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Tag: Diritti delle donne

“Afghanistan. Sharia. Donne”: l’evento di Med-Or con Maria Bashir

med-or.org 27maggio 2025

Nella sede della LUISS Guido Carli di viale Pola si è svolto l’evento promosso da Med-Or Italian Foundation con Maria Bashir

Lunedì 26 maggio, alle ore 15:00, presso la Sala delle Colonne della sede LUISS di Viale Pola si è tenuto l’evento dal titolo “Afghanistan. Sharia. Donne. Una straordinaria testimonianza”, promosso dalla Med-Or Italian Foundation in collaborazione con la LUISS School of Government.

Un incontro per riflettere sulle condizioni delle donne afghane sotto il regime talebano e sulla forza di chi continua a lottare per la giustizia, anche dall’esilio.

L’iniziativa è stata aperta dai saluti del Prof. Gaetano Quagliariello, Dean della Luiss School of Government. Sono seguiti gli interventi del Presidente della Med-Or Italian Foundation, Marco Minniti, dell’avvocato Federica Mondani, consigliere del ministro della Difesa, e di Maria Bashir, prima donna a ricoprire il ruolo di Procuratrice Capo in Afghanistan.

Figura simbolo dell’emancipazione femminile in uno dei contesti più difficili al mondo, Maria Bashir ha dedicato la propria vita alla difesa dei diritti delle donne, sfidando apertamente il regime talebano. Magistrata di fama internazionale, ha proseguito la sua attività educativa anche durante i periodi di repressione, offrendo insegnamento clandestino alle giovani ragazze. Costretta all’esilio dopo il ritorno dei talebani nel 2021, oggi vive tra Italia e Germania e continua a battersi come attivista e punto di riferimento globale per la promozione della dignità e dell’uguaglianza.

L’evento ha rappresentato un’occasione unica per ascoltare la testimonianza diretta di una donna che, con coraggio e determinazione, ha sfidato la paura per dare voce a chi non può parlare.

 

Il leader talebano dichiara che l’obbedienza ai suoi ordini è “obbligatoria” nel messaggio dell’Eid al-Adha

amu.tv Ahmad Azizi 4 giugno 2025

Il leader talebano Hibatullah Akhundzada ha utilizzato il suo messaggio annuale per l’Eid al-Adha*per riaffermare la sua assoluta autorità, dichiarando che l’obbedienza ai suoi ordini è “obbligatoria ed essenziale” per tutti.

Nel messaggio, pubblicato mercoledì dal vice portavoce talebano Hamdullah Fitrat, Akhundzada ha anche invitato i membri talebani a rimanere uniti nel perseguire quella che ha definito l’attuazione della “legge della Sharia” e il consolidamento del “sistema islamico”.

Il messaggio ha esortato religiosi, anziani della comunità e intellettuali a sostenere la visione di governo dei talebani, consigliando loro di contribuire a plasmare l’opinione pubblica e a prevenire quella che ha definito “sedizione e corruzione”. Akhundzada ha definito le loro dichiarazioni pubbliche e i loro scritti come fondamentali per il rafforzamento del potere talebano.

Akhundzada ha inoltre ordinato ai giudici talebani di basare le loro sentenze rigorosamente sulla natura del reato, piuttosto che sulla posizione sociale dell’imputato. Ha affermato che l’applicazione delle decisioni legali basate sulla Sharia è fondamentale per onorare il sacrificio dei combattenti talebani uccisi durante gli anni di insurrezione del gruppo.
Ha inoltre incaricato diversi ministeri talebani, compresi quelli che sovrintendono agli affari religiosi, all’applicazione del vizio e della virtù e all’istruzione superiore, di consultare il clero e di concentrare il proprio lavoro sulla promozione della pietà e sul rafforzamento delle fondamenta ideologiche del regime.

Sul piano economico, Akhundzada ha fatto appello agli imprenditori afghani affinché si adoperino per l’autosufficienza economica, osservando che “la continuazione del nostro governo dipende dall’economia”. Ha inoltre invitato il Ministero per i Rifugiati a fornire aiuti e supporto al reinsediamento degli afghani di ritorno dai paesi vicini, nonostante le persistenti lamentele dei rimpatriati sulla mancanza di servizi di base, opportunità di lavoro e accesso all’istruzione, in particolare per le ragazze.

Ha ammonito il personale civile e militare talebano a non interferire nei rispettivi doveri, suggerendo che tale comportamento genera “sfiducia, disordine e frustrazione”.

Nella parte finale del suo messaggio, Akhundzada ha denunciato la guerra in corso a Gaza come una “grave tragedia umana”, esprimendo la solidarietà dei talebani con la popolazione di Gaza.
Dal ritorno al potere dei Talebani nell’agosto 2021, Akhundzada ha emanato oltre 80 decreti – molti dei quali scritti, ma alcuni solo oralmente – che hanno drasticamente limitato i diritti e le libertà di donne e ragazze. Questi editti hanno imposto ampie restrizioni all’istruzione, al lavoro, alle libertà personali e alla partecipazione pubblica, suscitando la condanna di gruppi per i diritti umani e governi stranieri.

I critici in Afghanistan sostengono che i Talebani stiano usando la retorica religiosa per imporre le proprie interpretazioni dell’Islam a una società eterogenea. Nonostante gli appelli di Akhundzada per giustizia e ordine, gli osservatori dei media e gli esperti legali affermano che i Talebani continuano a detenere critici, inclusi giornalisti e studiosi religiosi, spesso senza accuse formali.

Due organizzazioni per la libertà di stampa hanno confermato ad Amu che almeno 15 giornalisti e operatori dei media sono attualmente detenuti dai Talebani, insieme a tre religiosi noti per aver criticato il gruppo. Secondo quanto riferito, diversi di loro sono stati condannati a due o tre anni di carcere.

Un detenuto rilasciato di recente, che ha parlato a condizione di anonimato per motivi di sicurezza, ha affermato che i talebani “non tollerano il dissenso” e puniscono i critici con “l’arresto e la minaccia di repressione”

*Nell’Islam, la ʿīd al-aḍḥā, nota anche come ʿīd al-naḥr oppure ʿīd al-qurbān, è la festa celebrata ogni anno nel mese lunare di Dhū l Ḥijja, in cui ha luogo il pellegrinaggio canonico, detto ḥajj.

