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Tag: Diritti delle donne

La Corte penale internazionale apre uno spiraglio di giustizia per le donne afghane

altraeconomia.it 17 febbraio 2025

Il procuratore capo della Cpi Karim Khan ha richiesto a fine gennaio un mandato di arresto per i leader dei Talebani, accusati di aver commesso il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere. Un atto importante per le donne perseguitate e per certi versi inedito ma che per essere efficace richiede che i Paesi occidentali e i firmatari dello Statuto di Roma rinnovino il sostegno alla Corte. Il commento del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane

Il 23 gennaio 2025 il procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi) Karim Khan ha lanciato un forte atto d’accusa nei confronti dei Talebani: ha richiesto l’arresto del leader supremo, Mullah Hibatullah Akhundzada, e per il suo giudice capo, Abdul Hakim Haqqani, perché ritenuti responsabili del crimine contro l’umanità di persecuzione di genere.

La documentata accusa sta in due lunghi e dettagliati documenti che danno il quadro dei crimini commessi dai Talebani in questi ultimi tre anni e mezzo e del ruolo diretto dei due accusati nell’architettare e sostenere la sistematica violazione dei diritti delle donne e delle persone Lgbtqi+, persecuzione commessa almeno dal 15 agosto 2021 e fino a oggi in tutto il territorio dell’Afghanistan.

È una decisione storica: per la prima volta una richiesta di indagine della Cpi è incentrata sul crimine di persecuzione di genere come reato principale, e non solo per le azioni persecutorie contro le donne e le ragazze ma anche per quelle messe in atto nei confronti delle persone Lgbtqi+

Un atto coraggioso, che supera i tentennamenti e le politiche contraddittorie dell’Onu e degli Stati cosiddetti democratici che rifiutano formalmente il riconoscimento del governo talebano ma intanto invitano i propri esponenti ai convegni internazionali e con loro fanno affari.

Finalmente qualcosa si muove anche a livello istituzionale in difesa delle donne afghane e del loro diritto all’esistenza. Qualcuno si è accorto della loro quotidiana insopportabile sofferenza e, andando oltre le astratte dichiarazioni in difesa dei diritti umani, si è esposto con un atto concreto.

Di fronte all’assoluta impermeabilità del governo talebano alle ingiunzioni delle istituzioni internazionali che richiedono il ritiro dei provvedimenti e il ripristino dei diritti delle donne, la risposta non può essere quella di cancellare il problema dalle agende politiche e recedere dalle pressioni per ingraziarsi i Talebani con concessioni commerciali e aiuti economici. E nemmeno quella di scommettere su una divisione del fronte talebano per poterne appoggiare gli esponenti più moderati, perché non ci sono Talebani cattivi e Talebani buoni: sono tutti comunque fondamentalisti.

La provata continuata oppressione delle donne in quanto genere e delle persone che non si conformano alla visione del mondo dei Talebani sarebbe stata meglio definita dal termine “apartheid di genere” (Adg), con il quale ormai da tutti viene nominata la persecuzione sistematica delle donne che avviene in Afghanistan, e in modo meno eclatante anche in altri Paesi. Ma la Cpi non poteva usare questo termine perché l’Adg non è un reato previsto dallo Statuto di Roma, che contempla l’apartheid basato sulla discriminazione etnica ma non sul genere.

Sebbene la Cpi abbia cercato di aggiornare e integrare il reato di persecuzione di genere, l’Adg rimane una definizione più ampia e comprensiva di tutte le sfaccettature e gli aspetti politici che le differenze di genere comprendono. Perciò da varie parti si avanza la richiesta di rivedere lo Statuto di Roma integrandolo con il crimine specifico di Adg. Anche il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda) si unisce a questa richiesta nella sua “Campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere” già avviata da novembre 2024.

Nel settembre dello scorso anno Canada, Germania, Australia e Paesi Bassi, seguiti successivamente da altre 20 nazioni, hanno annunciato la loro intenzione di deferire i Talebani presso il più alto tribunale delle Nazioni Unite, la Corte di giustizia internazionale, per le diffuse violazioni dei diritti umani contro le donne nel mancato rispetto della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw) di cui l’Afghanistan è firmatario. La procedura è in corso, vedremo nei prossimi mesi come andrà avanti.

Intanto, il 28 novembre scorso Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico hanno esortato il procuratore della Cpi a indagare sulle violazioni sistematiche e continue dei diritti delle donne e delle ragazze da parte dei Talebani.

Accogliendo la loro richiesta, a fine gennaio, il procuratore, che aveva già annunciato la ripresa delle indagini sulla situazione in Afghanistan dopo un periodo di differimento, ha presentato le richieste di arresto per i due Talebani.

I giudici della Cpi hanno tempo tre mesi per decidere se accogliere la richiesta. Se i mandati venissero emessi, i due uomini potrebbero essere arrestati in qualsiasi Paese membro della Corte, anche se, data la loro propensione a rimanere all’interno di Paesi amici, gli arresti e i processi sono in realtà una prospettiva lontana.

