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Tag: Afghanistan

La carenza di medici donne aggrava la tragedia del terremoto: le politiche dei talebani lasciano le donne senza assistenza

Avizha Khorshid, 8AM Media, 2 settembre 2025

Ieri sera, le province di Kunar e Nangarhar sono state colpite da un terremoto mortale. I talebani hanno dichiarato che 800 persone hanno perso la vita e 2.500 sono rimaste ferite nell’incidente. Tuttavia, fonti locali affermano che la carenza di medico donna nei centri sanitari di queste due province ha impedito alle vittime del terremoto di ricevere cure urgenti e di accedere ai servizi sanitari di emergenza. Le fonti affermano che le donne ferite, a causa della mancanza di personale sanitario donna, sono costrette ad attendere ore o che le loro cure subiscono ritardi. Fonti locali avvertono che se non si interviene con urgenza per aumentare la capacità dei centri sanitari e la presenza di medico donna, la situazione peggiorerà.

Diverse vittime del terremoto e fonti locali, intervistate dall’Hasht-e Subh Daily, affermano che i dati sulle vittime forniti vanno oltre quanto riportato dai media. Secondo loro, donne e ragazze sono in condizioni peggiori e necessitano di assistenza medica urgente.

Zamir Sardarkhel, uno degli abitanti del distretto di Kunar, afferma che le donne e le ragazze ferite dal terremoto versano in condizioni più difficili e che, con l’aumento del numero di feriti, la carenza di personale medico si fa sentire in modo significativo. Ritiene che le statistiche fornite dai media siano errate e sottolinea che, in base alla situazione attuale, il numero di vittime e feriti è superiore a quanto riportato e che queste cifre sono in continuo aumento.

Sardarkhel afferma: “La maggior parte delle vittime e dei feriti sono donne e bambini, e gli ospedali stanno affrontando una grave carenza di personale femminile. Inoltre, il numero attuale non soddisfa i bisogni”. E continua: “Chiediamo alle organizzazioni umanitarie di intervenire il prima possibile, perché le vittime vivono nelle peggiori condizioni e hanno urgente bisogno di cibo, medicine, cure e riparo. Le statistiche di morti e feriti aumentano di momento in momento”.

Inoltre, un’altra fonte che ha chiesto l’anonimato nel rapporto afferma: “Un gran numero di donne e bambini colpiti dal terremoto sono stati trasferiti nei centri sanitari nei distretti di Kunar e Nangarhar; ma sfortunatamente, la carenza di medico donna ha causato seri problemi nell’assistenza a questo gruppo vulnerabile“. Avverte che se non vengono prese misure urgenti per aumentare la capacità dei centri sanitari e la presenza di medico donna, la situazione potrebbe peggiorare.

Questa fonte aggiunge: “Questa è una società afghana in cui un uomo non può toccare o curare una donna. Molte donne sono state costrette ad aspettare ore per ricevere assistenza medica e, in alcuni casi, l’assistenza è stata ritardata a causa dell’assenza di medico donna. Questo problema fa aumentare il numero di vittime e molte donne perdono la vita”.

In precedenza, il Ministero della Salute Pubblica dei Talebani aveva anche confermato che alcune province orientali del Paese stavano affrontando una carenza di medico donna. Le vittime del mortale terremoto di Kunar lamentano la carenza di medico e personale sanitario, mentre i Talebani hanno chiuso le università, in particolare gli istituti di formazione medica, a ragazze e donne in Afghanistan negli ultimi quattro anni, compresi i corsi di ostetricia, infermieristica e tecnologia medica.

Le donne e le ragazze vittime del mortale terremoto di Kunar e Nangarhar soffrono per la carenza di medico e personale sanitario donna e lottano contro la morte, mentre Zabihullah Mujahid, portavoce dei talebani, nelle sue ultime dichiarazioni ha definito la questione dell’istruzione femminile “minore”; questa decisione ha messo a rischio di morte e distruzione la vita di centinaia di donne e ragazze.

In precedenza, il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF) aveva lanciato l’allarme: la carenza di personale sanitario qualificato e la mancanza di strutture sanitarie mettono a serio rischio la vita di un gran numero di cittadine.

Iran, il grande esodo dei rifugiati afghani

L’Iran espelle milioni di rifugiati verso un Paese in ginocchio, senza risorse e aiuti. Intersos: arrivano in un Paese che non conoscono più, un trauma anche culturale

Francesca Mannocchi, La Stampa, 1 settembre 2025

A.R. è il primo a scendere dal camioncino che ha trasportato la sua famiglia da Islam Qala, sul confine tra Afghanistan e Iran, a Herat. È il primo a scendere e il più anziano, viaggia con la moglie, tre dei suoi quattro figli e i nipoti. Uno dei figli è rimasto in un centro medico di confine con la moglie che stava per partorire e non avrebbe potuto affrontare altre ore di viaggio. Si erano tutti trasferiti in Iran quattro anni fa, dopo la caduta di Kabul. Hanno cercato un lavoro, un alloggio, e ricominciato una vita lontani da casa. Una vita da esuli.

Una vita faticosa e piena di restrizioni, ma tollerabile. Almeno fino a giugno, quando è scoppiata la guerra tra Israele e Iran. Da allora, dice A.R., i pericoli e i divieti, la paura e gli abusi, sono diventati intollerabili. Non potevano camminare liberamente, non riuscivano a trovare un pezzo di pane per i bambini. Non riuscivano a trovare un ospedale dove far partorire le donne.

Un giorno degli uomini hanno bussato alla sua porta, lo hanno bendato e portato in una caserma, non saprebbe dire dove né se la base militare fosse ufficiale o meno, quello che sa è che le persone che lo hanno prelevato lo hanno accusato di essere una spia del Mossad, i servizi segreti israeliani, e che gli hanno detto di pagare o andare via, perché per gli afgani nel Paese non c’era più posto. Lui ha negato, dopo tre giorni è riuscito a tornare dalla sua famiglia e ha detto loro che era arrivato il momento di tornare in Afghanistan.

E così hanno lasciato tutto e sono partiti di nuovo, percorrendo la strada in direzione inversa a quattro anni fa. A.R. sa che la sua famiglia in Afghanistan non ha futuro. Se ne avessero avuto uno, dice, quattro anni fa non sarebbero fuggiti.

Oggi hanno un terreno a Laghman ma non hanno una casa, hanno braccia per lavorare ma non hanno lavoro, hanno bocche da sfamare ma non hanno cibo.

Due milioni di ritorno dall’Iran

Al valico di frontiera di Islam Qala oggi arrivano dalle cinque alle seimila persone al giorno, a giugno ne arrivavano anche trentamila. Le organizzazioni umanitarie stimano che con le nuove limitazioni e le nuove scadenze imposte dall’Iran, nei prossimi mesi altre cinquecentomila persone potrebbero riversarsi qui. La sabbia e la polvere coprono tutto, le persone e i carretti che trascinano. Arrivano donne, uomini, bambini, in uno spazio troppo affollato per le esigenze sanitarie a cui deve far fronte. Gli operatori umanitari di Intersos dicono che i sistemi sanitari locali non sono attrezzati per gestire situazione e che è necessario un intervento strutturale per far fronte alla crisi dei fondi per gli aiuti destinati all’Afghanistan.

Il governo talebano de facto, riconosciuto solo dalla Russia come governo legittimo dell’Afghanistan, è alle prese con il collasso economico e una crisi umanitaria aggravata dalle sanzioni occidentali e dai tagli draconiani agli aiuti decisi dall’amministrazione Trump a febbraio di quest’anno.

«Assistiamo a una vera e propria emergenza, con milioni di persone che arrivano bisognose di cure sanitarie, sia fisiche che psicologiche, e di supporto economico per poter accedere a beni essenziali come cibo, acqua e alloggio – dice una operatrice umanitaria di Intersos – Molti di loro tornano in un Paese che non conoscono e oltre all’impatto della fuga e degli sfollamenti devono far fronte a uno choc culturale. È fondamentale intervenire tempestivamente, offrendo anche supporto per il recupero della documentazione e per l’accesso a servizi vitali».

Secondo i dati delle Nazioni Unite, quasi due milioni di afgani sono scappati o sono stati deportati dall’Iran da gennaio, dopo la stretta del governo sui rifugiati ritenuti irregolari. Mezzo milione di persone ha attraversato il confine soltanto a giugno, in concomitanza con la guerra tra Israele e Iran. Numeri giganteschi, che rendono quella in corso al confine di Islam-Qala una delle peggiori crisi di sfollati dell’ultimo decennio.

La presenza di afgani in Iran è antica, per quarant’anni il Paese ha offerto riparo a milioni di persone che scappavano dalle continue guerre e dalla povertà, tanto che la diaspora afgana ha raggiunto numeri impressionanti. Secondo le istituzioni iraniane, il Paese ospita dai 4 ai 6 milioni di persone, la stragrande maggioranza dei quali proviene dall’Afghanistan. Numeri che rendono l’Iran il paese che ospita il maggior numero di rifugiati al mondo.

Dopo l’occupazione sovietica dell’Afghanistan nel 1979, l’Iran aveva accolto milioni di afghani, concedendo loro lo status di rifugiato e dando quindi l’accesso ai servizi.

Ma dagli anni Novanta le politiche sono cambiate e la solidarietà si è trasformata in contenimento. Le frontiere che erano aperte sono state chiuse e i servizi limitati.