Maria Bashir: “L’Occidente ha tradito l’Afghanistan. Le ragazze avevano i libri sotto al burqa”

lastampa.it Francesca Paci 1 giugno 2025

La procuratrice: «Quando gli Usa hanno lasciato Kabul, Putin ha avuto campo libero»

Maria Bashir: «L’Occidente ha tradito l’Afghanistan. Le ragazze avevano i libri sotto al burqa. Quando gli Usa hanno lasciato Kabul, Putin ha avuto campo libero».
Intervista alla prima donna procuratrice dell’Afghanistan. Da quattro anni in esilio.
«E quando la speranza mi abbandona? Allora penso. Ricordo quei pomeriggi a Herat, quando, interdetta dal lavoro e segregata in casa, aspettavo che arrivassero le mie allieve, intabarrate nel burqa sotto cui nascondevano i libri, per scendere insieme in cantina e fare lezione. C’erano ragazze di ogni età. Studiavamo l’alfabeto, la matematica, la letteratura, volevo che fossero pronte per il giorno in cui avremmo avuto in mano il Paese. Ero sicura che a un certo punto i talebani se ne sarebbero andati».
Maria Bashir, prima e unica donna procuratrice nell’Afghanistan contemporaneo, puntella l’incertezza dell’esilio con le immagini dei suoi 54 anni, un condensato di ambizione, orgoglio, delusione, resilienza. Parla, composta nel morbido velo nero, a margine di un evento della fondazione Med-Or.
Racconta. È stata una bambina determinata a studiare nella Kabul aperta agli hippies di mezzo mondo ma ancora chiusa e patriarcale. È stata magistrata a Herat prima che, nel 1995, gli studenti coranici sigillassero l’orizzonte fino al terremoto delle Torri Gemelle.
È stata l’avanguardia dell’emancipazione femminile nei vent’anni in cui pareva che il Paese potesse ripartire, incorniciata nel 2011 dalla copertina di “Time” come una delle cento persone più influenti del mondo.
È stata tanto e, al netto della cittadinanza italiana riconosciutale dal presidente Sergio Mattarella, si sente nulla Maria Bashir: un’esule partita a rotta di collo quattro anni fa con l’ultimo aereo decollato da una Kabul perduta, lasciata dalla coalizione occidentale a quei mullah che aveva combattuto.
• A che punto è oggi Kabul?
A un punto morto. Il nero è sempre più nero, le donne non possono più studiare, non possono uscire di casa. Nessuno può più nulla in Afghanistan.
• Com’è cambiata la sua vita dall’estate del 2021, quando l’ultimo aereo occidentale decollato da Kabul ha spento la luce su dieci anni di speranze e il suo paese è ripiombato sotto il giogo talebano?
È come se fossi tornata indietro di decenni. La mia vita di donna attiva che faceva tante cose come procuratrice e avvocata è finita. Quando ho lasciato casa mia, nell’estate del 2021, non ho neppure staccato la luce, non ho fatto in tempo a chiudere la porta. C’era un muro in salotto, con i quadri di tutti i miei premi, la mia vita. Non ho potuto portare nulla con me, sono scappata come una ladra, di notte: se fossi rimasta mi avrebbero fatto a pezzi, letteralmente.
• Sente di essere stata tradita dall’occidente?
Devo ammetterlo, sì. Io, come tanti, ci ho creduto. Ho creduto che saremmo diventati un Paese normale. L’occidente ci ha portato tanta speranza, ci ha liberati dai talebani e poi ci ha abbandonati: ci ha riconsegnati ai nostri aguzzini. Tutte le mie studentesse, quelle che istruivo nella cantina di casa, avrebbero dovuto lavorare per il futuro e invece, nella migliore delle ipotesi, sono fuggite all’estero: nella peggiore vivono oggi chiuse in casa, depresse, mi chiamano e mi chiedono quando finirà la notte.
• Crede che nel 2021, oltre a consegnare gli afgani ai talebani, l’occidente abbia dato il via libera a quanti erano pronti a sfidarne la tenuta militare e morale sui diritti umani, da Putin a Netanyahu?
È esattamente così. Quando l’occidente ha lasciato Kabul, la Russia ha capito di avere campo libero in Ucraina. Per noi, Paesi non del primo mondo, l’Onu, i tribunali internazionali e le mille carte dei diritti dell’uomo non valgono. Che peso giuridico e morale hanno i palestinesi ammazzati da Netanyahu? La lezione è chiara, i nostri figli valgono meno dei figli del mondo occidentale.
• Da magistrata che ha dedicato la sua vita professionale alla difesa delle donne, di cosa hanno più bisogno oggi, in assenza della libertà?
L’istruzione: aiutateci a far studiare le donne, borse di studio, corsi, anche online. Spesso quella delle donne è una bandiera buona per le campagne social, un “I like” e via. Faccio appello alle europee, italiane, alla premier Giorgia Meloni: immaginate che vostra figlia non possa più andare a scuola né uscire di casa, mettetevi nei nostri panni.
• Una giudice è quasi apostasia per l’ortodossia islamica, dove una donna vale metà. Come le è venuto in mente?
Sin da quando ero bambina volevo che fosse fatta giustizia. Se assistevo a un torto volevo intervenire, volevo cambiare la storia di quella ingiustizia. Ricordo il giorno in cui mi iscrissi all’università: tutti si mettevano in fila allo sportello del corso in medicina, io scelsi legge, ero l’unica donna.
• E se sua figlia, costretta per anni a studiare in casa per le minacce, seguisse la sua stessa strada di magistrata?
La mia vita, il mio lavoro e la mia lotta sono passi sulla strada tracciata per mia figlia e tutte le altre come lei, che possano studiare, crescere, contribuire, quando sarà possibile, al futuro dell’Afghanistan. Che siano magistrate o altro. Ci sono Paesi in cui essere donna è molto difficile ma lo è anche essere cittadine. Mia figlia oggi è in Canada, ha studiato in Italia, è una persona completa che vive lontano da casa.
• Cita spesso l’“apartheid di genere” per indicare la discriminazione delle donne afgane, un’espressione usata anche dalla premio nobel per la pace iraniana Shirin Ebadi. C’è una strada, comune, che le donne possono percorrere?
L’unità, qui, in Europa, come nel mio Paese. Guardate noi, la nostra storia, la strada, i blocchi stradali, lo stallo. Le donne devono, dovrebbero capire che la battaglia è una, a Roma come a Kabul e a New York.
• Si aspetta qualcosa dall’America di Donald Trump?
Vorrei mettermi le mani nei capelli. Di Trump non sappiamo nulla, né cosa pensa quando si sveglia né cosa dirà nel corso della giornata. Da afgana voglio ricordare che è stato lui a venderci la prima volta, ad avviare i negoziati con i talebani al tempo del suo mandato numero uno. Oggi penso al sistema Maga e penso che gli Stati Uniti volevano una specie di Maga per l’Afghanistan, come se fosse possibile con uno slogan Make Afghanistan Great Again. Ci ha rovinati, l’America ci ha rovinati e dovrebbe rimetterci in piedi.
• Qual è l’episodio più spaventoso che ricorda nella sua vita di momenti di paura?
Ce ne sono stati tanti, ogni giorno della mia vita di giudice ho ricevuto lettere minatorie, dicevano “ti ammazziamo come un cane”. Non avevo paura per me, ne avevo per i miei figli. Il giorno peggiore è stato forse quando hanno messo una bomba sotto casa mia a Herat. All’epoca andavo in giro con 24 guardie corpo e avevo la macchina blindata. Esplose tutto il quartiere, crollò il muro del palazzo davanti alla mia abitazione, avevo paura per gli uomini che mi proteggevano, uno di loro perse le dita dei piedi. I miei figli per fortuna erano lontani, alla partita di calcio, ma non ci sono più partite giocabili a Kabul…».