Potrebbe sembrare quindi un atto con scarse ricadute pratiche. Tuttavia, anche se questi mandati non dovessero portare all’arresto immediato e al perseguimento dei leader Talebani, avrebbero comunque l’effetto di danneggiare la loro posizione politica di fronte all’opinione pubblica mondiale. Rappresenterebbero un passo significativo nella lotta contro il riconoscimento internazionale del governo talebano, in un momento in cui molti Stati e l’Onu stesso si stanno adoperando per trovare giustificazioni umanitarie ed economiche che permettano di riconoscere al governo talebano il diritto a rientrare di fatto nella comunità internazionale nonostante la loro visione fondamentalista, condannata a parole da tutti gli Stati ma subita nei fatti in nome del pragmatismo.

La presa di posizione della Cpi ci costringe a ricordare che è ancora viva la tragedia delle donne in Afghanistan, un Paese uscito dai radar mediatici sulla spinta di altre catastrofi più recenti e dalla consapevolezza che l’opinione pubblica spesso facilmente dimentica le tragedie appena escono dall’immediato presente.

Ma soprattutto dovrebbe rendere evidente ai politici e alle istituzioni mondiali che impegnarsi con il governo dei Talebani, convocarli ai convegni internazionali, mediare con loro significa dare credibilità a un governo di criminali.

Per le donne vittime della persecuzione di genere la prospettiva aperta dalla Cpi rappresenta una speranza di riconoscimento della gravità della loro sofferenza e del loro coraggio. Ma se la giustizia vuole essere giusta non deve dimenticare le responsabilità dei Paesi occidentali. Nei vent’anni di guerra e occupazione le forze della coalizione, Stati Uniti in testa, si sono macchiate di numerosi atti di violenza e torture sulla popolazione civile.

Human rights watch (Hrw) e Amnesty international ricordano giustamente che tutte le vittime sono uguali e hanno uguale diritto al riconoscimento e al risarcimento. Perciò la Cpi non deve limitarsi a prendere in considerazione le vittime recenti del governo talebano ma deve invece riconsiderare le responsabilità di tutti gli attori in campo colpevoli di atti di barbarie, violenze, torture e ingiustizie che hanno provocato le numerosissime vittime civili.

L’Afghanistan ha aderito nel 2003 al Trattato di Roma che ha istituito la Cpi. Era il 2006 quando venne avviato un esame preliminare sui possibili crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Afghanistan dalle varie parti, cioè l’esercito degli Stati Uniti e la Cia, le forze di sicurezza afghane e la rete dei Talebani e degli Haqqani. Ma fu solo nel 2017 che l’allora procuratore Fatou Bensouda chiese ai giudici della Camera preliminare di autorizzare l’indagine ufficiale.

Passarono anni di immobilismo in attesa che si decidesse quale ambito di inchiesta fosse consentito effettuare. E quando nel 2023 è stato concesso di includere nelle indagini anche i recenti “nuovi attori” oltre ai responsabili dei venti anni precedenti, Khan ha deciso di concentrare le sue inchieste sui Talebani e sull’Iskp, escludendo di fatto la Cia, l’esercito statunitense e le forze della Repubblica afghana dalla sua competenza, considerando troppo oneroso condurre ricerche su casi di così ampia portata.

Una decisione forse realistica ma che ha creato una “gerarchia nelle vittime” determinata dall’identità del presunto autore, invece che dalla portata e gravità dei crimini. “Un insulto a migliaia di vittime di crimini commessi dalle forze governative afghane e dalle forze statunitensi e della Nato”, come l’ha giustamente definita un’attivista afghana.

La Cpi sta affrontando in questi giorni una pressione significativa a livello internazionale, che potrebbe avere conseguenze sulle sue indagini e sulla sua stessa esistenza. Gli Stati parte dello Statuto di Roma che governa la Corte, tra cui l’Italia, dovrebbero confermare l’importanza di questa istituzione e supportare concretamente l’esercizio del suo mandato indipendente, garantendole con il sostegno e l’assistenza pratica la possibilità di espandere le sue indagini in Afghanistan.

Beatrice Biliato fa parte del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda)

Radio Begum: il silenzio assordante dell’Occidente

Antonella Mariani, Avvenire, 6 febbraio 2025

“Avvenire” ben interpreta lo sgomento e l’interrogativo di tutti davanti alla chiusura di Radio Begum nel silenzio dell’Occidente: a chi importa?

«All’inizio ci hanno incoraggiate, dicevano che poiché non potevano garantire la frequenza alle ragazze era utile che la scuola arrivasse nelle loro case. E abbiamo iniziato. Non ci hanno fermato». Così raccontava Hamida Aman ad Avvenire nell’aprile 2024. Poco meno di un anno dopo è accaduto: le hanno fermate. La notizia è di martedì, ma come spesso accade quando si tratta dell’Afghanistan, nei media internazionali non ha avuto il rilievo che avrebbe richiesto la sua rilevanza. Il complotto del silenzio, che ha violentemente zittito Radio Begum, l’unica radio e televisione di donne per le donne nell’Emirato islamico, ha complici anche in Occidente.