Limitati i luoghi in cui potevano vivere (10 province su 31) e anche i lavori che potevano fare, solo quelli pesanti e poco qualificati, gli afgani da decenni hanno difficoltà a acquistare una tessera telefonica o ottenere documenti per regolarizzare la loro posizione nel Paese, il che rende quasi impossibile l’accesso all’istruzione o all’assistenza sanitaria.

Già a marzo il governo di Teheran aveva annunciato una stretta sui rifugiati, fissando per l’estate la scadenza per le “partenze volontarie”, ma dopo la guerra di giugno la repressione si è rafforzata, sono aumentati i posti di blocco, gli arresti, le espulsioni.

L’Iran si giustifica sostenendo che le nuove politiche siano una risposta alla crisi economica, acuita dalla guerra, e siccome nell’effetto domino delle crisi c’è sempre qualcuno a cui va attribuita la colpa, il capro espiatorio in questo caso sono stati i rifugiati afgani, accusati di approfittare degli aiuti, rubare il lavoro e in ogni caso non più benvenuti. Nelle due settimane successive al conflitto con Israele, sono state circa 700 le persone arrestate perché accusate di essere spie e sabotatori al soldo di Tel Aviv, proprio come A.R.

Oggi tornano in un Paese piegato dalla crisi economica, in cui non c’è lavoro, non ci sono case per tutti, non c’è assistenza sanitaria, in cui metà dei quaranta milioni di abitanti ha bisogno di sostegno economico e aiuti umanitari per sopravvivere. Un Paese uscito dai radar dell’attenzione globale e in cui gli appelli delle organizzazioni umanitarie per gli aiuti sono largamente sottofinanziati: quest’anno solo un quinto delle necessità umanitarie è stato finanziato.

Il transito verso un futuro incerto

S.R. ha 27 anni, è appena arrivato al centro di transito di Herat con sua moglie e il loro bambino. Ha 14 giorni. Quando hanno ricevuto il foglio di espulsione S.R. ha chiesto di poter aspettare che sua moglie partorisse, che passasse almeno un po’ di tempo dopo la nascita del bambino. Ma le istituzioni iraniane non ne hanno voluto sapere, così una settimana dopo la nascita di suo figlio i tre si sono messi in viaggio da Teheran, e sono arrivati prima al confine e poi a Herat.

Erano andati via non tanto per il ritorno dei talebani al potere, ma perché non avevano da mangiare, non avevano niente.

S.R. dice che era scappato perché troppe sere andava a dormire senza aver messo in bocca nemmeno un pezzo di pane, e che oggi tornano, non hanno cibo, ma hanno una bocca in più. Dice così «non ci interessano le regole che dovremo seguire, abbiamo tre stomaci vuoti e non abbiamo pane».

Quando arrivano al punto di transito, a Herat, i volti sono diversi, il viaggio dal confine a Herat ha reso tutti più consapevoli, tutti più preoccupati.

Passata la furia dell’attraversamento, le ore sotto i tendoni, le file per i primi documenti, il successivo punto di approdo è un centro di smistamento a Herat. La struttura può ospitare solo 700 persone al giorno, sono divise in tende, spazi per famiglie, o stanze con letti di ferro. Salvo casi eccezionali, gli afgani che arrivano qui possono restare una notte, il tempo di riposare, ricaricare i telefoni, ricevere una piccola somma di denaro che possa garantire loro lo spostamento dal centro e un eventuale ritorno nelle zone d’origine. Il resto è una storia che comincia da zero una volta varcata la soglia del cancello. Una volta tornati, molti si ritrovano in province prive anche dei servizi più basilari, costringendo migliaia di persone a trasferirsi in tendopoli improvvisate o insediamenti informali. Molti arrivano senza più documenti d’identità, rendendo ancora più difficile l’accesso agli aiuti.

È dopo che i rifugiati hanno varcato la soglia del centro di transito che si sente di più la carenza di assistenza, lì che serve più aiuto, è che Intersos, supportata dai finanziamenti dell’Unione Europea, opera con le cliniche mobili fornendo assistenza sanitaria, sia per la malnutrizione che per le donne incinte, sia come supporto per la protezione umanitaria che per quello psicologico.

Molte delle bambine e giovani donne che arrivano al valico di frontiera non hanno mai messo piede in Afghanistan, figlie di rifugiati delle guerre di decenni fa, nate in Iran, oggi tornano in un Paese che non conoscono, e che non hanno mai visto.

Indossano scarpe da ginnastica, i jeans stretti, le camicie alla moda.

Le bambine hanno ciocche di capelli colorate, i brillantini sulle magliette, le madri insegnano loro a indossare l’hijab, le bambine ridono, scherzano, ballano trascinando i veli, ancora inconsapevoli delle regole che dovranno rispettare.

A.R. è originario di Mazar-i-Sharif, ha lasciato l’Afghanistan con i suoi genitori quando era bambino. Prima Mashdad, poi Teheran. Ha iniziato a studiare lì, poi ha lasciato la scuola perché i suoi genitori avevano bisogno che lavorasse e ha cominciato a lavorare come carpentiere.

A Teharan ha conosciuto sua moglie S., anche la sua famiglia è di origine afgana ma lei del Paese non ha praticamente ricordi. S. ha una lunga treccia che le cade sulla spalla, e che il velo copre a malapena, una camicia chiara le copre il ventre e le gambe su cui è seduto il loro bambino di un anno e mezzo. In Iran aveva molta libertà, camminava da sola, lavorava come sarta per aiutare A.R. a pagare l’affitto della stanza in cui vivevano.

Oggi ad attenderla ci sono le regole dell’Emirato Islamico. Non potrà più passeggiare sola, né lavorare. A.R. dice che nessuno dei due aveva scelta, e che questo rientro rappresenta la fine della vita, sia per lui che per sua moglie, che è pronto a rinunciare al suo futuro, perché non aveva alternative, ma che non può rassegnarsi al fatto che i suoi figli non lo abbiano i suoi figli.

Afghanistan, oltre 1.400 le vittime del terremoto: portiamo a valle i corpi a spalla

Questa è una testimonianza di attivisti accorsi nell’area colpita. «I massi caduti bloccano le vie di accesso. È difficilissimo portare aiuto, mancano cibo e tende: aiutateci». Anche le associazioni di donne afghane che il CISDA sostiene si stanno mobilitando per portare aiuto e ci hanno richiesto un sostegno economico, cui abbiamo già cominciato a rispondere

Francesca Ghirardelli, Avvenire, 2 settembre 2025

Uno dei peggiori terremoti che la storia recente dell’Afghanistan ricordi: almeno 1.411 vittime, 8mila feriti. Vastissime aree dell’est del Paese sono isolate e difficilissime da raggiungere a causa del montagne e del tempo inclemente. Il governo dell’Emirato islamico ha fatto appello agli aiuti internazionali.

«Finora abbiamo trasportato una trentina di corpi, diciannove erano di bambini», ha raccontato oggi pomeriggio ad Avvenire Matiullah Shahab, attivista afghano per i diritti umani. Insieme a un gruppo di amici è partito all’alba ed è arrivato attorno alle 7 del mattino nella lunga valle di Devagal, provincia di Kunar, a nord est di Jalalabad. È lì che questo nuovo terremoto ha colpito con maggiore violenza l’Afghanistan. Per tutta la giornata hanno portato a spalla i feriti e i morti, camminando per tre ore lungo quello che resta della strada a picco sulle pendici della valle, tra blocchi di pietra dei costoni franati e distese di sassi impossibili da superare in auto. In un video che mostra online, si vedono gruppi di quattro o cinque soccorritori a sorreggere ciascun khat, le brandine di legno usate di solito per dormire, adesso caricate dei cadaveri coperti da teli e lenzuoli.

Procedono incerte, dondolando sul ciglio della scarpata. «Sentiamo ancora le scosse, le montagne tremano», ha aggiunto l’attivista, fra un messaggio e l’altro via Whatsapp, quando la connessione è buona. Con difficoltà è riuscito a raggiungere il villaggio di Andarlachak Tangi, nel distretto di Sawki. «Almeno duecento persone sono morte qui. Grandi massi sono caduti sulle strade. Le montagne sono venute giù, i detriti sono caduti sulle vie d’accesso. È difficile fare arrivare gli aiuti». Le tre auto del suo gruppo sono bloccate a valle. A piedi portano giù i corpi, li caricano a bordo, poi fanno la spola verso l’ospedale più vicino, quello di Asadabad, capoluogo della provincia di Kunar, ventisei chilometri più in là. «Le squadre di soccorso sono arrivate nella zona. Ci sono i medici della Mezzaluna Rossa afghana (Arcs)», conferma l’attivista. «Poi qui c’è il personale di Ong nazionali come la Afghan Paramount Welfare & Development Organization (Apwdo) e la Afghan Youth Services Organization (Ayso). Sul posto, ho visto anche auto delle Nazioni Unite». Nel corso della giornata diverse organizzazioni e in particolare ospedali privati hanno fornito assistenza medica direttamente sul posto, come HealthNet e il Rokhan Hospital. «Molte abitazioni sono distrutte, ora non possiamo accedervi per cercare superstiti, è troppo pericoloso».

Invia però foto di case sventrate e muri crollati. Oltre al trasferimento dei cadaveri, lui e il suo gruppo di sei amici e volontari hanno cercato di prestare soccorso ai feriti distribuendo acqua e bevande fresche. «La popolazione qui è affamata e in cattive condizioni». Chiediamo se le autorità locali dei taleban si stiano dimostrando in grado di gestire l’emergenza e di coordinare gli aiuti. «No, non sembra affatto, ma ci stanno provando», risponde. L’altra notte, quando il sisma è cominciato, l’attivista si trovava a casa sua.