Le donne afghane senza età: Aziza, Farzana e la scuola negata

Domani, 28 maggio 2025, di Chiara De Stefano Intersos

I diritti e l’autonomia tra fame e freddo

Nei villaggi rurali del sud del paese le persone non conoscono la loro età, le donne contano gli anni dal giorno del loro matrimonio e l’unico obiettivo per il futuro è sopravvivere. A nord e a ovest del paese, nelle grandi città come Kabul e Herat, le donne a 12 anni sono costrette ad abbandonare la scuola e a smettere di sognare. A Roma, in piazza Testaccio, dal 28 maggio al 19 giugno la mostra “Vite senza tempo” della fotografa Cinzia Canneri testimonia la realtà: al seguito dell’organizzazione umanitaria INTERSOS

Aziza ha cinque figli e un volto dall’età indefinibile. Viene da un villaggio della provincia di Zabul, nel sud dell’Afghanistan. Non sa quando è nata, e se le viene chiesto risponde: «Dieci anni dal giorno del mio matrimonio». Sono passati dieci anni dall’evento cruciale della sua vita: il giorno che è stata data in sposa è quello in cui il tempo ha cominciato a scorrere. L’anno zero della sua esistenza.

Vale per lei, vale per la maggior parte delle donne. È la normalità in queste aree dove il ritorno al potere dei Talebani nell’estate del 2021 ha inasprito le condizioni di vita delle donne, ma non le ha cambiate poi tanto rispetto al passato. L’obbligo del burqa, l’accompagnatore necessario per uscire di casa, lo studio consentito solo per pochi anni – ma che di fatto, qui, in moltissime non cominciano nemmeno – sono parte della cultura dell’Afghanistan meridionale da decenni.

I villaggi del sud

Qui al sud, tra i muri giallo ocra dei villaggi rurali, che, quando d’inverno si imbiancano rimangono quasi del tutto isolati, l’unità di misura del tempo che passa, della vita che scorre, non sono le ore, i giorni, gli anni. Ma gli eventi, quando ci sono. Le persone non sanno quando sono nate e non sanno cosa sarà di loro il giorno dopo. Sanno solo quello che gli succede. In quei posti, passato, presente e futuro sono impastati tra di loro in un’unica dimensione: basta non morire di fame, di freddo, di malattia. Ma di fame, di freddo, di parto e di malattie facilmente curabili in altre aree del mondo, si muore troppo spesso.

Ora Aziza è nella sala d’attesa nel centro Barkozai, un presidio sanitario allestito dall’organizzazione umanitaria Intersos, con il sostegno dell’Unione europea, per assistere la popolazione dei villaggi della zona. L’ala femminile del centro è stracolma di donne incinte, mamme con neonati e con bambini malnutriti che hanno bisogno della terapia, o sono in attesa delle vaccinazioni.

Dall’ostetrica

Sta aspettando l’ostetrica con la quale parlerà della decisione, maturata insieme a suo marito, di non avere più figli. Non sanno come sfamarli. Quando entra nella stanza e si stende sul lettino, Aziza mostra il volto che prima era nascosto dal burqa. Nonostante la pelle seccata dal sole, si intuisce che è molto giovane, si vede dagli occhi e anche dal sorriso. Ma lo sguardo è assente, forse impaurito. L’ostetrica di Intersos, una donna giovane e paziente (che, nonostante il divieto per le donne, può lavorare grazie alla deroga sulle attività sanitarie), spiega che Aziza non ha solo enormi problemi economici, come la maggior parte delle famiglie della zona, ma anche grosse difficoltà psicologiche.

Finita la visita, Aziza si riveste frettolosamente. Per arrivare a casa deve percorrere sentieri di terra e rocce, non sa esattamente quanto ci metterà e per questo preme per andar via subito. È impaziente di tornare dai figli più grandi rimasti a casa, tra quelle mura di fango e fieno che sembrano potersi sgretolare da un momento all’altro.

Le case dei villaggi rurali sono tutte simili: all’interno delle mura di cinta c’è un grande spazio con qualche utensile da lavoro, qualche animale, un angolo con una buca per andare in bagno e poco altro. Le stanze coperte da un tetto sono due o tre, hanno qualche telo sul pavimento su cui dormire. Non c’è acqua corrente, non c’è elettricità. L’immagine riporta a migliaia di anni nel passato, passato che qui però è il tempo presente, l’unico tempo a disposizione.

Sogni per il futuro? «Avere da mangiare per tutta la famiglia», risponde con un sorriso sereno un’altra donna, vicina di casa di Aziza. Lei di figli ne ha tredici, una è morta di fame quando era molto piccola e altre tre, ancora bambine, sono già promesse spose.

Sogni per il futuro. Altri, più vasti, sarebbero quelli di tante donne e ragazze – in particolare quelle che vivono in città, soprattutto a nord e ovest del paese – che hanno visto interrompersi il loro percorso di studi e restringersi, fino quasi a scomparire, gli spazi di autonomia e autodeterminazione. I sogni delle giovani operatrici sanitarie di Intersos, che, come tante altre studentesse sono state costrette a lasciare, per volere del governo, gli studi universitari; e i sogni delle bambine che non possono più andare a scuola dopo i dodici anni età. Perché così stabilisce una legge che nel 2021, con poche righe, ha riscritto il senso del tempo per le donne afgane.

Lo studio

Farzana ha quasi dodici anni. Vive a Herat, nell’Afghanistan occidentale, è figlia di un commerciante e di una dottoressa. È stata la prima della classe per tutto il suo corso di studi, ma non ha passato gli esami finali. Bocciata. Quando sua madre, incredula, le ha chiesto spiegazioni, lei ha ammesso di averlo fatto apposta: “Volevo solo continuare ad andare scuola”, ha detto.

Per Farzana sbagliare di proposito tutti i test è stato l’unico modo per rimanere aggrappata alla vita che voleva. E poco le è importato che, per ribellarsi a quella legge, ha dovuto condannare sé stessa al paradosso di continuare a vivere nel passato per poter sognare un futuro.