Martedì, dunque, un drappello di ufficiali dell’intelligence, assistiti da rappresentanti del Ministero dell’informazione e della cultura, ha fatto irruzione nella sede di Kabul. Gli uomini hanno sequestrato computer, telefoni, hard disk, e arrestato due dipendenti maschi. Le giornaliste, le psicologhe, le teologhe, le educatrici e le dottoresse che dai microfoni dell’emittente nata l’8 marzo 2021 e finanziata anche dall’Unesco (a proposito, ecco a cosa servono i “carrozzoni” da cui Trump sta scendendo precipitosamente: a dare voce a chi non ce l’ha più) non erano presenti negli studi radiofonici e televisivi, perché nemmeno i media sono stati risparmiati dall’odio misogino del regime integralista afghano. Ma lavoravano da casa e resistevano, come tutte le ragazze e le donne in quella prigione a cielo aperto che è diventato l’Afghanistan dal 15 agosto 2021, quando i taleban si sono impadroniti del potere.

L’unico contatto con la realtà

Radio Begum, che da un anno era diventata anche una tv satellitare, trasmetteva, in parte da Parigi, le lezioni previste dai programmi scolastici ufficiali nelle due lingue più diffuse, il pashtun e il dari. In un Paese in cui l’analfabetismo femminile è all’80 per cento contro il 51 per cento di quello maschile, la radio era una opportunità unica per le ragazze di continuare a imparare e per le donne adulte di aprire la mente. Radio Begum, che per volontà della fondatrice Hamida Aman, giornalista afghana-svizzera residente in Francia, aveva preso il nome della nonna – “Principessa” –, non diffondeva solo istruzione, ma attraverso le 18 antenne installate in 20 delle 34 province afghane raggiungeva tre quarti del Paese, trasmetteva dibattiti sull’educazione dei bambini, sui rapporti di coppia, su cosa prevede l’islam rispetto all’età del matrimonio, sulla salute fisica e mentale, e approfittando dei minimi spazi che gli occhiuti controllori concedevano, forniva nozioni utili alle donne e alle ragazze che per lo più vivono isolate in casa, aprendo agli interventi delle ascoltatrici da casa.

Che infatti chiamavano numerose. Hamida Aman aveva raccontato ad Avvenire che una delle ascoltatrici più assidue era Fatima, 16enne di Bamyan, cieca dalla nascita e praticamente analfabeta. «Non aveva mai frequentato scuole speciali, né imparato l’alfabeto Braille. Ora non si perde una delle nostre lezioni, e ci ha detto che così ha la sensazione di andare a scuola. La radio è il suo unico contatto con la realtà».

Tutto finito?

Tutto finito? Se la parola più citata dell’anno è speranza, allora l’augurio è che sia solo una prova di forza, come già in passato era accaduto con alcuni programmi che erano stati sospesi o cancellati dopo il mancato imprimatur dei taleban. Ma questa volta ci sono gli arresti, ci sono le accuse di aver abusato della licenza diffondendo contenuti di reti televisive straniere: un’accusa pesantissima per chi sostiene che tutto ciò che viene dall’esterno è fonte di corruzione.

Restiamo con le nostre domande aperte: a chi davvero interessa che Radio Begum sia stata chiusa? Al silenzio imposto a una delle più importanti emittenti indipendenti in Afghanistan corrisponde l’assordante silenzio dell’Occidente. A parte le doverose dichiarazione di Reporter senza frontiere e dell’Associazione per la protezione dei giornalisti afghani, che lamentano il recente giro di vite alla libertà (sic) di stampa nel Paese (nel 2024 sono state chiuse 12 testate, con numerosi arresti arbitrari), a chi davvero interessa che una emittente di donne per le donne sia stata silenziata? Domanda senza risposta, come quella d’altronde che la giornalista afghana Nazira Karima ha posto l’altro ieri al presidente Donald Trump sull’esistenza di un piano per il futuro del suo popolo. Ed ecco la replica: «Lei ha una bella voce e un bell’accento. L’unico problema è che non capisco una parola di quello che dice. Ma le dirò questo: buona fortuna. Vivi in pace». C’è in gioco davvero più che una radio tv. C’è in gioco il destino di metà della popolazione di un intero Paese. C’è in gioco, in fondo, l’umanità di ciascuno di noi.

 

La vita di una bambina ceduta in risarcimento

Shamsia, Zan Times, 3 febbraio 2025

Questa è la storia di una bambina che è stato data via come risarcimento e che ora vende penne per le strade di Kabul per sopravvivere. È stata scritta da una giornalista con lo pseudonimo di Shamsia.

Il mio cuore batte forte ogni giorno quando esco di casa e mi dirigo a Pul-e-Surkh, vicino all’Università di Kabul. Temo che i talebani possano fermarsi accanto a me e trascinarmi di nuovo nel loro veicolo. Sono distrutta per essere stata imprigionata dai talebani e per aver dovuto spiegare perché lavoro come venditrice ambulante. La prima volta che mi hanno arrestata, sono riuscita a liberarmi piangendo e supplicando, ora mi nascondo dietro i muri e nei vicoli di Pul-e-Surkh, aspettando che passino i loro veicoli. Mi copro il viso con un velo nero prima di scendere in strada per vendere penne.