«Abito qui nella provincia di Kunar. Stavo dormendo. È la prima volta in vita mia che assisto a un terremoto così intenso. Ho due figli, si sono spaventati, sono rimasti scioccati. Malgrado sia stata una scossa molto forte, però, la nostra casa è salva. Anche il nostro quartiere è ancora in piedi». In serata, quando fa buio, Matiullah Shahab torna dalla sua famiglia. Chi resta nelle aree terremotate, passa la notte all’aperto. «Le tende lassù non sono ancora disponibili», conclude.

 

Un forte terremoto ha colpito l’Afghanistan orientale: oltre 800 morti

Il devastante terremoto dell’1 settembre 2025 ha colpito più gravemente nelle province di Kunar e Nangarhar, dove i centri sanitari sono alle prese con una grave carenza di medico donna che mette a rischio la salute di donne e bambini che sono la maggior parte delle vittime, riferisce  8AM Media. I residenti hanno lanciato un appello urgente ai talebani affinché consentano alle dottoresse di recarsi nelle zone colpite per fornire cure salvavita, evidenziando l’urgente necessità di un supporto medico specifico per genere

Haq Nawaz Khan, Rick NoackE Grace Moon, The Washington Post,  1 settembre 2025

Almeno 812 persone sono morte e più di 2.800 sono rimaste ferite dopo che un terremoto di magnitudo 6.0 ha colpito l’Afghanistan orientale, ha dichiarato lunedì il governo guidato dai talebani, citando dati preliminari.

Secondo l’US Geological Survey, il terremoto ha colpito domenica notte a circa 27 chilometri dalla città orientale di Jalalabad. Danni e vittime sono stati segnalati nella provincia di Nangahar, che comprende Jalalabad, così come nelle vicine province di Konar e Laghman; il sisma è stato avvertito in tutta la regione, compresi il vicino Pakistan e Kabul, la capitale afghana.

“Sono in corso le operazioni di soccorso e di salvataggio”, ha affermato Abdul Ghani Musamim, portavoce del governatore della provincia orientale di Konar, dove sembra essersi verificata la maggior parte delle perdite.

Le Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie internazionali non hanno pubblicato immediatamente stime sul numero di vittime e sull’entità dei danni. Durante i passati disastri naturali in Afghanistan, le cifre fornite dal governo talebano erano talvolta significativamente superiori a quelle finali fornite dalle Nazioni Unite.

Lunedì, le autorità afghane hanno trasportato i sopravvissuti feriti all’aeroporto di Jalalabad, dove sono stati trasferiti negli ospedali regionali. Le autorità di Kabul hanno dichiarato che il governo ha dispiegato tutti gli operatori della protezione civile, il personale medico e militare disponibili nella zona colpita dal terremoto.

Interi villaggi distrutti

I testimoni hanno descritto interi villaggi distrutti dal terremoto di domenica.

Sharifullah Sharafat, residente nel distretto di Chawkay, nella provincia di Konar, ha dichiarato di essere sopravvissuto per un pelo al terremoto di domenica. “Molte case del nostro villaggio sono crollate”, ha dichiarato Sharafat in un’intervista telefonica.

“Non ci sono parole per descrivere le urla che abbiamo sentito”, ha detto, aggiungendo che molte vittime nel villaggio non sono ancora state recuperate. La mancanza di elettricità e le frane causate dal terremoto hanno rallentato le operazioni di soccorso, ha aggiunto.

Mawlawi Sanaullah, residente di Konar, ha trovato la sua casa crollata e molti familiari sepolti sotto le macerie. “Mio figlio non c’è più”, ha detto Sanaullah, trattenendo le lacrime, in un’intervista alla televisione statale RTA.

Lunedì mattina le autorità hanno dichiarato che stanno ancora lavorando per stabilire un contatto con alcuni dei villaggi che si teme siano stati colpiti.

L’Afghanistan è stato spesso colpito da terremoti mortali, compresi quelli del 2022 e del 2023. Più di 1.000 persone sono morte in ciascuno di questi disastri. “Quest’ultimo terremoto rischia di eclissare l’entità dei bisogni umanitari causati dai terremoti di Herat del 2023 “, ha dichiarato Sherine Ibrahim, direttrice per l’Afghanistan dell’International Rescue Committee.

Negli ultimi 12 mesi, mentre i donatori internazionali tagliavano i budget per gli aiuti, gli operatori umanitari avevano lanciato l’allarme sul peggioramento della crisi sanitaria in Afghanistan. Il colpo più duro è stato il taglio di quasi tutti i progetti umanitari ed economici finanziati dagli Stati Uniti all’inizio di quest’anno , che rappresentavano oltre il 40% di tutti gli aiuti esteri.

“Questo terremoto colpisce un Paese che sta già affrontando la mancanza di sostegno globale per una grave crisi umanitaria”, ha dichiarato Graham Davison, direttore per l’Afghanistan dell’organizzazione umanitaria CARE, in una nota. “Quasi metà della popolazione afghana – 23 milioni di persone – dipende già dagli aiuti umanitari, eppure il Piano di risposta umanitaria è finanziato solo per il 28%”.

Il governo guidato dai talebani sta lottando per rifornire cliniche e ospedali, e il Programma alimentare mondiale ha dichiarato di poter sostenere solo 1 milione dei 10 milioni di afghani che hanno urgente bisogno di assistenza alimentare.

Cancellazione delle materie universitarie in Afghanistan: continua la repressione ideologica

amu.tv  Mohammad Salim Mateen*  27 agosto 2025

Nel 2023, il leader talebano Hibatullah Akhundzada ordinò la formazione di una commissione per rivedere e aggiornare il curriculum universitario afghano. Questa commissione, composta da oltre 50 membri – principalmente esponenti del clero e individui allineati con l’ideologia talebana – fu incaricata di valutare e riformare le materie accademiche. Il risultato: 18 materie furono completamente eliminate e altre 201 furono etichettate come “problematiche” e ritenute che si potevano insegnare solo dopo revisioni e sostituzione dei materiali didattici. Questa azione riecheggia il primo regime talebano (1996-2001), quando molte discipline di scienze sociali furono cancellate dalle università e iniziò una lunga campagna per “islamizzare” l’istruzione.

Le materie eliminate appartengono principalmente a giurisprudenza, scienze politiche, sociologia, filosofia, pubblica amministrazione e politica e studi di genere. Tra le materie più importanti figurano diritto costituzionale, sociologia delle donne, governance e politiche pubbliche, diritti umani e democrazia, religioni comparate, filosofia morale e argomenti relativi alle molestie sessuali. Secondo i talebani, queste materie sono state eliminate per allinearle alla Sharia e per impedire contenuti che ritengono contrari alle politiche dell’Emirato Islamico. Le altre 201 materie rimangono sotto esame e saranno ammesse solo se riviste per adattarle al quadro ideologico del regime.

Diversi fattori spiegano questa mossa. In primo luogo, eliminando i corsi fondamentali di scienze umane e sociali, i Talebani mirano a modellare il sistema educativo attorno ai loro principi ideologici e a impedire l’insegnamento di concetti o prospettive in conflitto con la loro visione del mondo. In secondo luogo, ciò facilita un maggiore controllo sull’opinione pubblica. Eliminando discipline fondamentali e sostituendole con contenuti ideologicamente orientati, le università diventano centri di riproduzione del pensiero allineato al regime, sopprimendo l’emergere di un pensiero indipendente. In terzo luogo, indebolire la società civile e le istituzioni per i diritti umani sembra essere un obiettivo strategico. Limitando l’istruzione in questi ambiti, i Talebani rafforzano il loro regime autoritario e reprimono il potenziale dissenso.

Le conseguenze sono di vasta portata. L’eliminazione di materie chiave dalle scienze sociali e umanistiche riduce la capacità delle università di formare pensatori indipendenti e critici. Istituzioni che dovrebbero essere spazi di ricerca e libera indagine si trasformano in veicoli di propagazione ideologica. Ciò mina la qualità dell’istruzione e della ricerca, limita l’uguaglianza di genere e ostacola lo sviluppo sociale e culturale. L’eliminazione di corsi come la sociologia femminile e gli studi di genere non solo ignora i diritti delle donne, ma rischia anche di consolidare una disuguaglianza strutturale a lungo termine nella società afghana.

Questa tendenza ricorda l’Iran post-rivoluzionario del 1979, quando le università furono chiuse e i programmi di studio furono reindirizzati verso contenuti islamici. I funzionari iraniani, tra cui l’Ayatollah Khamenei, lanciarono ripetutamente l’allarme contro un'”invasione culturale” da parte dell’Occidente e contro l’influenza dannosa delle discipline umanistiche e sociali. Le preoccupazioni dei Talebani in Afghanistan rispecchiano da vicino quelle della Repubblica Islamica: entrambi i regimi percepiscono queste discipline come un modo per promuovere il pensiero indipendente e critico, che considerano una minaccia al loro controllo ideologico.

La revisione dei programmi di studio e l’eliminazione di materie fondamentali avranno effetti a lungo termine sullo sviluppo sociale e culturale dell’Afghanistan. Da un lato, queste azioni impediscono agli studenti di acquisire competenze di analisi critica, ricerca indipendente e impegno civico. Dall’altro, limitano l’accesso alla conoscenza in settori come i diritti umani, la società civile, la governance e la politica, minando la qualità dell’istruzione e isolando l’Afghanistan dagli scambi accademici e culturali globali. Ciò potrebbe ridurre la competitività dei laureati universitari afghani sia a livello regionale che internazionale.