A che punto è il riconoscimento “strisciante” dei Talebani da parte della comunità internazionale

Altreconomia, 26 maggio 2025

A quasi un anno dalla Conferenza di Doha che avrebbe dovuto normalizzare i rapporti con il governo de facto dell’Afghanistan, si afferma un nuovo format portato avanti dalla Missione Unama e denominato “Piano Mosaico”. Meno “esposto” mediaticamente non è meno deleterio per i diritti umani e per l’opposizione politica, come denunciano 54 organizzazioni sociali, associazioni e gruppi di attiviste

È passato quasi un anno dalla terza Conferenza di Doha organizzata dall’Onu nel giugno 2024 per normalizzare i rapporti della comunità internazionale con il governo de facto dell’Afghanistan e riaprire ufficialmente le relazioni economiche e politiche.

Un evento che aveva registrato un’importante novità nelle relazioni diplomatiche: la partecipazione diretta dei rappresentanti del governo talebano, invitato per la prima volta a partecipare alla pari con i 25 Paesi che ne fanno parte nonostante la mancanza del riconoscimento ufficiale della sua legittimità.

Una novità scandalosa, non solo perché questa “prima volta” aveva segnato un’accettazione di fatto del governo talebano come rappresentante del popolo afghano nonostante la sua presa del potere non sia avvenuta democraticamente, ma soprattutto perché questa presenza era accettata in cambio dell’estromissione delle donne afghane e dei loro diritti dai temi trattati nella Conferenza, per consentire al diktat dei Talebani che l’avevano posta come condizione per la loro partecipazione. Accettazione che era stata molto criticata non solo dalle donne e dai movimenti per i diritti umani di tutto il mondo ma anche da alcuni esponenti delle stesse Nazioni Unite.

La conferenza si era conclusa senza impegni precisi ma aveva sancito la disponibilità dei negoziatori a proseguire con le discussioni sui temi economici in preparazione di altri appuntamenti e incontri.

Che ne è stato di questi impegni, che seguito ha avuto la Conferenza di Doha? In questi mesi quasi nulla è apparso sui media per aggiornarci sulle trattative in corso tra Onu e governo talebano, sullo stato del processo di riconoscimento del loro governo e sull’avanzamento degli impegni presi.

Questa assenza di notizie non è da imputare all’interruzione dei rapporti o alla mancanza di sviluppi nel dialogo, ma alla scelta di cambiare strategia: si è infatti deciso di togliere visibilità al processo di avvicinamento ai Talebani gestito dall’Onu e delegare invece alla Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) la conduzione dei colloqui e delle proposte di mediazione.

Sono state forse le critiche delle associazioni per i diritti umani e delle donne o la refrattarietà dei Talebani ai cambiamenti a far cambiare strada all’Onu, forse per cercare modalità più coerenti di difesa dei diritti del popolo afghano? Purtroppo no, perché il nuovo format proposto e portato avanti dall’Unama, denominato “Piano Mosaico”, o Roadmap globale per l’Afghanistan, ha ancora una volta l’obiettivo dichiarato di normalizzare il più presto possibile le relazioni con l’Afghanistan, per riportarlo nella comunità internazionale sotto il controllo di “questi” Talebani e di “questo” governo.

E per agevolare le trattative, propone un approccio non più finalizzato a condizionare i Talebani con preliminari tematiche di principio e richieste di aperture democratiche, ma invece scorpora i problemi per affrontarli uno alla volta -fin da subito quelli che interessano ai Talebani, in futuro quelli proposti dalla comunità internazionale- così che sia più facile, senza l’appesantimento di questioni scottanti e divisive, arrivare a stabilire degli accordi. Per ridurre il conflitto viene infatti proposto una strategia che separa i problemi “pratici”, come la lotta al narcotraffico, lo sviluppo del settore privato e la cooperazione economica -che piacciono ai Talebani- da quelli “complessi”, come i diritti umani e delle donne e l’antiterrorismo. Cioè si lasciano le questioni che riguardano i diritti e la democrazia in una formulazione generica e ambigua, da affrontare con “gradualità”, nel futuro indefinito “del prima o poi” -tanto le donne afghane sono resilienti-.

Con questa strategia il coinvolgimento dei Talebani nel dialogo non punta più a un evento-manifesto che dia visibilità all’intervento conciliatore dell’Onu, ma preferisce un processo in sordina, strisciante, fatto di incontri bilaterali o poco più, che non dia nell’occhio, nella speranza che sia finalmente possibile accordarsi con i Talebani e fare affari con loro senza fastidiosi interventi critici, quegli affari che per ora sono solo nelle mani delle piccole e grandi potenze regionali che sgomitano per arrivare per prime.

Nelle intenzioni l’obiettivo di questo processo dovrebbe essere “un Afghanistan in pace con sé stesso e con i suoi vicini, pienamente reintegrato nella comunità internazionale e in grado di rispettare gli obblighi internazionali”, si dice nel Piano, basato sulle raccomandazioni della valutazione indipendente di Feridun Sinirlioglu e in applicazione della Risoluzione 2721 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 2023.

Le associazioni di donne e per i diritti umani hanno criticato questo nuovo piano. Sostengono che l’Unama sta di fatto facilitando la legittimazione dei Talebani anziché difendere i diritti del popolo afghano e che in questa roadmap non sarebbe stato previsto alcun ruolo per le donne, la società civile e le reali vittime del governo.

In una dichiarazione congiunta, 54 organizzazioni sociali, associazioni e gruppi di attiviste hanno denunciato l’accettazione dei Talebani come principali interlocutori e avvertito che l’iniziativa garantisce al governo concessioni concrete mentre chiede in cambio poco più che vaghe e inattuabili promesse. Inoltre, dicono che l’Unama, rendendo i diritti umani un oggetto di contrattazione, ne compromette l’universalità e l’inviolabilità, venendo meno alla missione imparziale e umanitaria delle Nazioni Unite che le è propria.

Le Nazioni Unite hanno sottolineato che il loro impegno con i Talebani non deve essere frainteso con un riconoscimento politico. L’Unama ha dichiarato che il piano è ancora in fase di revisione e di voler coinvolgere nella sua gestione tutte le parti interessate, dai Paesi che fanno parte del Processo di Doha alle altre componenti che giocano un ruolo chiave nella regione, come il G7, i governi che detengono risorse afghane, il team delle sanzioni dell’Onu e i cosiddetti gruppi “non talebani” menzionati vagamente alla fine del piano. Ma l’Unama ha rifiutato di specificare esattamente quali, al di fuori dei Talebani, siano state le parti finora coinvolte.

Intanto i Talebani, ben felici di essere al centro dell’attenzione diplomatica, puntano in alto e rispondono alle aspettative del Piano chiedendo la revoca delle sanzioni Onu, attualmente imposte a oltre 130 membri del gruppo ed entità affiliate; il recupero dei beni congelati dagli Usa; l’assunzione della rappresentanza diplomatica all’estero, cioè il seggio all’Onu, attualmente in mano ai rappresentanti del governo della precedente Repubblica. Insomma, un vero e proprio riconoscimento di legittimità.