So che il mio aspetto rende le persone sospette, pensano che io sia una mendicante. Vendere penne è l’unico lavoro che posso fare al momento. Vorrei avere un lavoro migliore, ma devo portare il cibo a casa e comprare le medicine per mia suocera.

Ogni giorno alle sei del mattino cammino da Company (un quartiere di Kabul) a Pul-e-Surkh. Non posso permettermi il biglietto dell’autobus e vendo penne lungo la strada. Alle sei di sera torno a casa a piedi. Quando dico “casa”, potresti immaginare una casa con un tetto, finestre e porte, ma invece viviamo in una tenda. In inverno, non abbiamo abbastanza carburante per stare al caldo. Mio marito e io usiamo il nostro magro reddito per soddisfare i bisogni di base. Riusciamo a malapena a comprare olio, riso e farina per non morire di fame. Mia suocera prende i miei guadagni e a volte mi dà un po’ di soldi per comprare una sciarpa o dei vestiti. È malata, ma non possiamo permetterci un medico e nessuno la curerà gratis.

Una bambina in cambio

Avevo 12 anni quando mi hanno data in sposa, ora ne ho 14. All’inizio non avevo idea di cosa significasse il matrimonio. Non avrei mai immaginato che sarei stata separata dalla mia famiglia così giovane, ma la mia famiglia non aveva scelta. Mio zio ha avuto una relazione con la sorella di mio marito e i due sono scappati insieme. In cambio della loro figlia che era scappata con mio zio, la famiglia di mio marito ha preteso me.

La mia famiglia mi ha dato via come risarcimento. Mio zio e mia cognata vivono in un posto sconosciuto, ma io sono qui, a pagare il prezzo delle loro azioni. A casa non ho autorità: faccio tutto quello che gli altri mi dicono di fare.

Anche mio marito è vittima della decisione di sua sorella. Eravamo entrambi bambini e ora ci siamo sposati controvoglia. Anche mio marito è un venditore di penne. A volte andiamo insieme al mercato, altre volte lavora a Sar-e-Kotal. A volte, invece di vendere penne, vende acqua.

Compro penne a cinque afghani l’una e le vendo a 10. I miei guadagni giornalieri sono imprevedibili. A volte vendo un pacchetto completo di 12 penne, altre volte ne vendo molto meno. Nei giorni in cui vendo qualche penna in più, torno a casa più felice.

La paura dei talebani

Dopo che i talebani mi hanno arrestato per aver lavorato per strada, ero terrorizzata e non volevo più lavorare. Sono rimasta a casa per qualche giorno, ma mia suocera mi ha detto che dovevo lavorare, altrimenti saremmo rimasti con la fame. Ho dovuto tornare in strada. Ora, sono estremamente attenta, anche se la paura di essere arrestata e imprigionata è sempre con me. Non so se è maggiore la preoccupazione di mettere il cibo in tavola o di come scappare dalla prigione dei talebani.

Quando le forze talebane mi hanno arrestata vicino all’Università di Kabul mi hanno portata in un luogo sconosciuto. Anche mio marito e diversi altri bambini lavoratori sono stati trattenuti. Siamo rimasti sotto custodia per due giorni. Ci hanno dato pochissimo cibo e avevamo costantemente fame. Alcuni bambini sono stati picchiati.

“Non lavorate. Restate a casa. Vi aiuteremo”, ci hanno detto i talebani. Ma non ci hanno aiutato per niente. Invece, ci hanno fatto promettere che non avremmo mai più lavorato e hanno minacciato che ci avrebbero torturati e imprigionati se fossimo stati sorpresi per strada una seconda volta.

Durante l’interrogatorio, ho implorato e pianto, spiegando la mia disperazione per il fatto che avevo una persona malata a casa e nessuno che la nutrisse o si prendesse cura di lei. Dopo due giorni, mi hanno rilasciata ma hanno tenuto mio marito in prigione.

Sogno di diventare mamma un giorno. Non ho ancora pensato a quante figlie o figli vorrei avere, ma mia suocera vuole che diventi mamma presto. Mi manca sempre mia madre. Non mi è permesso andare a trovare a casa i miei genitori, che sono lontani, ma a volte lei viene a trovarmi di nascosto.

Ogni volta che vedo bambini che vanno a scuola, vorrei essere uno di loro. Più di ogni altra cosa, vorrei diventare un medico. Non sono mai andata a scuola, ma so che l’istruzione è una cosa molto buona.

Vorrei che nessun’altra ragazza dovesse subire la mia stessa sorte. Spero che nessun’altra venga data via come risarcimento come è successo a me.

I talebani chiudono la radio delle donne afghane

ANSA, 3 febbraio 2025

Un comunicato Ansa informa che i talebani hanno chiuso Radio Begun a Kabul irrompendo in forma plateale e arrestando due dipendenti

La scure dei talebani si abbatte ancora una volta sulle donne afghane, privandole di una voce importante.