In definitiva, l’eliminazione di 18 materie e la revisione di altre 201 riflettono la strategia continua dei Talebani di rimodellare le università in linea con i loro obiettivi ideologici. Questi cambiamenti non sono semplici adattamenti curriculari: rappresentano un tentativo di riscrivere l’identità culturale e sociale dell’Afghanistan. La storia dimostra che tali restrizioni hanno ampie implicazioni per la libertà accademica, i diritti umani, lo sviluppo sociale e la capacità di un Paese di interagire con il resto del mondo. Invece di fungere da centri di conoscenza e pensiero critico, le università stanno diventando strumenti di imposizione ideologica e di controllo mentale pubblico. In queste condizioni, il futuro dell’istruzione superiore in Afghanistan si trova ad affrontare profonde sfide sociali, culturali e politiche.

*Mohammad Salim Mateen è un ex docente universitario con una laurea magistrale in sociologia conseguita a Teheran. Ha lasciato il mondo accademico dopo il ritorno al potere dei Talebani e attualmente vive in un Paese europeo.

Le opinioni espresse in questo editoriale sono quelle dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Amu TV

Il piede oltre il chador della madre: la resistenza delle donne afghane

articolo21.org Daniela Meneghini 24 agosto 2025

Sono passati quattro anni dal 15 agosto 2021 quando i Talebani sono ritornati al potere in Afganistan. La loro prima azione è stata la sospensione della Costituzione e la messa in atto di politiche restrittive che hanno provocato la contrazione dei diritti umani. Prime vittime di queste restrizioni sono state le donne e le ragazze, a cui è stato vietato l’accesso all’istruzione, è stata preclusa la partecipazione alla vita pubblica, impedita la possibilità di viaggiare da sole, soppresse le loro libertà fondamentali.
In questi anni l’Afganistan ha dovuto affrontare una crisi umanitaria e socio-economica che ha stremato le fasce più deboli e fragili della popolazione, ridotta ad una povertà estrema. A queste condizioni di estrema vulnerabilità si sono aggiunti gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici con fenomeni estremi provocati da inondazioni, terremoti e altro.
Sul piano politico, con il ritorno dei Talebani al potere, ha acquistato sempre più potere il Ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio, mentre è stato smantellato il Ministero per gli Affari femminili. Il risultato di tutto ciò è un controllo capillare e violento sulla società civile e in particolare sulle donne.
Negli ultimi tempi, i Talebani hanno intensificato il controllo e la repressione sulle donne, con quella che è stata definita «l’apartheid di genere», con decine di donne arrestate per «violazione dell’hijab». Non solo, attraverso le reti clandestine delle donne appartenenti alle associazioni afghane, arrivano racconti e notizie allarmanti di arresti arbitrari di numerose donne da parte della “polizia morale”, donne trattenute senza assistenza legale, senza contatti con i familiari, senza assistenza medica.
Sono azioni vessatorie che nulla hanno a che fare con le scelte religiose, bensì esprimono il predominio patriarcale maschile per mettere a tacere e cancellare le donne dalla società civile. Criminalizzandole per il loro modo di vestire non conforme alla hijab, i Talebani intendono sancire con la forza che le donne non appartengono alla sfera pubblica pertanto devono restare segregate (murate vive) dentro le pareti domestiche. Un sistematico smantellamento dei diritti delle donne che include il divieto di istruzione per le ragazze oltre i nove anni d’età, il divieto per le donne di lavorare con le ONG e le organizzazioni internazionali e dure restrizioni nella possibilità di movimento.
Come già abbiamo avuto modo di scrivere in questa rubrica quattro anni fa (vd. Dalle parte delle donne afgane, agosto 2021), è importante tenere aperti i riflettori e tenere viva l’attenzione sulle condizioni di vita delle donne afgane. Lo facciamo attraverso il contributo di Daniela Meneghini che ha curato un’iniziativa editoriale per dare voce alle donne dell’Afganistan.
Daniela Meneghini è docente di lingua e letteratura persiana all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Dopo gli studi in Italia (Venezia e Napoli) e in Iran (Teheran e Mashhad), ha svolto ricerche sulla lirica persiana classica anche in prospettiva comparativistica. Al contempo si è interessata di letteratura contemporanea dell’Iran e dell’Afghanistan, e ha approfondito questioni di traduzione come fenomeno complesso di recezione. Insegnando da oltre trent’anni nei corsi di lingua persiana, ha collaborato con diversi progetti di glottodidattica e pubblicato con la collega P. Orsatti una nuova grammatica della lingua persiana (Corso di lingua persiana, Hoepli 2012). Ha pubblicato libri e articoli scientifici, curato traduzioni di opere persiane, sia classiche (Khosrow e Shirin di Nezami Ganjavi, XII sec.) che contemporanee (due libri di Hushang Moradi Kermani) e realizzato con A. Martoni il commentario di un manoscritto persiano del XVII secolo conservato alla fondazione Cini di Venezia (Panj ganj. I Cinque Tesori di Neẓāmi Ganjavi della Fondazione Giorgio Cini, Mandragora 2022). Negli ultimi due anni si è dedicata alla cura della traduzione in italiano di trentasei testimonianze di attiviste afghane (Fuorché il silenzio. Trentasei voci di donne afghane, Mimesis-Jouvance 2024), cercando di mantenere viva l’attenzione di lettori e studenti sulla questione dell’«apartheid di genere» in Afghanistan. Attualmente sta lavorando alla traduzione del Makhzan al-asrar (Lo scrigno dei segreti), il poema filosofico del quintetto di Nezami Ganjavi. (A.C.)

 

Il piede oltre il chador della madre: la resistenza delle donne afghane

di Daniela Meneghini

La storia dell’Afghanistan è una storia di enorme complessità in cui la questione femminile emerge in modo drammatico, ignorata o strumentalizzata con le finalità più varie e diversi gradi di opportunismo. Questo numero di agosto – «Dalla parte di lei» – va a coincidere, con soli pochi giorni di ritardo, con il quarto anniversario della presa di Kabul da parte dei talebani; era il 15 agosto 2021 e si apriva un nuovo capitolo nella storia delle donne afghane.
Le immagini della presa di Kabul, del terrore dilagante, non solo nella capitale ma in tutte le città del territorio afghano su cui i talebani riprendono il controllo (solo la regione del Panjshir resisterà ancora per qualche settimana), e della tragica corsa all’aeroporto per coloro che temevano le ritorsioni del nuovo regime, sono ancora vivide nella mente di chi voglia ricordare. A quelle scene di grande effetto mediatico seguì tuttavia uno sfilacciarsi dell’attenzione da parte dei media, contemporaneamente all’affermarsi, laggiù, di norme e di leggi funzionali a una rinnovata apartheid di genere nei confronti delle donne, di tutte le età. I primissimi provvedimenti del nuovo governo, infatti, andarono a colpire i diritti delle donne e delle bambine con una velocità che dice molto sulla visione del mondo e della politica che da quel momento avrebbe caratterizzato il nuovo potere. Il ministero per gli Affari femminili istituito durante il ventennio di occupazione Nato si trasforma nel Ministero per la promozione della Virtù e la prevenzione del Vizio che assume il compito di redimere la società, dopo i vent’anni di occupazione occidentale e dunque di presunta perdita dei valori dell’islam e della cultura tradizionale afghana. Tale ‘purificazione’ passa innanzitutto per la volontà di controllare le donne, i loro diritti, la loro libertà: le bambine non potranno studiare oltre la scuola elementare (9 anni); le donne non potranno più lavorare, né uscire di casa o viaggiare senza essere accompagnate da un mahram (padre, fratello, figlio o marito); non potranno frequentare parchi, palestre, nessuno spazio pubblico; la loro voce non dovrà essere udita al di fuori delle mura domestiche, i loro passi dovranno essere silenziosi (sono interdetti i tacchi) e le loro figure non dovranno essere neppure intraviste dalle finestre di casa che – secondo una norma recente – devono essere murate; verrà nuovamente abbassata l’età del matrimonio per le ragazze e l’accesso alle cure mediche subordinato alla volontà dei familiari maschi. Le conseguenze fisiche, psicologiche e sociali di queste leggi non sono facilmente immaginabili, ma le ripercussioni dell’esclusione di metà della popolazione dalla vita economica e civile del paese non sembra interessare il nuovo governo che persegue la sua strada per sradicare, con ancora maggior acribia rispetto al primo emirato (1996-2001), la presunta corruzione morale portata dall’occupazione occidentale, così come era stato più o meno pretestuosamente quarant’anni prima, dopo l’invasione sovietica del paese (1979-1989), cui aveva fatto seguito una sanguinosa guerra civile tra mujaheddin e talebani.
Ma nei vent’anni (2001-2021) che hanno preceduto l’instaurarsi del secondo emirato dei talebani, benché in modo contraddittorio (spesso con la legge che permette e la famiglia che proibisce) e a costo di enormi sacrifici personali, molte donne afghane – tra insicurezza materiale, attentati continui, guerra di occupazione e guerra civile – avevano avuto la possibilità di studiare, di andare all’università, di trovare un lavoro, di veder riconosciuti, almeno dalla legge, alcuni diritti fondamentali. Molte donne che sono cresciute in quel ventennio, che sono arrivate ‘istruite’ alla ri-presa del potere da parte dei fondamentalisti pashtun, non tacciono, non subiscono in silenzio, non si arrendono alla paura e neppure alla tortura. Abbiamo una straordinaria testimonianza di questa resistenza attiva delle donne afghane in un volume in lingua dari (una delle due lingue ufficiali dell’Afghanistan insieme al pashtu) pubblicato nel giugno del 2023 in Danimarca da Zainab Entezar e Asef Soltanzadeh dal titolo: Azadi seda-ye zanane darad (La libertà ha voce femminile). Zainab Entezar, giovane regista e scrittrice afghana (nata nel 1994), mentre era ricercata dalla polizia e dunque in latitanza a causa dei video che girava durante le proteste, ha raccolto testi autografi e interviste, affidandone poi la redazione e la pubblicazione a uno scrittore e intellettuale afghano esule in Europa, Mohammad Asef Soltanzadeh, per non rischiare che questa pagina di storia andasse perduta. Il loro libro contiene trentasei testimonianze di attiviste afghane, raccolte fra l’agosto del 2021 e la primavera del 2022, momento in cui i talebani riescono a soffocare con la violenza fisica, il carcere, le ritorsioni e le minacce alle famiglie, le proteste pubbliche delle donne, organizzate lungo i viali e sulle piazze delle maggiori città del paese: Kabul, Herat, Mazar-e Sharif, Farah…