In cambio il Piano chiede riforme globali, come la formazione di un governo inclusivo, il rispetto dei diritti umani e l’impegno nella lotta al terrorismo, ma, non prevedendo meccanismi di applicazione o inclusione, queste richieste rimangono generiche e vuote. Come osserva l’opposizione politica, “le richieste dei Talebani sono concrete e misurabili: vogliono legittimità diplomatica, accesso alle riserve estere e revoca delle sanzioni. Al contrario, le aspettative della comunità internazionale rimangono indefinite”.

Il “Piano Mosaico” dichiara di puntare, per ottenere cambiamenti nella politica talebana, sulla reciproca fiducia e la dimostrazione dei vantaggi che la cooperazione può portare alla governance e al popolo afghano. Ma come può esserci collaborazione con un governo fondamentalista che ritiene che non sia sua responsabilità provvedere ai bisogni dei cittadini perché crede che il benessere e la sopravvivenza del popolo provengano direttamente da dio? Come si può avere fiducia in un regime che si preoccupa solo di ottenere con la violenza l’obbedienza a quella che pretende sia la vera religione?

Il governo talebano non può essere un interlocutore credibile. Non vi è garanzia che il popolo afghano possa ottenere dai Talebani il rispetto dei suoi diritti umani, economici e sociali. Come hanno giustamente sostenuto le donne e le associazioni democratiche, “questo piano deve essere fermato, le nostre voci devono essere ascoltate”.

Beatrice Biliato fa parte del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda)

Gruppi per i diritti umani chiedono un’inchiesta sulla moglie di Khalilzad per le sue dichiarazioni sui talebani

amu.tv Ahmad Azizi 25 maggio 2025

Sessantaquattro gruppi per i diritti umani e la giustizia di transizione hanno firmato una lettera aperta che sollecita un’azione legale contro Cheryl Benard, moglie dell’ex inviato speciale degli Stati Uniti per la pace in Afghanistan Zalmay Khalilzad, accusandola di complicità in presunti crimini contro le donne afghane.
Nella lettera, indirizzata alla Corte Penale Internazionale (CPI), i firmatari – tra cui il Civil Service Women’s Movement, l’Afghan Republican Women’s Network, Afghan Women for Peace and Freedom e altre organizzazioni della diaspora afghana e femministe – sostengono che la Benard abbia svolto un ruolo di promozione e partecipazione in quella che descrivono come la sistematica cancellazione dei diritti delle donne sotto il regime talebano.
I gruppi sostengono che il loro appello si basi su quadri giuridici internazionali, rapporti delle Nazioni Unite e testimonianze documentate delle vittime. Sostengono che Benard abbia “sbiancato” le politiche dei Talebani, negato la violenza strutturale contro le donne e sostenuto il ritorno dei rifugiati in quello che descrivono come un “regime di apartheid di genere”. Benard, analista politica e scrittrice, si è recata a Kabul all’inizio di quest’anno e ha recentemente fatto notizia per un controverso editoriale pubblicato su The National Interest, in cui ha minimizzato le preoccupazioni sul trattamento riservato alle donne dai Talebani e ha liquidato come esagerate alcune notizie diffuse dai media sulla questione.
Pur riconoscendo che i divieti all’istruzione imposti dai Talebani a ragazze e donne sono “inaccettabili e privi di giustificazione religiosa”, Benard ha messo in dubbio la gravità delle restrizioni. Ha incoraggiato i rifugiati di ritorno a prendere in considerazione l’idea di iscrivere i propri figli a scuole private e ha criticato l’isolamento internazionale del governo talebano definendolo “ingiusto e bizzarro”. Ha inoltre sottolineato che le donne in India affrontano condizioni peggiori rispetto a quelle nell’Afghanistan governato dai Talebani, affermando: “Il trattamento riservato alle donne [dai Talebani] non è minimamente paragonabile a quello in India, un Paese potente e avanzato”.
I suoi commenti hanno scatenato una forte reazione tra i sostenitori dei diritti delle donne afghane, molti dei quali vedono le sue dichiarazioni come parte di un più ampio sforzo per legittimare un regime che ha sistematicamente privato le donne del diritto al lavoro, all’istruzione e alla vita pubblica.
Benard non è un funzionario statunitense e non ricopre una posizione formale in alcun governo. Tuttavia, i critici sostengono che il suo stretto legame con Khalilzad – che ha supervisionato i negoziati che hanno portato all’accordo tra Stati Uniti e Talebani a Doha – le abbia fornito una piattaforma che amplifica le narrazioni pro-talebani nel dibattito occidentale.
Al momento, né Benard né Khalilzad hanno risposto pubblicamente alla lettera. La CPI non ha commentato se accoglierà la richiesta di indagine presentata dai gruppi.

Quando il “femminismo” difende i Talebani

zantimes.com Zahra Nader 22 maggio 2025

Il recente commento di Cheryl Benard sulla fine dello Status di Protezione Temporanea (TPS) per i rifugiati afghani ha indignato molti afghani. Sostiene che l’Afghanistan non è perfetto, non è “la Riviera”, ma “migliorato”, “stabilizzato” e, soprattutto, abbastanza sicuro da costringere 8.000 rifugiati afghani a tornare a causa della nuova politica di deportazioni di massa del governo statunitense.

Esprime una lieve disapprovazione per il divieto di istruzione per le ragazze, eppure sostiene che le scuole private sono “autorizzate a operare a qualsiasi livello”. (Non sono sicura da dove abbia preso queste informazioni, ma nel dicembre 2022 abbiamo riferito che i Talebani hanno vietato i centri educativi privati, comprese le scuole private per ragazze oltre la sesta elementare). Forse intende dire che le madrase sono aperte a “qualsiasi livello” per fare il lavaggio del cervello alla prossima generazione di afghani. Quando Cheryl Benard suggerisce che le ragazze afghane potrebbero frequentare le scuole private se quelle pubbliche fossero chiuse, le sue parole riecheggiano il famigerato “Lasciate che mangino brioche” di Maria Antonietta, ma con una crudeltà ancora più acuta, dato che si tratta di una visitatrice.

Benard paragona il trattamento riservato dai Talebani alle donne alla situazione in India, sostenendo che la violenza di genere in India è più estrema, eppure l’India rimane accettata a livello internazionale. Cita esempi come le morti per dote e gli stupri di gruppo in India per suggerire che la condanna internazionale delle politiche talebane sia applicata in modo selettivo e forse ingiusto. Non menziona le politiche di apartheid di genere dei Talebani, quegli editti e quelle leggi che mirano a cancellare sistematicamente le donne dalla vita pubblica. Se le statistiche sulla violenza contro le donne altrove possono giustificare l’oppressione sistematica delle donne in Afghanistan, può fare l’esempio dell’America, dove ogni giorno almeno tre donne vengono uccise da un partner attuale o ex partner.