Radio Begum, emittente che promuove l’istruzione e l’empowerment femminile raggiungendo con le sue trasmissioni quasi tutto l’Afghanistan, è stata costretta a chiudere. E’ stata un’operazione plateale, con un’irruzione nella sede di Kabul, che ha portato anche all’arresto di due dipendenti. L’accusa, tra le altre cose, è di aver collaborato con delle tv all’estero: una cosa ritenuta inammissibile in un Paese che da oltre tre anni è tornato ad essere governato con la più oscurantista interpretazione della sharia.

Sono stati i vertici di Radio Begum a denunciare il blitz dei talebani che ha portato all’oscuramento della programmazione. “Ufficiali della Direzione generale dell’intelligence assistiti da rappresentanti del Ministero dell’informazione e della cultura hanno fatto irruzione nel nostro complesso a Kabul”, ha riferito l’emittente, aggiungendo che le autorità hanno arrestato due dipendenti maschi “che non ricoprono alcuna posizione dirigenziale” e sequestrato computer, dischi rigidi e telefoni. Non è stato aggiunto nient’altro, per non compromettere la sicurezza dei membri del personale trattenuti, ma è stato lanciato un appello alle autorità a “prendersene cura e a rilasciarli il prima possibile”.

La versione dei talebani è che Bagum si è resa responsabile di “molteplici violazioni, inclusa la fornitura di materiali e programmi ad una stazione televisiva all’estero” e la trasmissione di contenuti di emittenti straniere. Un “uso improprio della licenza” che porterà ad una “sospensione” a tempo indefinito in attesa di ulteriori indagini.

Radio Begum era stata fondata l’8 marzo 2021, in occasione della giornata internazionale della donna, dall’imprenditrice e giornalista Hamida Aman. Con una programmazione 24 ore su 24, 7 giorni su 7, che includeva corsi educativi per studenti delle scuole medie e superiori, in particolare rivolti alle ragazze a cui era stato impedito l’accesso all’istruzione formale dal ritorno al potere dei talebani nell’agosto dello stesso anno. Queste lezioni venivano trasmesse in dari al mattino e in pashtu al pomeriggio, le due lingue ufficiali dell’Afghanistan. Nel 2024, tra l’altro, era stata lanciata Begum Tv, un canale satellitare con sede a Parigi finanziato in parte dal Malala Fund, l’organizzazione nata su impulso dell’attivista pachistana Nobel per la Pace.

Radio Begum ha sempre sostenuto di non essere mai stata coinvolta in alcuna attività politica e di essere semplicemente “impegnata a servire il popolo afghano e più specificamente le donne afghane”. E tuttavia, l’emancipazione femminile è di per sé una violazione della legge islamica, secondo i talebani, che hanno imposto ampie restrizioni alle donne, escludendole dalla vita pubblica del ricostituito Emirato. Un “apartheid di genere”, è la denuncia dell’Onu, aggravato dalla stretta più generale contro la libertà di stampa, che secondo i gruppi di difesa dei diritti umani ha fatto precipitare l’Afghanistan nel più completo isolamento internazionale.

La normalizzazione dell’oppressione sotto il regime talebano

8Am Media, 3 febbraio 2025

“Noi respiriamo e basta, senza essere veramente vive”, mentre l’oppressione diventa normale nel silenzio degli uomini

In questo preciso momento, mentre inizio a scrivere queste righe, sono trascorsi 1.260 giorni da quando i talebani hanno preso il controllo dell’Afghanistan. Ma questi 1.260 giorni non sono più solo un numero: sono una catena, che diventa più pesante di momento in momento attorno al collo del nostro tempo e della nostra stessa esistenza.

Questi giorni raccontano la lenta distruzione di un’intera generazione di donne e ragazze, una generazione che non ha vissuto sotto l’ombra del terrore ma è semplicemente sopravvissuta. Giorni che, invece di assistere allo sbocciare dei sogni, hanno solo visto il loro crollo. Un tempo in cui le aspirazioni non sono state perseguite ma seppellite, una per una.

Questi giorni sono incisi come una fiamma spenta nei cuori di una generazione, una generazione le cui voci di speranza, con ogni frustata sui loro corpi e sulle loro anime, si sono appassite in sussurri senza vita. Per 1.260 giorni, il tempo non è passato per loro né si è fermato; ha solo scavato nuove ferite nel tessuto dei loro spiriti. Questi giorni testimoniano la graduale morte della speranza e la silenziosa sepoltura di grida e voci mai ascoltate.

Talebani è sinonimo di orrore

Abbiamo sempre saputo che i talebani erano un gruppo terroristico a tutti gli effetti, allevato nelle madrase del Pakistan, non per costruire, ma per distruggere. Uomini rozzi, con la barba folta e dall’aspetto spaventoso, fucili a tracolla, crudeltà sfacciata, che frustavano le donne in piazza Spinzar a Kabul con selvaggia brutalità. Nella nostra mente, l’immagine dei talebani è sempre stata sinonimo di orrore. Come si potrebbe non temere un gruppo che si lega le bombe al corpo con precisione esperta, solo per farsi esplodere e fare a pezzi centinaia di vite innocenti?

Ora, da tre anni, viviamo sotto lo stesso incubo che un tempo definiva le nostre peggiori paure. Se questo può anche essere chiamato “vivere”. Perché noi respiriamo e basta, senza essere veramente vive. Chissà? Forse nel loro prossimo decreto, persino respirare sarà proibito “fino a nuovo avviso”.