Il volume, la cui prima traduzione è in lingua italiana col titolo Fuorché il silenzio: trentasei voci di donne afghane (Milano, Mimesis – Jouvance, 2024), documenta dunque la resistenza delle donne al ri-affermarsi sulle loro vite della politica di segregazione e di persecuzione (apartheid di genere) dei talebani. Dopo l’evacuazione definitiva dell’esercito statunitense e degli alleati, dopo la farsa degli accordi di Doha, in cui la garanzia da parte talebana di non dare spazio sul proprio territorio ad organizzazioni terroristiche fa accettare a un ipocrita occidente l’ennesima cancellazione dei diritti delle donne, le donne afghane si vedono per l’ennesima volta tradite e ridotte in una condizione inaccettabile, vittime della logica puramente mercantile dei rapporti internazionali. Ma allungano il piede fuori dal chador delle loro madri e non accettano di tornare mute.
Le attiviste afghane, quelle che hanno manifestato dentro i confini del loro paese, sono donne il cui nome non dice nulla: non hanno vinto premi e non sono ascese alle cronache internazionali, non sono state deputate o giudici nei precedenti governi, né leader della diaspora afghana buone da intervistare in ogni occasione; ma sono donne che hanno compiuto azioni di enorme coraggio, esponendosi consapevolmente in nome di una vera integrità morale alle violente conseguenze che le loro proteste comportavano. Il carcere, le torture, le confessioni forzate, le intimidazioni: nulla è stato loro risparmiato. Di alcune di loro si sono perse le tracce dopo l’arresto, di altre sappiamo che sono rifugiate in Pakistan, in Iran, o che hanno avuto rifugio politico in Germania, in Francia o in Canada; altre ancora continuano a restare nel loro paese, vivendo nella paura ma senza arrendersi. Tutte cercano di restare in vita – in una condizione che sia degna di questo nome – con margini sempre più esigui di azione e con rischi enormi: facendo scuola in casa, organizzando circoli di lettura e scuole online, scambiandosi libri, cercando spiragli di visibilità per non essere dimenticate, per denunciare la loro condizione, per essere ascoltate. Tutto, fuorché il silenzio.
Le storie delle donne afghane, soprattutto quando si attinge direttamente alla loro voce senza il filtro di interpretazioni stereotipate, non colpiscono solo per l’enorme fatica che raccontano ovvero di essere donne in un contesto patriarcale e violento, ma soprattutto perché esprimono una grandissima forza nel lottare per la propria emancipazione e indipendenza, testimoniano una speranza incrollabile dettata da condizioni disperate, e un senso di responsabilità verso il futuro che vogliono (e che si impegnano perché di fatto sia) diverso dal passato, per le prossime generazioni, per le loro figlie e i loro figli. Incarnano una determinazione che va oltre le loro esistenze.
Le testimonianze che leggiamo di queste giovani attiviste (con età comprese fra i 25 e i 40 anni) riferiscono di estrazioni sociali, di condizioni economiche e di contesti culturali diversi. L’Afghanistan è un paese molto complesso anche dal punto di vista etnico – pashtun, hazara, tajiki, uzbeki, baluchi, ecc – e religioso – sunniti i pashtun, sciiti gli hazara, presenza di minoranze indù e sikh … – e diverse dunque sono anche le storie (emigrazione, compromissione con il regime, resistenza armata, discriminazioni e ingiustizie) e la mentalità delle famiglie che le donne hanno alle spalle: alcune famiglie più aperte sostengono le loro richieste di libertà, altre invece cercano di imporre e mantenere, anche con la violenza, un modello patriarcale di subordinazione. Non c’è un riferimento omologante: quando le ascoltiamo davvero, le loro storie sono sempre diverse e impredicibili. Ciò che le unisce e che al contempo le rende uniche – perché unico è il contesto in cui si muovono – è la condivisa ricerca della libertà e l’impossibilità di sottrarsi alla lotta per ottenerla.
Quando parlano di sé, le donne afghane partono quasi sempre dalla prima infanzia perché già quella è stata per loro una fase difficile in un paese dove per oltre quarant’anni si è cresciuti con la guerra, la violenza e la paura, e dove la nascita di una bambina spesso è vissuta come una disgrazia. Non va dimenticato che dal 1973 l’Afghanistan non conosce una pace duratura, ha vissuto continui conflitti politici, etnici, religiosi e antimperialistici. Su tale sfondo, che le precede nel tempo ma le condiziona pesantemente nel presente, le donne afghane raccontano le loro storie dure, continuamente ostacolate da una mentalità maschilista (familiare e sociale) che nega loro il diritto a una soggettività libera; esse narrano, però, anche la forza di opporsi con ogni mezzo a quegli ostacoli e poi a un arretramento di quanto guadagnato fino al 2021, pur nella lucida consapevolezza della solitudine in cui si muovono.
Oggi, molte donne afghane sentono l’impossibilità di ritornare a vivere in una condizione che le neghi come esseri umani, che le riporti ad essere solamente figlia di, sorella di, madre di, moglie di, perfino nipote di…; sentono la responsabilità verso le proprie famiglie ma soprattutto verso le generazioni a venire. Se si pensa alle continue restrizioni imposte dai talebani, tra cui la inaccettabile impossibilità di essere curate da altre donne visto che è stato negato alle ragazze il diritto di accedere a studi superiori e dunque di diventare dottoresse, infermiere, ostetriche, in un paese che vede il più alto tasso di mortalità per parto; se si pensa alla segregazione sempre più stretta e al conseguente annientamento psicologico (l’Afghanistan è uno dei paesi col tasso più alto di suicidi fra le donne e di depressione fra le ragazze), la forza che le donne devono esercitare per non soccombere è titanica. Non tutte la possiedono, ma chi la possiede prende per mano le altre e cerca di fare la propria parte. Le donne consapevoli si preparano a rispondere alle domande che in un futuro non lontano verranno loro rivolte: “Perché voi donne di quei giorni avete sopportato condizioni simili? Se non l’aveste fatto la nostra condizione attuale non sarebbe tanto drammatica!”. E rispondono: “Non vogliamo che le nostre figlie siano in catene. Noi stesse non vogliamo rimanere in catene. Non accusiamo le generazioni di donne che hanno tollerato le limitazioni imposte […]. Parliamo solo per noi stesse. Ci ribelliamo a queste leggi e non tolleriamo alcuna forma di oppressione. Faremo tutto ciò che riterremo giusto fare contro i talebani” (Marziya Mohammadi p.84).
“Quando pensiamo alla libertà e al benessere delle generazioni future, credetemi, le minacce e le persecuzioni che i talebani mettono in atto quando protestiamo, perdono del tutto il loro potere. La nostra lotta è buona e giusta perché con questa lotta otterremo la libertà, il bene più prezioso” (Nayera Kohestani, p. 142).
“La paura mi era estranea. Solo all’inizio, a Herat, per un momento la paura di lasciare orfane le mie figlie era stata una mia preoccupazione, ma poi mi ero detta che migliaia di bambini vivono senza madre. Ciò che ha importanza è il percorso della nostra vita, ed io avevo scelto il mio” (Shima Sediqi, p.111).
Analogamente a molti altri contesti attuali, sapere della condizione delle donne afghane porta a un senso di impotenza verso un destino su cui chi detiene il potere ha totale arbitrio. Eppure, prendere contatto con le ingiustizie e le discriminazioni quotidiane che costellano la loro vita, ascoltare le loro voci ha un senso. Ha un senso non dimenticare ciò che denunciano, ovvero la radice che si nutre di ignoranza, di tradizione e di una interpretazione distorta della religione a rafforzare un potere patriarcale che vuole tenerle in una condizione di totale subordinazione e inferiorità. Vedere (e ammirare) la loro paziente e incrollabile determinazione a studiare, anche di fronte a veti familiari, a matrimoni precoci, al disprezzo e alla prevaricazione vissute nelle scuole prevalentemente maschili, ha un senso. Queste voci di lotta disperata e di lucida consapevolezza vanno ascoltate e tenute nella mente e nel cuore: sono la parte migliore dell’umanità, sono la dimostrazione che il vero bene, che è bene per tutti, ha la forza di spingerci oltre noi stesse.
Queste donne non sperano in qualcosa dall’esterno perché hanno sperimentato il tradimento del loro stesso governo, che si è arreso senza combattere ai talebani e i cui vertici si sono messi al sicuro; hanno subito il tradimento internazionale che per interesse politico ed economico sta accettando a poco a poco i talebani come interlocutori (la Cina per prima ad accoglierne una rappresentanza diplomatica e la Russia poche settimane fa a riconoscerne il governo); conoscono anche il tradimento di donne all’estero che pretendono di essere le rappresentanti delle proteste e che invece si muovono per dimostrare che il governo talebano non è poi così orribile (Colloqui di Oslo). “Abbiamo la certezza di essere sole in questa lotta: tale comprensione e certezza sono il nostro punto di forza; dunque, non ci preoccupa il silenzio del mondo riguardo ai talebani” (Lina Ahmadi p.37).
La loro speranza sta nella potenza dei loro gesti, quelli grandiosi: “Divenne famosa nell’arco di una notte, per il celebre gesto che compì mentre leggeva la dichiarazione finale dopo una marcia di protesta delle donne: un talebano le aveva puntato la canna del fucile sulla spalla per impedirle di leggere; lei l’aveva spinta indietro con la mano, e aveva continuato la sua lettura” (Rokhshana Rizaei, p.401), e quelli minimi che riescono ad agire ora: “Ora ho cambiato metodo di lotta. Ho creato una specie di scuola domestica dove faccio lezione alle bambine e alle ragazze. Insegno che non è giusto che le scuole chiudano loro la porta in faccia. Imparano che i loro diritti sono pari a quelli degli uomini e che nell’emirato dei talebani non vengono rispettati i diritti della gente e i diritti umani in generale. Ho organizzato anche dei gruppi di lettura. Ci riuniamo fra noi donne, e leggiamo libri, ne discutiamo e li commentiamo. Le strade per raggiungere il nostro obiettivo, la libertà, sono tante” (Shiba Raufi, p.428).
Racconta Sabira Amini: “È questo che hanno fatto le manifestanti: hanno avuto l’intelligenza di capire che restare a casa a piangere per i diritti e le libertà perdute non era una soluzione per questa situazione drammatica. Non era neppure il momento di avere pazienza e sopportare, perché non appartenevano alla generazione delle loro madri e nonne. Pensavamo anche alle donne delle generazioni future: non dovevano trovarsi in un inferno chiamato vita, come la generazione delle loro madri” (p.323).
Dice Rokhshana Rizaei: “… per me era inaccettabile rimanere reclusa e impotente. Ero dalla parte della ragione. Lo sono tutte le persone oppresse da questa società e nel mondo” (p.411).
Con coraggiosa coerenza, le attiviste si espongono col loro nome e molte con la foto dei loro volti, per mostrarci che esistono e chiederci di far sentire la loro voce:
…Ecco, c’è un modo di guardare che è un esercizio della cura, dell’attenzione, e io credo che raccontare la vita di un’altra […] abbia a che fare con questo gesto. È come dire: “Guarda che non si dimentichi”, “Guarda che non passi senza contare nulla”, “Guarda che una vita non finisce con la morte, che non finisce quando finisce” (N. Fusini, Hannah e le altre, Torino 2013, p.143).

