gli esempi vengono dall’ex mujaheddin a lungo governatore della regione di Balk, Atta Muhammad Noor, già sodale di criminali di guerra come Dostum e Massud e ora all’opposizione col gruppo Jamiat-e Islami, e da un ‘Movimento per la libertà delle donne’ i cui contorni risultano vaghi oltreché soffocati da minacce e repressione. Entrambi hanno espresso contrarietà al piano Unama, denominato ‘Mosaico’, sostenendo che fornirebbe all’Emirato un sollievo e un riconoscimento in linea coi colloqui in corso a Doha fra venticinque nazioni interessate a normalizzare i rapporti coi talebani. Una mossa, affermano i detrattori, che non aiuta la popolazione ma solo chi controlla oggi Kabul e le province. In aggiunta, quella parte di mondo che continua a voltare le spalle all’ipotesi d’apertura ai sodali di Akhundzada ricorda che costoro hanno tradito ogni buona intenzione in fatto di diritti civili e di genere, hanno accresciuto le discriminazioni verso le donne d’ogni età prospettando un oscuro ritorno alle pratiche del mullah Omar. Così alcune storiche attiviste provenienti dall’humus politico del Revolutionary Association Women of Afghanistan, come le ex parlamentari Malalai Joya e Belqis Roshan, per ragioni d’incolumità sono da tempo riparate all’estero. Le loro sorelle di lotta proseguono forme d’aggregazione con scuole e rifugi per donne, tutti clandestini e ad altissimo rischio di repressione. Dal canto suo la settantasettenne Mahmouba Seraj, fondatrice dell’Afghan women’s network e di recente in odore di candidatura al Nobel per la pace, è convinta che coi taliban bisogna parlare. Per non restare in bilico e in sostanza fermi, come nella prima fase del cambio di regime, i partecipanti agli incontri di Doha (fra cui spiccano sauditi, emiratini, i padroni di casa qatarioti, ma anche le potenze regionali turca e pakistana) assieme ai funzionari Onu seguono un percorso a tappe, cadenzato punto su punto attorno a particolari tematiche, ad esempio narcotraffico e terrorismo.Nel 2020 s’era iniziato a discorrere di droghe, rispetto alle punte di produzione afghane d’oppio e metanfetamina in un mercato immenso che proprio in Occidente mostra una richiesta copiosissima. Nel 2022 la produzione risultava crollata del 90% per poi risalire in base agli interessi dei cartelli del narcotraffico che, a detta dell’agenzia Unodoc, mette in relazione territori di produzione come l’Afghanistan e il Myanmar con aree di trasformazione (Messico), peraltro specializzata in ogni genere come accade con la coca e gli oppiacei sintetici, fentanyl e simili. Sarebbe interessante mettere a confronto il purismo moraleggiante dei turbanti, contrari (a parole) a sostenere il lucrosissimo mercato con le posizioni dei giganti del mondo capitalistico, Stati Uniti e la stessa Cina, solo teoricamente impegnati a stroncare tale commercio che invece galoppa nonostante i buoni propositi di tutti. Perciò sul narcotraffico i dialoghi vivono una schizofrenica scissione fra teoria e realtà. Tendenza presente anche attorno alla questione del rifugio territoriale al terrorismo internazionale. Secondo l’ultimo rapporto dell’Ispettorato speciale generale per la ricostruzione dell’Afghanistan (ennesima struttura creata dal 2002 attorno a politiche estere, militari e affaristiche statunitensi) in diverse province afghane covano covi del jihadismo mondiale da Qaeda all’Isis-K. Leggendo il documento datato marzo 2025, indubbiamente dettagliato, viene da sorridere, poiché quando il Pentagono spingeva sulla Casa Bianca per eclissarsi da Kabul, portando a casa il grosso delle truppe lì impegnate e avviando la dismissione con la Resolute Support Mission, iniziava la battaglia interna fra talebani ortodossi e talebani scissionisti che avrebbero dato corpo alle milizie dello Stato Islamico del Khorasan. Che aggregava i primi elementi nella provincia di Nangarhar per poi espandersi a sud e ovest nell’Helmand e Farah. L’Isis-K cresceva in relazione al graduale tramonto del sedicente Daesh, sorto fra Siria e Iraq. E se per la cronaca dell’epoca, il triennio 2016-2019 è risultato il periodo più buio con stragi nelle moschee, nei mercati, fra la comunità hazara e indiscriminatamente per le strade della capitale quando brillavano auto e camion bomba, i due blocchi del jihadismo locale si combattevano a distanza per evidenziare chi controllava cosa da Kabul ai tradizionali territori della patria talebana, compresa Kandahar.