 

Un regime costruito sulle rovine della dignità umana

Per tre anni, siamo state sistematicamente spogliate della nostra umanità. Scuola, università, lavoro, viaggi, voce, visione, finestre e persino la nostra stessa identità ci sono stati tolti. Siamo state imprigionate nelle nostre stesse case, le nostre voci messe a tacere. E quando abbiamo osato protestare, ci hanno frustato senza pietà, selvaggiamente, imperdonabilmente. Per tre anni, stupro, umiliazione e oppressione non sono stati semplici incidenti; sono stati politica, una strategia deliberata per distruggere lo spirito collettivo, estinguere la speranza e fortificare un regime costruito esclusivamente sulle rovine della dignità umana.

E tuttavia, attraverso tutto questo, sono le donne che hanno tenuto duro in questo campo di distruzione. Donne che si sono inginocchiate davanti ai corpi senza vita dei loro sogni, le loro lacrime e le loro urla hanno messo a nudo la loro impotenza di fronte a un mondo a cui semplicemente non importa.

Non hanno solo protestato. Hanno pagato il prezzo. Con la prigionia, con le frustate, con il loro sacrificio. Sono le donne che si svegliano ogni mattina con il suono dei loro sogni che crollano intorno a loro e ogni notte sono costrette a seppellire le loro aspirazioni nel silenzio soffocante di questa terra oscura.

Un vergognoso silenzio

Ma il dolore non deriva solo dai mostri misogini che si definiscono un governo. No, questo incubo è più grande di un regime. Con l’arrivo di queste bestie, risentimenti sepolti da tempo, ignoranza radicata e misoginia nascosta nel tessuto stesso della società sono emersi. È come se la loro presenza avesse dato una licenza, un permesso distorto a una società che aveva sempre considerato le donne inferiori, per metà viste, per metà ignorate. E ora, apertamente, infligge le sue ferite ai loro corpi e alle loro anime.

Eppure, loro resistono. Donne che sono state abbandonate dalle loro case, dalle loro comunità e persino dalla storia stessa. Sole. Ma orgogliose. Sfidanti di fronte a un’oppressione così grande che ha annegato il mondo in un vergognoso silenzio.

Solo pochi giorni fa, le grida disperate della figlia del nostro vicino risuonavano tra le pareti della loro casa mentre suo padre la picchiava. La chiamerò Farah. Farah era all’undicesimo anno quando arrivarono i talebani. Era una ragazza piena di ambizione, traboccante di sogni, sogni abbastanza grandi da creare un mondo completamente nuovo. Voleva diventare una scrittrice. Aveva imparato a memoria ogni libro di Elif Shafak e Mahmoud Dowlatabadi.

Ma i sogni di Farah furono bruciati, letteralmente. I suoi libri dati alle fiamme. Fu picchiata fino alla sottomissione e costretta a sposare un uomo vedovo, la cui unica qualifica era la sua ricchezza, un uomo che l’aveva trascinata da un mondo di sogni alla schiavitù di una vita imposta. E quando la gente protestò contro la decisione di suo padre, lui ebbe una sola risposta: “Le scuole sono chiuse. Di questi tempi, tenere una figlia nubile è difficile”.

 

L’oppressione è diventata ordinaria

La storia di Farah, per quanto amara e tragica, non sembra più nemmeno un evento degno di nota. Nella realtà soffocante che governa la vita delle donne qui, storie come la sua sono diventate insignificanti. Ogni giorno, centinaia di storie del genere, scritte e non scritte, si dipanano, racconti che, in un altro tempo, avrebbero acceso la rabbia, avrebbero fatto piangere. Ma ora sono diventati solo un’altra parte della routine quotidiana di questa terra.

Come disse una volta Hannah Arendt: “La più grande vittoria degli oppressori è quella di normalizzare l’oppressione”. E qui, nella terra di Farah, l’oppressione non ha più bisogno di giustificazioni. L’ingiustizia cammina per le strade, respira nelle case e si annida nelle menti. Quando l’oppressione diventa ordinaria, nessuno urla più. E così, la storia di Farah, come le storie di innumerevoli altri, è sepolta in quello stesso silenzio mortale. Un silenzio che non riflette altro che la morte dell’umanità stessa.

 

Dentro ogni uomo un talebano nascosto

Ogni volta che abbiamo provato a parlare del silenzio degli uomini di fronte alla crudeltà dei talebani verso le donne, le nostre voci sono state strozzate prima ancora di poter uscire dalle nostre gole. Ci hanno detto: “No, non avete il diritto di dire queste cose”. Hanno sostenuto: “Se gli uomini protestano, verranno uccisi”. Alcuni, persino con orgoglio, hanno detto: “Il semplice fatto che un uomo permetta alla sorella o alla moglie di uscire e alzare la voce è di per sé un atto di sostegno”.