Nel suo tentativo di difendere la deportazione dei rifugiati afghani in Afghanistan, Benard offre “rassicurazioni” ai critici dei Talebani. Ma ciò che offre è propaganda. È la razionalizzazione a bassa voce del regime talebano da parte di qualcuno la cui famiglia ha contribuito a plasmare le condizioni politiche che hanno rafforzato questo regime brutale.

Benard si definisce femminista. Ma quale tipo di femminismo liquida come “istrionica” la paura delle donne afghane che vivono sotto il controllo dei talebani? Quale tipo di femminista indica alcune commesse di Kabul come prova del fatto che le cose non vanno poi così male per circa 20 milioni di donne e ragazze a cui i talebani hanno sistematicamente impedito di studiare, lavorare, viaggiare e persino di recarsi in clinica senza un accompagnatore maschile? Quale tipo di femminista si dà l’audacia di parlare a nome delle donne i cui oppressori si sforza di legittimare? Questo non è femminismo. È una manipolazione imperiale da parte di qualcuno che si guadagna da vivere con il complesso militare-industriale.

Sostiene che l’Afghanistan si stia “stabilizzando”. Si, perché coloro che un tempo uccidevano quotidianamente ora sono al comando, e coloro che hanno potuto resistere sono stati imprigionati, torturati o fatti sparire. Quando un gruppo terroristico monopolizza la fonte della violenza, allora, naturalmente, la situazione sembra calma. E si, la calma che Benard e alcuni turisti potrebbero sperimentare a Kabul non è la realtà per il popolo afghano, soprattutto per le donne. Mentre Benard, in quanto donna bianca e moglie di Zalmay Khalilzad, l’uomo che ha negoziato il ritorno al potere dei talebani, è rispettata, protetta e può muoversi liberamente per la città, a milioni di donne afghane viene negato il diritto di esistere in pubblico. Il mese scorso, abbiamo raccontato di come alcune donne siano state arrestate, torturate e frustate in pubblico per essersi recate in una clinica con un cugino maschio o per essersi sedute in un bar. L’anno scorso, abbiamo raccontato di come i talebani abbiano violentato alcune delle donne costrette a mendicare per strada. Queste brutali realtà non sono state incluse nel suo articolo sull’Afghanistan “stabilizzato”.

Capisco che Benard probabilmente non leggerebbe mai i nostri reportage, perché per lei siamo solo un gruppo di donne “istrioniche”, che presumibilmente esagerano la realtà della vita sotto il regime talebano. Che comodità. Ma che dire dei rapporti della Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan? Del Relatore Speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani? Di Human Rights Watch? Di Amnesty International? Documentano tutti che i talebani stanno commettendo crimini contro l’umanità. Ma per Benard, anche queste devono essere drammatizzazioni eccessive. Ignora completamente i crimini dei talebani non perché non li conosca, ma perché interrompono la narrazione che sta cercando con tutte le sue forze di vendere.

Benard non solo fraintende l’Afghanistan, ma cancella anche le voci delle stesse donne che afferma di sostenere. Parliamo di quelle donne che ha visto lavorare per le strade di Kabul. Sì, ci sono donne che cercano di guadagnarsi da vivere. Queste donne non lavorano con il permesso dei talebani, lavorano sfidando le loro regole. Fanno il possibile per sopravvivere, per sfamare i propri figli, per ritagliarsi un barlume di dignità sotto un regime che le vuole cancellare. Quello che non dice è che migliaia di donne sono state licenziate dal pubblico impiego, tra cui, di recente, anche alcune professoresse. Persino a centinaia di migliaia di donne che lavoravano in professioni interamente femminili come panetterie, bagni pubblici femminili e centri estetici è stato vietato di lavorare. Solo per fare un esempio, 60.000 donne in tutto il Paese hanno perso il loro sostentamento a causa della chiusura di 12.000 centri estetici per ordine dei talebani. La maggior parte di queste donne era il capofamiglia e proveniva da comunità emarginate.

E Kabul non è l’Afghanistan. Purtroppo, nella maggior parte dell’Afghanistan, nemmeno queste minime opportunità di resistenza esistono. E dovremmo ricordare che Kabul è il luogo in cui i Talebani sono disposti a tollerare visitatori come la Benard, la cui presenza è loro utile. I Talebani sanno esattamente cosa stanno facendo: permettono a donne come Cheryl Benard di entrare, partecipare ai loro tour curati e tornare a casa per scrivere editoriali entusiasti che contribuiscono a insabbiare i loro crimini e a normalizzare il loro governo.

A giudicare dal suo articolo, Cheryl Benard e suo marito sono apparentemente gli unici a fare la cosa giusta per l’Afghanistan, senza alcun interesse per il denaro o l’influenza! Che ironia, considerando che sta scrivendo un intero articolo per normalizzare un regime brutale e ignorare la sofferenza sistematica di milioni di persone.

Se dipendesse dal popolo afghano, i Talebani non governerebbero. L’ascesa al potere dei Talebani è stata facilitata dal marito della Benard. L’accordo di Khalilzad a Doha ha dato loro tutto: legittimità, una scadenza e nessun impegno per i diritti delle donne. Ancora oggi, si rifiuta di ammettere che sia stato suo marito a negoziare il ritorno al potere dei talebani. Il popolo afghano, soprattutto le donne afghane, non è mai stato consultato. Il nostro futuro è stato deciso da uomini in giacca e cravatta, lontano dalle nostre strade. E ora Cheryl Benard ha l’audacia di spiegarci che in realtà non è poi così male.

L’articolo di Benard non è un’analisi. È un atto di selezione, una distorsione elaborata per confortare i politici occidentali che vogliono sentirsi tranquilli nel confrontarsi con i talebani e legittimare il loro regime. Seleziona aneddoti, travisa i dati e mette a tacere proprio le donne che finge di difendere.

Cheryl Benard, non abbiamo bisogno delle tue rassicurazioni. Non abbiamo bisogno dei tuoi racconti di viaggio. E di certo non abbiamo bisogno di un’altra ondata di femministe imperialiste che ci spiegano che le persone che ci opprimono non sono poi così cattive perché ti hanno sorriso mentre ci hanno privato dei nostri diritti e delle nostre libertà.

Se il governo degli Stati Uniti sceglie di rimandare migliaia di afghani nelle mani di un regime che ci priva dei nostri diritti, delle nostre libertà e della nostra dignità, allora fatelo, ma non fingete che sia per il nostro bene. E per favore, risparmiateci la lezione di donne come Cheryl Benard, che affermano di conoscere il nostro Paese meglio di noi.

Afghanistan: le restrizioni dei Talebani sui diritti delle donne si intensificano

United Nation.org 1 maggio 2025

OM/Léo Torréton An IOM mental health and psychosocial support counsellor leads a session with women in Paktika province, Afghanistan.