L’hanno spuntata gli ‘ortodossi’. Occupata la città-simbolo e il suo Palazzo la famiglia tradizionale talebana facente capo alla Shura di Quetta, dove sono accasati turbanti duri e puri ma considerati pragmatici, come l’economista Abdul Barader, hanno ratificato il compromesso con la rete Haqqani, figli e parenti del capostipite Jalaluddin, un fondamentalista vicino alla Shura di Peshawar e spesso in dissidio con le direttive centrali, comunque sempre indipendente per affari economici e azioni militari. Nel Secondo Emirato il suo erede Sirajuddin è diventato ministro dell’Interno, il fratello Khalil ministro dei Rifugiati (fino al 2024 quand’è morto in un attentato), il figlio minore e poeta Anas responsabile dell’Ufficio Politico. Appartiene alla famiglia anche il sessantottenne sceicco Hakim, oggi ministro della Giustizia. I rabbiosi Haqqani, dunque, sembrano placati dal dominio, sicuramente istituzionalizzati controllano punti nodali del governo e possono guardare dall’alto anche l’erede del mullah padre-fondatore, il trentacinquenne Mohammad Yaqoob che guida il ministero della Difesa. Ora dibattere a Doha se il clan talebano più organico al deobandismo (la madrasa Darul Uloom Haqqania dove alcuni di loro hanno studiato e si sono formati, sugellando anche la propria denominazione) lasci spazi o addirittura copra il terrorismo jihadista sul territorio afghano, è domanda da trilioni di dollari. Peraltro i membri Haqqani negherebbero ogni evidenza che del resto appare fittizia. Alle trascorse taglie sulla cattura di Sirajuddin (dieci milioni di biglietti verdi) da un anno il ministro oppone, e ostenta, visibilità estera. Se ne va negli Emirati Arabi, vede funzionari Onu e pure quegli statunitensi che gli pongono sulla testa il corposo riscatto senza che nulla accada. Incarna anch’egli quella geopolitica degli interessi che vince su quella dei buoni propositi. Del resto per incontrarsi in Qatar altri esponenti dell’Emirato (mullah Haq Whatiq, Muhammad Saqib) viaggiano, incrociano omologhi e dialogano. Sono il volto d’una normalizzazione strisciante. Mentre sulla vicenda di basi d’addestramento jihadista denunciato dall’Onu nelle province di Gazni, Zabul, oltreché in Nuristan, Kunar, Nangarhar, i corridoi d’infiltrazioni nelle incontrollabili Aree Tribali Federali e nel Waziristan hanno conosciuto per decenni un corposo scambio di visite. Il governo kabuliota vorrà tamponare quegli storici confini porosi? Forse. O invece no. Dipende dalle convenienze, da quel che accade a Islamabad. All’epoca del governo di Imran Khan (autunno 2021) che discorreva col leader pur incarcerato dei Tehreek-i Labbaik, che assieme ai Tehreek-i Taliban e ai Lashkar-i Taiba sono i più sanguinari jihadisti pakistani benvoluti dagli Haqqani, uno scambio di ‘vedute’ e favori con questi fratelli era possibile. Chi provava a squassare il neonato Emirato erano i ribelli del Khorasan, che ancora preoccupano i turbanti di Kabul. Bisognerà vedere chi i registi dell’instabilità occulta vorranno foraggiare e a chi la Comunità Internazionale vorrà tendere la mano.