Ma perché? Perché la responsabilità è stata così drasticamente ridotta? Perché l’aspettativa di una decenza umana di base è stata abbassata a un livello così spaventoso? Se domani i talebani dovessero imporre a tutta la società gli stessi decreti che hanno cancellato le donne dalla vita pubblica, questo silenzio e questa indifferenza continuerebbero? No. Questo silenzio non è solo paura. Questo silenzio ha radici più profonde. È radicato nell’accettazione, nella normalizzazione, in un talebano nascosto che ha sempre vissuto nei cuori della maggior parte degli uomini in questa società. Perché nessuno lo dice? Perché nessuno ammette che la maggior parte delle persone in questa società porta dentro di sé un talebano silenzioso e nascosto? Un talebano senza pistola, senza decreto, uno che, attraverso il silenzio e la complicità, spiana la strada stessa dell’oppressione.

Cosa può fare per l’economia l’investimento nell’istruzione femminile

Harry Anthony Patrinos, The Conversation, 3 gennaio 2025

Dopo la caduta dei Talebani dal potere in Afghanistan nel 2001, alle donne è stato nuovamente permesso di andare a scuola, dopo il divieto del 1996. Insieme all’esperto di istruzione della Banca Mondiale Raja Bentaouet Kattan e all’economista dell’American University Rafiuddin Najam, ho analizzato i benefici economici di questo cambiamento sociale utilizzando i dati delle indagini sulla forza lavoro e sulle famiglie condotte in Afghanistan nel 2007, 2014 e 2020. Abbiamo scoperto che i benefici sono enormi.
Dopo la caduta dei Talebani, le opportunità di istruzione sono aumentate a tutti i livelli. Il tasso di mortalità infantile si è dimezzato e il reddito nazionale lordo pro capite è quasi triplicato in termini reali di potere d’acquisto, passando da 810 a 2.590 dollari.
Gran parte del progresso economico del Paese in questo periodo può essere attribuito alle donne. Mentre il rendimento medio complessivo degli investimenti nell’istruzione rimane basso in Afghanistan, è elevato per le donne. Ad esempio, per ogni anno di scolarizzazione in più ricevuto da una donna, il suo reddito aumenta del 13%. Questo dato è superiore alla media globale del 9% per il ritorno sugli investimenti nell’istruzione.

Perché è importante?

A vent’anni dalla fine del primo divieto di istruzione femminile, i Talebani hanno ripreso il potere nel 2021 e hanno nuovamente imposto il divieto alle ragazze e alle donne di frequentare la scuola dopo la prima media.

Il costo economico potrebbe superare il miliardo di dollari, senza contare i costi sociali più ampi associati ai bassi livelli di istruzione delle donne. Per avere un’idea, l’intero prodotto interno lordo dell’Afghanistan nel 2023 era di soli 17 miliardi di dollari.

Il nostro studio dimostra quanto il più recente divieto di istruzione possa essere catastrofico, non solo per le donne, ma per l’intero Paese.

Come abbiamo svolto il nostro lavoro

La ricerca sul ritorno economico della scolarizzazione, soprattutto per le donne, è limitata all’Afghanistan. Tuttavia, tali dati sono fondamentali per comprendere le perdite economiche che un Paese subisce quando alle donne viene negato l’accesso all’istruzione e alle opportunità di lavoro.

Il nostro studio ha cercato di colmare questa lacuna quantificando come sono cambiati i guadagni in risposta a un anno aggiuntivo di scolarizzazione. Abbiamo esaminato cosa è successo tra il 2004, quando il governo ha esteso l’istruzione obbligatoria per uomini e donne dalla sesta alla nona classe, e il 2020.

I nostri risultati suggeriscono che il costo dell’esclusione delle donne dall’istruzione e dal lavoro è significativamente più alto di quanto stimato in precedenza. Secondo la nostra ricerca, l’Afghanistan rischia di perdere oltre 1,4 miliardi di dollari all’anno. Ciò equivale a una diminuzione del 2% del reddito nazionale.

Cosa c’è dopo?

Tra i ricercatori è diffusa la convinzione che investire nell’istruzione femminile abbia un impatto maggiore di quello di ogni singola donna. Offre, infatti, benefici economici e sociali che possono durare per generazioni. Tra questi vi sono tassi di frequenza scolastica più elevati e un miglioramento della salute dei figli.

Ulteriori ricerche potrebbero esaminare i benefici sociali dell’istruzione femminile in Afghanistan tra il 2001 e il 2021, oltre ai benefici economici. In futuro, si potrebbero condurre studi per valutare l’impatto della scolarizzazione sulle comunità, esaminando se gli investimenti nell’istruzione femminile interrompono i cicli di povertà intergenerazionali, migliorano la salute pubblica e riducono le disuguaglianze, creando un effetto moltiplicatore.

Ogni giorno in più in cui persiste il divieto di istruzione femminile, le generazioni restano indietro, le perdite si aggravano e i sogni di milioni di bambini e donne imprenditrici diventano sempre più irraggiungibili.

Il Research Brief è una breve sintesi di un interessante lavoro accademico.

 

Le donne di Herat sfidano le restrizioni dei talebani imparando a guidare

Muzhda Mohammadi, Rukshana Media, 7 gennaio 2025

Nell’aria fredda del mattino di Herat una giovane donna è seduta al volante e impara a guidare sulle strade tranquille e appartate della periferia della città, lontano dalla vista dei talebani.