I talebani afghani hanno dato seguito a decreti volti a escludere le donne dalla vita pubblica del Paese e a limitarne la libertà di movimento, ha dichiarato la missione ONU nel Paese (UNAMA) nel suo ultimo rapporto sui diritti umani, pubblicato giovedì e relativo al primo trimestre del 2025.

La missione ha continuato a ricevere segnalazioni secondo cui alle donne afghane viene negata l’opportunità di entrare nel mondo del lavoro, non possono accedere ai servizi senza un parente maschio e le ragazze sono ancora private del diritto all’istruzione.

Da quando i talebani hanno preso il potere nel Paese, sottraendolo al governo democraticamente eletto nell’agosto 2021, donne e ragazze sono state sistematicamente escluse dalla pari partecipazione alla società, conferma il rapporto.

UNAMA, il cui mandato include il monitoraggio dei diritti umani, ha anche segnalato fustigazioni pubbliche, riduzione dello spazio civico e brutali attacchi contro ex funzionari governativi.

Saloni di bellezza chiusi

Secondo quanto riferito dalla UNAMA, i funzionari hanno chiuso saloni di bellezza gestiti da donne nelle loro case e stazioni radio femminili in varie province.

Nella provincia di Kandahar, gli ispettori, di fatto, hanno chiesto ai negozianti in un mercato di denunciare le donne non accompagnate da un tutore (mahram) e di negare loro l’ingresso nei loro negozi.

In un ospedale, le autorità hanno ordinato al personale di non fornire cure alle pazienti non accompagnate.

Conversioni forzate

Le autorità talibane hanno anche aumentato l’applicazione delle restrizioni repressive sui media, intensificato le punizioni corporali e la repressione della libertà religiosa e della rieducazione.

Tra il 17 gennaio e il 3 febbraio, nella provincia di Badakhshan nel nord-est dell’Afghanistan, almeno 50 uomini ismaili sono stati portati via dalle loro case di notte e costretti a convertirsi all’islam sunnita sotto la minaccia della violenza, spiega il rapporto.

Più di 180 persone, tra cui donne e ragazze, sono state flagellate per i reati di adulterio e omosessualità praticata durante il periodo di riferimento, in luoghi pubblici frequentati da funzionari talibani.

I talebani sostengono i diritti delle donne

Nonostante le prove documentate dalla relazione che le autorità di fatto continuano a violare le norme internazionali e la tutela dei diritti, i funzionari talibani non sono d’accordo.

“Garantire la dignità, l’onore e i diritti basati sulla Sharia delle donne rimane una priorità assoluta per l’Emirato islamico”, ha detto il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid in un post sui social media l’8 marzo, giornata internazionale della donna.

“Tutti i diritti fondamentali concessi alle donne afghane sono stati salvaguardati in stretta conformità con la legge islamica della Sharia, così come con le strutture culturali e tradizionali della società afgana,” ha aggiunto.

Azione legale internazionale

L’UNAMA ha chiesto azioni per ripristinare i diritti delle donne e delle ragazze a livello internazionale.

In gennaio, la Corte penale internazionale (CPI) ha emesso mandati di arresto per il leader talibano Haibatullah Akhundzada e il giudice capo Abdul Hakim Haqqani per persecuzione basata sul sesso, un crimine contro l’umanità ai sensi dello Statuto di Roma.

La mostra fotografica segreta di Kabul mette in mostra il dolore e la resilienza delle donne afghane

 Haniya Frotan, Rukhshana Media, 3 maggio 2025

La fotografa afghana Homa Mohammadi* affronta continue intimidazioni nel corso del suo lavoro: una volta la sua macchina fotografica è stata distrutta da rappresentanti talebani armati che hanno cancellato tutte le sue immagini. Eppure, nulla l’ha distolta dalla sua missione: raccontare le dolorose storie delle donne afghane.

Le sue fotografie, recentemente esposte in una mostra innovativa a Kabul, ritraggono donne afghane comuni. Insieme, raccontano una storia di privazioni e sofferenza, ma anche di resilienza e speranza di fronte all’oppressione.

Homa, 22 anni, ritrae vividamente le condizioni sociali e culturali delle donne sotto il regime talebano. In una fotografia, due ragazze con i tradizionali burqa dipingono, con i pennelli in mano a simboleggiare una resistenza silenziosa. In un’altra, una ragazza con un burqa blu cammina per le strette vie di Kabul, tenendo in mano un libro, a dimostrazione di come l’amore per la cultura e la conoscenza sopravviva anche nelle condizioni peggiori.

 

Il titolo della mostra, “Borderless Flight”, è ispirato a una bambina di 11 anni che sognava di diventare pilota, finché i talebani non la costrinsero a lasciare la scuola. Homa si imbatté nel quaderno della bambina, pieno di disegni di uccelli e aeroplani, mentre lavorava come insegnante di inglese. Quando le fu chiesto perché avesse disegnato così tanti uccelli, la bambina rispose: “Sognavo di diventare pilota e volare nel cielo, ma non mi hanno lasciato andare a scuola”.

“Ogni storia che ho seguito, ogni foto che ho scattato, che si trattasse di restrizioni, della chiusura delle università, della perdita del diritto al lavoro o delle ragazze che ho incontrato mentre fotografavo, c’era sempre un senso di fuga nei loro occhi e nelle loro parole”, racconta Homa.

Ho scelto il nome ‘Borderless Flight’ per questa collezione perché queste ragazze, anche in gabbia, sognano ancora di volare.

Homa è nata in una zona remota e selvaggia dell’Afghanistan centrale e ha visto il suo accesso all’istruzione interrompersi bruscamente quando aveva solo 14 anni. Così, ha preso una macchina fotografica e si è avventurata per le strade di Kabul per documentare le storie delle donne della sua terra natale.

Le sue immagini sono state esposte per due giorni ad aprile, in un’aula di una scuola privata, discretamente nascosta in un vicolo.

“Quando ho visto le foto, sono rimasta sbalordita. In una situazione in cui persino un uomo non osa parlare della sua barba di fronte ai talebani, organizzare una mostra del genere richiede grande coraggio”, ha detto Isra, una visitatrice di 21 anni.

Homa non solo ha documentato la verità, ma ci ha anche dato la forza, il potere e la motivazione per combattere l’oscurità. Voglio essere come lei e lottare per i miei diritti.

Organizzare la mostra non è stato un compito facile. Homa ha impiegato più di un anno per raccogliere le fotografie e preparare l’evento. Ha finanziato l’intero progetto da sola, risparmiando i soldi guadagnati insegnando inglese. “Ho salvato ogni singolo afghano. Ho persino saltato il pranzo solo per realizzare questa mostra”, ride.

Le sfide sono andate oltre i costi. Homa racconta di come i rappresentanti talebani abbiano ripetutamente messo in discussione il suo diritto a portare con sé una macchina fotografica, in un’occasione accusandola di spionaggio. In un’altra occasione, uomini armati le hanno rotto la macchina fotografica mentre cercava di filmare in una strada di Kabul.