In Afghanistan almeno 79 persone sono morte nello scontro tra un camion e un autobus che trasportava afghani espulsi dall’Iran

il Post, 20 agosto 2025

Nella provincia di Herat, nell’ovest dell’Afghanistan, un autobus, che trasportava persone afghane che di recente erano state espulse dall’Iran, si è scontrato con un camion, causando la morte di almeno 79 persone, tra cui 17 bambini. Nell’incidente l’autobus si è incendiato perché il camion trasportava carburante, ed è stato coinvolto anche un terzo veicolo (una moto). Gli incidenti automobilistici in Afghanistan sono frequenti anche per via delle cattive condizioni delle strade dopo i vent’anni di guerra tra il regime talebano e gli Stati Uniti, conclusa nel 2021 col ritiro statunitense e il ritorno al potere dei talebani.

Dall’inizio dell’anno l’Iran ha espulso circa un milione e mezzo di persone afghane che vivevano nel paese. Le espulsioni sono diventate più frequenti, massicce e aggressive dopo la guerra fra Israele e Iran di giugno: il regime iraniano infatti sostiene che fra le persone afghane ci siano spie pagate dai servizi segreti israeliani. L’obiettivo iraniano è raggiungere i due milioni di espulsioni entro la fine dell’anno. Sono numeri enormi, che si aggiungono agli oltre 800mila cittadini afghani spinti o costretti a lasciare il Pakistan dall’ottobre del 2023.

Cosa vuole la Cina dai talebani?

Zan Times, 20 agosto 2025, di Omid Sharafat*

Nel quarto anniversario del ritorno al potere dei talebani, i loro rapporti con i paesi vicini, tra cui la Cina, si sono trasformati in una sorta di alleanza strategica.

Nel dicembre 2023, la Cina è stato il primo Paese ad accettare l’ambasciatore dei Talebani, con il Presidente Xi Jinping che ha ricevuto personalmente le sue credenziali. Dopo la presa di Kabul, i Talebani avevano definito la Cina il loro partner più importante e sottolineato di contare sul suo sostegno per la ricostruzione dell’Afghanistan. Insieme a Russia, Iran e Pakistan, la Cina è stata tra i pochi Paesi a mantenere aperta la propria ambasciata e a proseguire le attività diplomatiche in Afghanistan dopo il ritorno al potere dei Talebani nel 2021.

Negli ultimi quattro anni, le relazioni bilaterali, sia in ambito diplomatico che economico, si sono approfondite. Nonostante fossero presenti nelle liste delle sanzioni internazionali, i funzionari talebani si sono recati frequentemente a Pechino e in altre città cinesi per partecipare a incontri bilaterali e multilaterali. Nel marzo 2022, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha visitato Kabul, dove ha incontrato il mullah Abdul Ghani Baradar, vice capo economico dei talebani, e Amir Khan Muttaqi, ministro degli Esteri del gruppo.

Un’altra pietra miliare nelle relazioni bilaterali è stata la firma, nel gennaio 2023, di un contratto da 540 milioni di dollari tra i Talebani e la Xinjiang Central Asia Petroleum and Gas Company (tutti i dati sono in dollari USA). Nel novembre 2023, un treno merci proveniente dalla Cina è arrivato a Mazar-e-Sharif, il primo trasporto ferroviario di questo tipo tra i due Paesi dopo la pandemia di COVID-19.

Nel 2023, gli scambi economici e commerciali tra i due Paesi hanno raggiunto 1,3 miliardi di dollari, con un notevole aumento del 125% rispetto agli anni precedenti. Lo scorso anno, le esportazioni cinesi in Afghanistan hanno raggiunto quota 1,54 miliardi di dollari. Il Ministero dell’Industria e del Commercio dei Talebani ha inoltre annunciato che il volume degli scambi commerciali tra i due Paesi ha raggiunto i 541 milioni di dollari nei primi sette mesi dell’anno in corso.

Per favorire gli scambi commerciali tra i due Paesi, la Cina ha concesso esenzioni doganali complete per le merci esportate dall’Afghanistan alla Cina a partire dal 1° dicembre 2024. Nel settore minerario, la Cina ha riaperto la miniera di rame di Mes Aynak nel luglio 2024.

Insieme ad altri paesi vicini all’Afghanistan, la Cina ha lavorato per elevare la posizione regionale e internazionale del governo talebano, agendo anche come mediatore per ridurre le tensioni al confine tra talebani e Pakistan. Allo stesso tempo, pur accettando un ambasciatore talebano, la Cina non ha riconosciuto ufficialmente i talebani. Sta legando tale riconoscimento formale al consenso regionale sul regime e agli sforzi dei talebani per sradicare il terrorismo dall’Afghanistan.

Tuttavia, date le differenze ideologiche tra la Cina e i talebani, e in particolare la rigida applicazione della legge della sharia da parte del regime, sorge spontanea una domanda: quale ruolo si propone la Cina in Afghanistan, quattro anni dopo il ritiro degli Stati Uniti e della NATO?

Il ruolo della Cina nel nuovo Afghanistan

Il ritiro degli Stati Uniti e il ritorno al potere dei talebani trasformarono la geopolitica della regione e il ruolo della Cina al suo interno. Durante i 20 anni della repubblica, il futuro geopolitico dell’Afghanistan e della regione era legato agli Stati Uniti e alla NATO. Di conseguenza, il ruolo della Cina fu marginale, limitato principalmente agli investimenti minerari e ad alcuni aiuti per lo sviluppo infrastrutturale dell’Afghanistan.

Con il ritiro delle forze occidentali dall’Afghanistan e la Russia impegnata nella guerra in Ucraina, la Cina sta colmando il vuoto geopolitico nella regione ed è ora vista come il Paese guida che ne plasma il futuro. Ora che è libera di agire senza interferenze da parte delle grandi potenze rivali, la Cina sostiene e guida il governo talebano in modi che promuovono i suoi interessi strategici.

Nell’ambito della crescente tendenza degli scambi commerciali ed economici tra i due Paesi, la Cina sta investendo in progetti di sviluppo come il progetto della cittadina di Nila Bagh a Kabul, la costruzione del parco industriale di Kabul e la ripresa delle esportazioni di pinoli dall’Afghanistan.

Sebbene le esportazioni dell’Afghanistan verso la Cina non abbiano registrato una crescita significativa, secondo i dati dell’Amministrazione Generale delle Dogane cinese, le esportazioni e gli investimenti cinesi in Afghanistan sono aumentati notevolmente. In un caso recente, un’azienda cinese ha proposto un investimento di 10 miliardi di dollari nel settore del litio in Afghanistan nell’aprile 2023.