 

 

I talebani avvertono i negozianti di Kandahar di non vendere alle donne senza velo.

amu.tv Ahmad Azizi 5 agosto 2025

Le autorità talebane di Kandahar hanno avvertito i commercianti che potrebbero essere incarcerati se vendessero prodotti a donne che non indossano l’hijab approvato dai talebani, secondo quanto riferito ad Amu da fonti locali.

L’ordine, pronunciato verbalmente la scorsa settimana da funzionari del Ministero talebano per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, si applica in particolare ai commercianti dei mercati moderni del quartiere di Aino Mina. Ai commercianti è stato ordinato di rifiutare completamente il servizio alle donne o di vendere solo a coloro che indossano ciò che i talebani ritengono un abbigliamento appropriato.

Diversi commercianti hanno affermato che la restrizione ha danneggiato le loro attività, poiché molte clienti ora evitano i mercati per paura di molestie o punizioni. “Le donne non osano più venire a fare shopping”, ha detto un negoziante. “Il mercato ha perso la sua vivacità”.

La direttiva fa parte di una più ampia serie di restrizioni imposte dal Ministero a Kandahar, che includono il divieto di accesso delle donne a ristoranti e luoghi di svago, l’obbligo di un tutore maschile nei luoghi di lavoro, il divieto di lavare i panni nei canali cittadini, l’obbligo di indossare l’hijab in tutti gli ambienti di lavoro, la chiusura di mercati e fabbriche riservati alle donne, il divieto di attivismo civile da parte delle donne e restrizioni per le donne che lavorano nei media locali. L’istruzione femminile rimane sospesa in tutto il Paese.

Le organizzazioni per i diritti umani hanno ripetutamente condannato le crescenti limitazioni imposte dai Talebani ai diritti delle donne, definendole sistematiche e abusive. I Talebani non hanno risposto alle richieste di commento sulle ultime restrizioni.

Afghanistan: rimpatri forzati di rifugiati afghani dal Tagikistan

pressenza.com Redazione Italia 30 luglio 2025

Il governo tagiko ha ufficialmente confermato di aver rimpatriato forzatamente dei rifugiati in Afghanistan, secondo il Times of Central Asia. Questa comunicazione fa seguito alle notizie secondo cui 150 rifugiati afghani, molti dei quali con lo status di rifugiato confermato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), sono stati arrestati e rimpatriati con la forza dalle autorità. All’inizio di questo mese, tutti i rifugiati afghani in Tagikistan avevano ricevuto un ultimatum di 15 giorni che intimava loro di lasciare immediatamente il Paese.

Si teme che molti si trovino ad affrontare situazioni di estremo pericolo al loro ritorno. Si pensa che tra coloro che rischiano il rimpatrio forzato ci siano diversi cristiani, che in Afghanistan andrebbero incontro al carcere o alla pena di morte.

I talebani hanno infatti affermato che uccideranno tutti i cristiani che vivono nel Paese. Nel recente passato hanno organizzato vere e proprie cacce all’uomo, casa per casa, nei confronti di cristiani. In particolare, hanno preso di mira i responsabili di chiesa afghani: molti di loro sono scomparsi, mentre altri sono stati picchiati, torturati e uccisi.

Dopo il ritorno al potere dei talebani nel 2021, l’Afghanistan è arrivato a occupare per un anno il primo posto nella World Watch List di Porte Aperte/Open Doors, che classifica i paesi in cui i cristiani affrontano le persecuzioni e le discriminazioni più estreme.

Secondo una dichiarazione ufficiale del Comitato di Stato per la Sicurezza Nazionale della Repubblica del Tagikistan: “Un certo numero di cittadini stranieri ha violato gravemente i requisiti stabiliti per il loro soggiorno. Inoltre, durante l’ispezione, sono emerse le seguenti prove di violazioni (…) della legislazione della Repubblica del Tagikistan: traffico illegale di droga, incitamento e propaganda di movimenti estremisti, presentazione di informazioni e documenti falsi per ottenere lo status di rifugiato. In particolare, a questo si deve anche l’espulsione di un certo numero di cittadini afghani dal Paese. A questo proposito, sono attualmente in esame delle misure per espellerli dal territorio del Tagikistan, in conformità con la legislazione della Repubblica“.