 

“Hanno cancellato tutte le foto e i video che avevo, poi hanno buttato a terra la mia macchina fotografica e l’hanno fracassata con il calcio del fucile. Lui ha riso e ha detto: ‘Ora, vieni a fare foto!'”, ricorda.

Niente di tutto ciò bastò a scoraggiare Homa. Risparmò per comprare un’altra macchina fotografica e continuò il suo lavoro. Ogni fotografia in questa mostra rappresenta una vittoria sulla paura e sull’oppressione.

Una delle fotografie più potenti mostra una donna in burqa, con il volto completamente nascosto, con solo la mano visibile, rivolta in avanti. Lo sfondo vago e silenzioso dell’immagine trasmette un senso di dolore e desiderio di libertà. “Questa foto parla di oppressione e della lotta per l’autoespressione. È come se questa donna volesse dire: ‘Sono ancora qui, anche se il mio volto non si vede’”, dice Homa.

La mostra è stata la prima del suo genere da quando i talebani sono tornati al potere in Afghanistan nell’agosto 2021, imponendo severe restrizioni alle donne, vietando loro l’istruzione e il lavoro e obbligandole a essere accompagnate da un uomo in pubblico. Molti visitatori l’hanno vista come un grido di resistenza tanto quanto un evento artistico.

“Non volevo solo scattare foto. Volevo dire al mondo che siamo ancora vivi. Abbiamo ancora dei sogni. Stiamo ancora lottando. Queste fotografie non sono solo immagini; sono le nostre voci”, dice Homa.

“Forse oggi non potrò andare a scuola, forse mi hanno rotto la macchina fotografica, ma non potranno spezzare i miei sogni.”

Nota*: Nome cambiato per motivi di sicurezza

I talebani licenziano centinaia di professoresse dalle università pubbliche

Khadija Haidary, Zan Times,14 maggio 2025
I talebani hanno licenziato centinaia di professoresse dalle università pubbliche in tutto l’Afghanistan, in un’azione che ha colpito anche una parte del personale maschile ma che ha preso di mira principalmente le donne.

La decisione ha sconvolto la comunità accademica e spento le residue speranze di ripristino del ruolo delle donne nel sistema di istruzione superiore afghano.

I licenziamenti sono stati comunicati in modo non ufficiale e senza preavviso scritto, secondo diversi accademici che hanno parlato con Zan Times sotto pseudonimo per timore di ritorsioni. Najia, professoressa con vent’anni di esperienza presso la Balkh University, nel nord dell’Afghanistan, ha dichiarato di aver appreso del suo licenziamento lunedì 12 maggio, dopo aver inviato una richiesta di informazioni di routine al capo del suo dipartimento in merito a un articolo accademico.

“Non ho ricevuto risposta, così ho chiamato”, ha detto. “Mi ha detto: ‘Ho brutte notizie. Sei tra quelli licenziati’. Non sono riuscita a trattenere le lacrime. Insegno da 23 anni, non ho mai preso maternità, non ho mai perso un trimestre”.

Il caso di Najia è uno delle centinaia che si verificano in tutto il paese. La maggior parte dei professori non è stata formalmente informata; al contrario, hanno visto il loro posto revocato tramite passaparola o dopo essere stati esclusi dall’accesso all’università.

Nella sola Università di Kabul, oltre 60 posizioni ricoperte da donne sono state eliminate, secondo ex docenti. Dipartimenti come letteratura, psicologia, veterinaria e lingue straniere hanno visto la maggior parte del personale femminile licenziato. “In molte facoltà, rimangono solo due o tre donne, e anche a loro è stato detto che i loro posti saranno riaperti per i candidati maschi”, ha affermato Shahnaz, professoressa all’Università di Kabul.

L’ondata di licenziamenti è l’ultimo colpo inferto alle donne accademiche, che hanno dovuto affrontare crescenti restrizioni da quando i talebani hanno vietato loro l’accesso ai campus universitari nel dicembre 2022. Nei mesi successivi, molte professoresse sono state costrette a rimanere a casa e a ricevere solo una frazione del loro precedente stipendio. Dal giugno 2024, i talebani hanno ridotto drasticamente gli stipendi delle dipendenti pubbliche che sono state rimosse dal servizio attivo, comprese le accademiche. Un tempo guadagnavano oltre 40.000 afghani al mese, ma ora molte professoresse ricevevano una cifra fissa di 5.000 afghani, indipendentemente dal grado o dall’esperienza.

Le proteste

Per protestare contro questa politica, nel settembre 2024 è stata presentata alla leadership talebana una petizione firmata da oltre 100 professoresse provenienti da 34 province. La lettera sottolineava i danni a lungo termine derivanti dallo smantellamento di decenni di investimenti nelle donne accademiche, avvertendo che “formare un docente universitario richiede 30 anni” e che i licenziamenti forzati e la riduzione degli stipendi stavano causando disagio sia finanziario che psicologico. Il Ministero dell’Istruzione Superiore non ha risposto e, secondo alcune fonti, il ministro si è rifiutato di firmare o di prendere atto della lettera.

Mentre inizialmente i talebani avevano affermato che l’istruzione femminile era stata sospesa solo temporaneamente in attesa della creazione di un “ambiente sicuro e islamico”, nei due anni successivi si è assistito all’erosione della quasi totalità della partecipazione femminile nell’istruzione superiore e nella pubblica amministrazione.

Zarghona, una docente trentaduenne della provincia di Kandahar, nel sud del paese, ha dichiarato di essere stata costretta a svolgere lavori poco qualificati dopo essere stata esclusa dal suo incarico universitario. “Ora registro i pazienti in un ospedale”, ha detto. “Non è quello per cui ho studiato, ma non ho scelta”.

Altri, come Fatima, 46 anni, studiosa con un master e numerose pubblicazioni accademiche, ora lavorano come sarte per sostenere le loro famiglie. “Ho passato dieci anni a insegnare scienze sociali e a seguire le tesi degli studenti”, ha detto. “Ora sto seduta dietro una macchina da cucire dalla mattina alla sera, giusto per dimenticare i giorni che passano.”

Secondo la BBC , il settore accademico afghano è stato gravemente minato dalle politiche dei talebani: circa un professore su quattro delle tre più grandi università del paese (Kabul, Herat e Balkh) ha lasciato il paese dopo il ritorno al potere del gruppo.

Chi rimane afferma di affrontare non solo la rovina professionale, ma anche una crescente ostilità da parte della società. “Persino gli ex colleghi maschi non ci salutano più allo stesso modo”, ha detto Soheila, ex docente del nord. “Alcuni distolgono lo sguardo. Altri dicono: ‘Questi giorni passeranno’, ma è difficile crederci ancora.”

I nomi sono stati cambiati per motivi di sicurezza. Khadija Haidary è una giornalista di Zan Times