Un altro sviluppo importante è la volontà della Cina di integrare l’Afghanistan nell’iniziativa Belt and Road, potenzialmente come porta d’accesso al progetto in Asia centrale. Nooruddin Azizi, ministro ad interim dell’Industria e del Commercio dei Talebani, ha partecipato al terzo Belt and Road Forum nell’ottobre 2023, un’iniziativa considerata un primo passo verso l’integrazione dell’Afghanistan nell’iniziativa. Inoltre, si stanno compiendo progressi nel progetto stradale del Corridoio del Wakhan, che fornirà alla Cina un accesso diretto via terra all’Asia centrale attraverso l’Afghanistan. Secondo i funzionari del Ministero dello Sviluppo Rurale dei Talebani, le fasi uno e due di questo progetto di 120 chilometri dovrebbero essere completate entro la fine dell’attuale anno solare afghano.

Anche Cina e Pakistan hanno espresso la loro disponibilità a integrare l’Afghanistan nel Corridoio Economico Cina-Pakistan. Hanno annunciato tale intenzione in una riunione trilaterale dei ministri degli Esteri dei tre Paesi nel maggio 2025 in Cina. L’attuale fase delle relazioni tra Cina e Talebani risale al 2011, quando l’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama annunciò il ritiro delle forze occidentali dall’Afghanistan dopo l’uccisione di Osama bin Laden. Da allora, la Cina ha iniziato a rivalutare il proprio ruolo in Afghanistan e nella regione e ha avviato colloqui riservati con i Talebani. Nel 2015, la Cina ha svolto il ruolo di mediatore tra i Talebani e l’ex governo afghano.

Sebbene la Cina abbia adottato una posizione neutrale sull’Afghanistan durante i negoziati tra Talebani e Stati Uniti, ha mantenuto i suoi legami con i Talebani. Fonti dell’ex governo afghano hanno affermato che la Cina stava fornendo ai Talebani armi e munizioni. Con una storia simile, non sorprende che la Cina si sia astenuta dal chiudere la sua ambasciata quando i Talebani hanno preso il controllo di Kabul nell’agosto 2021. Questa mossa rifletteva sia la fiducia nei Talebani – basata su relazioni dietro le quinte – sia un tacito sostegno al regime talebano.

La guerra ventennale dei talebani con gli Stati Uniti, la presenza della maggior parte dei loro leader più importanti nelle liste delle sanzioni occidentali e la relativa sicurezza sotto il governo talebano sono tra i fattori che incoraggiano la Cina a impegnarsi positivamente con il gruppo e a svolgere un nuovo ruolo in Afghanistan e nella regione.

Terrorismo: una sfida all’espansione delle relazioni tra Cina e Talebani

Le relazioni di lunga data, complesse e basate sull’ideologia jihadista dei talebani con gruppi terroristici quali al-Qaeda, Tehrik-i-Taliban Pakistan (TTP), il Movimento islamico del Turkestan (noto anche come Partito islamico del Turkestan orientale) e persino l’Esercito di liberazione del Belucistan, rappresentano una seria sfida per la Cina nel coinvolgimento con il gruppo.

Allontanando i militanti uiguri dal confine con la Cina, i talebani hanno temporaneamente attenuato alcune delle preoccupazioni di Pechino. Tuttavia, il confine di 90 chilometri tra l’Afghanistan e la provincia cinese a maggioranza musulmana dello Xinjiang – e il fatto che i talebani abbiano permesso ai combattenti uiguri di stanza in Afghanistan di condurre operazioni in Cina negli anni ’90 – non possono che alimentare i timori cinesi sulla diffusione di movimenti jihadisti nella regione.

La partecipazione di militanti uiguri e di altri jihadisti alla presa di Kabul da parte dei talebani indica la prosecuzione dei legami strategici tra i talebani e i movimenti islamisti nella regione. Attualmente, l’influenza dei talebani sul movimento uiguro potrebbe essere una misura tattica o potrebbe essere utilizzata come leva contro la Cina.

Pertanto, sebbene il declino dell’influenza occidentale in Afghanistan offra alla Cina una preziosa opportunità di svolgere un ruolo di primo piano, l’ideologia condivisa dai talebani con i gruppi terroristici, tra cui il Movimento islamico del Turkestan, potrebbe diventare un ostacolo significativo all’approfondimento delle relazioni bilaterali a lungo termine.

La posizione della Cina sui diritti umani e sui diritti delle donne

Come accennato in dettaglio in precedenza, la politica cinese nell’Afghanistan governato dai talebani privilegia gli interessi economici rispetto alle preoccupazioni relative ai diritti umani. La Cina cerca di espandere le proprie attività economiche e di attuare i propri progetti in Afghanistan e nella regione più ampia. Dal punto di vista di Pechino, l’apparato di sicurezza repressivo dei talebani fornisce un ambiente idoneo a salvaguardare gli interessi economici della Cina e quelli dell’intera regione.

Pertanto, a differenza dei paesi occidentali, che subordinano l’impegno con i talebani al rispetto dei diritti umani da parte del gruppo – in particolare dei diritti delle donne – la Cina non ha posto tali condizioni. Ha invece vincolato il suo impegno e il suo sostegno alla repressione o al contenimento dei militanti uiguri da parte dei talebani.

Sebbene le femministe cinesi critichino le politiche dei talebani in questo senso, i media statali cinesi cercano di presentare un’immagine più soft del gruppo, dipingendolo come un sostenitore degli atleti afghani. I media statali e i funzionari cinesi spesso rimangono in silenzio sulla violenza dei talebani contro le donne.

*Omid Sharafat è lo pseudonimo di un ex professore universitario di Kabul e ricercatore di relazioni internazionali.

[Trad. automatica]

L’Afghanistan a 4 anni dal ritorno dei Talebani

Città Nuova, 19 agosto 2025, di Roberto Catalano

Nei mesi scorsi la Russia ha ristabilito rapporti diplomatici con Kabul. Sono 17 gli Stati della regione che riconoscono a tutt’oggi la giunta para-militare dell’emiro Akhundzada. Intanto, l’8 luglio la Corte penale internazionale, a causa della discriminazione contro le donne, ha emesso mandato di arresto per Akhundzada e per il capo della Corte Suprema talebana Haqqani

Difficile dimenticare le scene di disperazione all’aeroporto di Kabul con folle di uomini, donne e bambini alla ricerca di un volo per lasciare l’Afghanistan, bambini lanciati al di là delle barriere a qualche fortunato riuscito a superare gli sbarramenti (o a soldati Usa) che avrebbero potuto portarli lontano dal loro Paese. E, ancora, gente che si attaccava agli aerei in decollo in un folle tentativo di uscire dai confini, e che finivano inesorabilmente per lanciarsi nel vuoto. Vista raccapricciante che per giorni ha tenuto il mondo con gli occhi incollati ai notiziari, pur nell’impotenza di fare qualcosa, una volta che Biden aveva deciso per il ritiro delle forze americane dall’Afghanistan. Sono passati 4 anni – solo 4 anni – da quell’agosto del 2021. E su quell’angolo di mondo è ripiombato il silenzio più assoluto. È progressivamente, ancorchè quasi immediatamente, uscito dalla scena mondiale. Non se ne parla più. Non si sa cosa veramente stia succedendo, ma si è coscienti che il Paese è tornato indietro di decenni, e rispetto al resto del mondo, forse anche di secoli.

In questi giorni, tuttavia, vari organi di stampa e fonti di informazione hanno tentato un bilancio di questo quadriennio all’insegna di un sistema – quello talebano – che, probabilmente, non conosce uguali in quanto a dogmatismo e implementazione della sharia islamica con l’obbligo di osservanza alla lettera. In Italia, l’Ispi (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) ha pubblicato un interessante dossier a più voci che tenta di offrire uno sguardo da diverse prospettive all’Afghanistan del 2025. Quello che appare un fatto indiscutibile è il controllo totale che Hibatullah Akhundzada, il leader supremo dell’emirato islamico afghano, ha sempre più all’interno del Paese. Contemporaneamente, nei mesi scorsi, questo Paese abbandonato da tutti ha incassato il riconoscimento della Russia che ha ristabilito rapporti diplomatici con Kabul. A questo si è aggiunta la normalizzazione dei rapporti diplomatici anche con altri Paesi della regione. Sono 17 gli Stati che riconoscono a tutt’oggi la giunta para-militare dell’autodefinitosi emiro Hibatullah Akhundzada. L’occidente, al contrario, si allontana sempre più da questa parte di mondo e, alla decisione di Biden del 2021 di ritirare le truppe americane, si è aggiunta quest’anno quella della nuova amministrazione Trump di interrompere gli aiuti umanitari.

Intanto, all’interno, Akhundzada è riuscito nell’impresa di eliminare la corrente talebana cosiddetta pragmatica che, sebbene divisa sotto molti punti di vista, era unita dal desiderio di continuare ad avere rapporti aperti con i Paesi occidentali e pareva fra l’altro sincera nel promettere che le politiche di segregazione – soprattutto nel campo dell’educazione femminile e del ruolo della donna in generale – sarebbero rientrate dopo qualche tempo, con la progressiva attenuazione delle misure più severe. Niente di tutto questo si è realizzato. A 4 anni di distanza si può ragionevolmente affermare che non paiono esserci soluzioni di apertura in vista.