Secondo l’agenzia di stampa Khamaa Press, questi rimpatri forzati hanno separato le famiglie. Ci sarebbero anche casi di bambini rimpatriati mentre i genitori si trovano ancora in Tagikistan. Alcuni dei rifugiati che si trovavano nel paese avevano domande di asilo attive e alcuni dovevano essere reinsediati in Canada.

Il Tagikistan è solo una delle nazioni che ha rimpatriato i rifugiati afghani. Secondo l’UNHCR, più di un milione di afgani sono stati rimpatriati dal Pakistan a seguito del suo “Piano di rimpatrio degli stranieri illegali”. Allo stesso modo, nel 2024 circa un milione di persone sono state forzatamente rimpatriate dall’Iran.

Jan de Vries, ricercatore di Porte Aperte/Open Doors per l’Asia Centrale, ha commentato: “Sono molto preoccupato per le donne che sono state deportate: che futuro avranno? E penso anche ai cristiani deportati che dovranno nascondersi ancora più di prima. Il rimpatrio potrebbe mettere a serio rischio la vita dei cristiani, poiché i talebani si oppongono violentemente all’esistenza di cristiani in Afghanistan“.

L’Afghanistan si trova alla posizione numero 10 della World Watch List. In questo Paese, abbandonare l’islam è considerato un’onta dalla famiglia e dalla comunità, e la conversione è punibile con la morte secondo la legge islamica, la Sharia, applicata in modo sempre più rigoroso da quando i talebani hanno preso il controllo del paese nel 2021.

Fonte CS di

Fondazione Porte Aperte ETS

 

Afghanistan. Come cambiare la percezione senza cambiare la sostanza

Controinformazione CISDA, 30 LUGLIO 2025

Siamo quasi all’anniversario della presa del potere dei talebani del 15 agosto 2021, che ha portato in Afghanistan a una precipitazione dei diritti delle donne e delle condizioni di democrazia e di vita per tutti per la svolta estremamente fondamentalista che l’interpretazione restrittiva della Sharia dei talebani ha comportato.

In questi giorni il poco interesse che i media esprimono per l’Afghanistan si concretizza in una notizia che rimbalza praticamente uguale in tutti i brevi articoli che la narrano: esiste una nuova possibilità per le donne afghane rappresentata dalla ripresa del turismo, poichè a Kabul si possono fare tour gestiti da donne e rivolti alle donne. 

In realtà si tratta di un’unica esperienza di questo genere  e riguarda la visita al museo di Kabul  guidata da una giovane donna e fruita da un piccolo gruppo di straniere, tutte con il velo in testa ma, sorprendentemente – e la cosa salta agli occhi nel grigio panorama delle strade frequentate prevalentemente da uomini e da poche donne nascoste in lunghi vestiti neri – vestite con abiti colorati, come mostra un servizio di Rai News.it.

Significa che sta cambiando qualcosa nel fondamentalista e repressivo Afghanistan dei talebani? E’ proprio come la racconta il servizio di Rai News, che commenta il suo documentario con un giudizio positivo e quasi entusiasta sulla possibilità di “cambiare, un passo alla volta, la percezione del Paese”?

In realtà, l’ingenuo commento non afferra il vero significato di questi tour, e cioè l’interesse dei talebani di cambiare la percezione negativa che il mondo ha dell’Afghanistan senza cambiare la sostanza delle condizioni di segregazione e privazione dei più elementari diritti delle donne, che continua invece a essere raccontata da innumerevoli testimonianze e dalle più svariate fonti.

Permettere a una manciata di donne di usare un briciolo di libertà serve ai talebani per mostrare il presunto “volto umano” del loro governo, che invogli il resto del mondo al riconoscimento della “normalità” del loro sistema di governo, in realtà fondamentalista, violento, liberticida e di apartheid verso le donne.

Non si tratta, quindi, di avere il coraggio di sfidare i divieti, ma invece di essere strumento, più o meno consapevole, di un’operazione pubblicitaria di camuffamento della realtà.

Mentre si danno notizie di “novità” come questa, bisognerebbe sempre ricordare il contesto in cui avvengono, se si vuole davvero fare informazione.