Ed è, forse, questa situazione più di altro ad aver spinto i Paesi occidentali a prendere le distanze da Kabul. Il riposizionamento a Doha, capitale del Qatar, delle sedi diplomatiche accreditate per l’Afghanistan è solo apparentemente un segnale di apertura. Di fatto, si tende a ridimensionare la presenza del personale e, al contempo, l’interesse per il Paese si nebulizza sempre più. Di fatto, la comunità euro-atlantica appare sempre più frustrata dagli scarsi risultati ottenuti nel confrontarsi con un regime a più facce, ma apparentemente inamovibile nelle politiche di persecuzione di genere. Proprio la discriminazione contro le donne ha offerto la materia per la recente decisione – è di martedì 8 luglio – dei giudici della Corte penale internazionale, di emettere mandato di arresto internazionale per il leader afghano Akhundzada e per Abdul Hakim Haqqani, che guida la Corte Suprema talebana. I giudici della Corte Penale Internazionale ritengono che ci siano motivi sufficienti per ritenere che i due leader del Paese asiatico «abbiano commesso – ordinando, inducendo o sollecitando – il crimine contro l’umanità di persecuzione». Si tratta di persecuzione, soprattutto e prima di tutto, «per motivi di genere, contro ragazze, donne e altre persone non conformi alla politica dei Talebani in materia di genere e identità». Si tratta di «atti di violenza diretta, ma anche di forme di danno sistemico e istituzionalizzato, compresa l’imposizione di norme sociali discriminatorie».

Intanto, riferisce l’agenzia AsiaNews, continua il deterioramento della situazione umanitaria per gli afghani che si trovano in Pakistan, dove nel corso degli anni hanno sconfinato a centinaia di migliaia. La settimana scorsa il Pakistan ha fissato al primo settembre la scadenza per la partenza di 1,4 milioni di afghani, alcuni dei quali in possesso di regolari permessi di soggiorno. Non si tratta di una novità. Il programma di rimpatri forzati era stato inizialmente approvato a ottobre 2023, ma era poi stato ufficialmente sospeso a metà 2024 a causa delle pressioni internazionali. Di recente però il Pakistan si è unito ai Paesi che hanno riallacciato i rapporti diplomatici con l’Afghanistan, inviando a giugno un proprio ambasciatore a Kabul. Secondo funzionari pakistani, le relazioni con l’Afghanistan rimangono positive e i cittadini afghani sono i benvenuti se fanno richiesta di visti e risiedono nel Paese legalmente, “ma non come rifugiati”. Un funzionario pakistano ha aggiunto, in forma anonima, che il Pakistan ha ospitato rifugiati afghani per oltre 40 anni e che adesso è il momento che se ne vadano.

Kabul si sta prosciugando e le soluzioni potrebbero arrivare troppo tardi

The New York Times, 13 agosto 2025, di Elian Peltier*, Immagini di Jim Huylebroek
Reportage da Kabul, Afghanistan.

I sei milioni di persone che vivono nella capitale afghana potrebbero rimanere senza acqua entro il 2030. Il governo sta cercando soluzioni, ma le riserve finanziarie sono esaurite come i bacini idrici di Kabul.

Mentre il tramonto avvolgeva Kabul in una recente sera d’estate, due vicini si scambiavano insulti per l’accesso a una risorsa in rapida diminuzione: l’acqua.

“Se vieni con quattro taniche, salti la fila”, sibilò Aman Karimi a una donna mentre le strappava un tubo dalle mani e riempiva i propri secchi dal rubinetto di una moschea. “È il mio turno, ed è un mio diritto.”

Kabul è arida, prosciugata dalle scarse precipitazioni e dallo scioglimento delle nevi, e prosciugata da pozzi non regolamentati. La città è diventata così arida che i suoi sei milioni di abitanti potrebbero rimanere senza acqua entro il 2030, e ora stanno lottando per questo.

Le sue riserve idriche si stanno esaurendo quasi due volte più velocemente di quanto si stiano rigenerando. L’amministrazione talebana, a corto di fondi, non è stata finora in grado di portare l’acqua dalle dighe e dai fiumi vicini alla città soffocata.

Ora Kabul rischia di diventare la prima capitale moderna ad esaurire le riserve idriche sotterranee, ha avvertito l’organizzazione no-profit Mercy Corps in un recente rapporto .

“Stiamo lottando sempre di più perché per noi l’acqua è come l’oro”, ha detto il signor Karimi, mentre spingeva una carriola piena di 180 litri d’acqua che la sua famiglia di cinque persone avrebbe usato per cucinare, lavare e bere. Il signor Karimi, un sarto, ha detto che si sono trasferiti di recente in una nuova casa a causa dell’impennata dei prezzi delle case, ma la nuova casa non ha l’acqua corrente.

Kabul, circondata da montagne innevate e attraversata da tre fiumi, non è mai stata considerata una città arida. Ma, nonostante la sua popolazione sia cresciuta di circa sei volte negli ultimi 25 anni, non è stato ancora messo in atto un sistema di gestione idrica adeguato per attingere acqua da altre fonti o per regolamentare l’estrazione sotterranea da serre, fabbriche ed edifici residenziali che stanno proliferando in tutta la città.

L’approvvigionamento idrico è un problema critico in tutto l’Afghanistan. Secondo le Nazioni Unite, almeno 700.000 afghani vengono sfollati ogni anno a causa dei cambiamenti climatici, principalmente a causa della siccità. Un terzo dei 42 milioni di abitanti dell’Afghanistan non ha accesso all’acqua potabile.

I donatori internazionali hanno finanziato numerosi progetti di dighe e iniziative per collegare le case di Kabul a una rete fognaria affidabile, stanziando centinaia di milioni di dollari. La maggior parte di questi progetti non ha mai visto la luce o è stata bruscamente interrotta dopo il 2021, quando i talebani hanno preso il controllo e altre nazioni si sono rifiutate di riconoscere il nuovo governo dopo il ritiro degli Stati Uniti.

“Kabul lotta con problemi idrici da due decenni, ma non è mai stata una priorità”, ha affermato Najibullah Sadid, esperto di risorse idriche. “Ora i pozzi si stanno prosciugando ed è un’emergenza”.

Gli abitanti di Kabul hanno scavato sempre più pozzi nei cortili e negli scantinati, prosciugando una città prosciugata dall’estrazione idrica incontrollata.

Secondo un rapporto del 2021 dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale, solo un quinto degli abitanti di Kabul ha accesso all’acqua corrente. Ma anche le tubature sono sempre più fuori servizio. Persino l’agenzia nazionale per l’ambiente fa affidamento su un’autocisterna che trasporta più di 2.600 galloni d’acqua al giorno, perché il suo pozzo si è prosciugato e le sue tubature sono fuori servizio.

Kabul è come se fosse sotto flebo, con migliaia di litri d’acqua forniti da centinaia di tricicli di fabbricazione cinese e camion dell’era sovietica che attraversano la città.

Centinaia di tricicli di fabbricazione cinese sono disponibili anche con consegna a domicilio.
Chi non può permettersi di acquistare acqua dalle aziende di distribuzione si affida ai pozzi sempre più scarsi delle moschee o alla carità dei residenti benestanti. Al tramonto, le carriole escono e le strade tortuose e le ripide colline brillano di grandi taniche di olio da cucina giallo girasole trasformate in contenitori per l’acqua.

Una mattina di recente, Haji Muhammad Zahir è corso giù per le scale dopo aver sentito un messaggio registrato che pubblicizzava l’acqua che scorreva a cascata lungo la sua strada alberata. Le aziende di distribuzione idrica sono spuntate come funghi in tutta Kabul, anche in quartieri benestanti come il suo, dove residenti di lunga data ora condividono le loro strade con ex combattenti e funzionari talebani.

Ex presidente del Consiglio Comunale e ingegnere meccanico in pensione, il signor Zahir ha affermato che il suo pozzo si era prosciugato anni fa e che la conduttura pubblica della sua casa a due piani perdeva acqua solo ogni tre giorni. Ha esortato i talebani a tenere a galla Kabul, ma ha aggiunto: “Dove sono i soldi per questo?”

Il governo sta cercando disperatamente di reperire fondi. In tutto il Paese, dal 2021 sono state completate quattro dighe, tra cui una a 32 chilometri da Kabul che, se collegata tramite una conduttura, potrebbe portare acqua a migliaia di famiglie. Un altro progetto di oleodotto nella vicina valle del Panjshir deve ancora ricevere l’approvazione definitiva dalla leadership del Paese.

Entrambi mancano di finanziamenti: i donatori stranieri hanno chiuso i rubinetti e gli investimenti privati sono scarsi. “I nostri progetti sono grandi e possiamo fornire solo metà dei fondi”, ha dichiarato in un’intervista Matiullah Abid, portavoce del Ministero dell’acqua e dell’energia afghano.

Nei pressi della moschea dove il signor Karimi aveva rimproverato un vicino, la fila di persone in attesa dell’acqua si era lentamente assottigliata.

Tra gli ultimi c’era Atefeh Kazimi, 26 anni, che ha riempito alcune taniche in cambio di qualche afghano, la moneta nazionale, per la moschea. Poi ha trascinato la sua carriola per 30 minuti fino a casa.

C’era una moschea più vicina a casa sua, ma il pozzo era asciutto.

Safiullah Padshah e Yaqoob Akbary hanno contribuito al reportage.

*Elian Peltier è un corrispondente internazionale del Times e si occupa di Afghanistan e Pakistan.

[Trad. automatica]