Si sta esercitando alla guida con un gruppo di donne che non stanno solo acquisendo un’abilità, stanno segretamente combattendo contro un tabù culturale e le restrizioni che impediscono alle donne di guidare imposte dai talebani.

Feriba*, 19 anni, ha iniziato a insegnare alle donne a guidare sette mesi fa. Riconosce i rischi e le potenziali conseguenze di essere punite se scoperte, ma è determinata ad aiutare le donne a realizzare il loro potenziale.

“Il mio lavoro è segreto e i talebani non sono a conoscenza di queste lezioni. Ho assunto il rischio di tenere queste sessioni, niente può ridurre la mia motivazione a realizzare i miei sogni”, afferma.

Secondo fonti di Herat, i talebani hanno smesso di rilasciare patenti di guida alle donne tre anni fa. All’epoca a Herat esistevano almeno quattro scuole guida per le donne, che potevano ottenere la patente di guida senza problemi.

Nell’agosto 2021, quando l’Afghanistan cadde nelle mani dei talebani, anche il mondo di Feriba crollò. Era una studentessa dell’undicesimo anno e un’atleta di taekwondo. Poi i talebani vietarono alle ragazze di andare al liceo e di praticare sport.

Costretta a casa, privata dell’istruzione e del tempo libero, Feriba iniziò a soffrire di una profonda depressione.

“Quando mi è stata negata la possibilità di andare a scuola e di lavorare, ho sentito come se tutto fosse scomparso senza un senso. Ero sconvolta, gravemente depressa e sono diventata una reclusa”, dice.

“Ero sempre nella mia stanza. Quelle condizioni mi erano molto dure da sopportare”.

Feriba racconta che, grazie al sostegno della sua famiglia, in particolare del padre, è riuscita a superare la depressione e l’autoisolamento iniziando a guidare.

“Mio padre mi ha suggerito che invece di essere depressa e confusa a causa della scuola e del lavoro, sarebbe stato meglio per me imparare a guidare”, racconta.

E così, Feriba usciva ogni giorno di casa con suo padre nella sicurezza della macchina, mentre lui le insegnava a guidare finché non si sentiva sicura di saperlo fare da sola.

Diffondere la gioia della guida

Feriba ha ora portato lo stesso balsamo ad altre. Tiene in segreto un corso teorico di meccanica automobilistica e regole stradali. Dice che 35 donne hanno già completato il suo corso e ora altre cinque lo fanno.

Le donne che imparano a guidare lo vedono anche come una porta verso un potenziale impiego.

“L’entusiasmo delle donne di Herat nell’imparare a guidare è molto alto”, afferma Feriba.

Tuttavia, l’impresa non è esente da sfide.

“Purtroppo, su questo difficile cammino, ci sono persone che non vogliono i progressi delle donne, quindi informano i talebani e ci creano problemi”, dice.

Ma nonostante le minacce, non si arrende. Nel tempo libero, guida per le strade di Herat e accompagna la sua famiglia in vari luoghi con la loro auto personale.

Tuttavia, afferma che le donne alla guida vengono solitamente fermate dalle forze talebane in città e interrogate sul loro hijab.

“Le donne e le ragazze di Herat di solito indossano lunghi chador e osservano l’hijab. Ma da quello che ho visto e sentito, diverse volte le mie amiche e colleghe sono state molestate dai talebani a causa del loro abbigliamento”, dice.

“Il motivo principale delle molestie sembra essere il loro aspetto: quelle attraenti vengono immediatamente fermate e, a volte, viene persino impedito loro di guidare.”

Herat è una delle poche città in cui si possono ancora vedere per le strade donne alla guida nonostante i talebani al governo.  Ma anche prima del ritorno dei talebani nel 2021, era una delle poche province in cui questa pratica era accettata.

In altre parti dell’Afghanistan, la maggior parte delle donne è ancora privata dei propri diritti fondamentali e non è autorizzata a uscire di casa senza un tutore uomo.

Normalizzare le donne al volante

Yaganah Mohammadi, 25 anni, insegna guida e vorrebbe che la vista di donne al volante diventasse una cosa normale per aiutare a “ridurre le restrizioni sulle donne”.

Aveva imparato a guidare e aveva preso la patente prima che i talebani prendessero il potere. Ma non è del tutto a suo agio: tiene le portiere dell’auto chiuse a chiave e non abbassa mai i finestrini. Si stringe il velo intorno al viso.

Afferma che quando è al volante, indipendentemente da ciò che fa, alcuni uomini iniziano a fischiare, a suonare il clacson senza motivo o a molestare.

“Sono stata molestata più volte mentre guidavo e ho anche avuto discussioni e scontri con i molestatori. A volte, se un posto di blocco è vicino, informo gli ufficiali talebani”, dice.

Sostiene che questa arretratezza culturale nella provincia di Herat ha portato sempre meno donne a sedersi al volante, per paura o a causa dell’opposizione delle loro famiglie, come è successo a molte delle sue amiche che un tempo guidavano.

Yagana afferma che invece la sua famiglia la sostiene, motivo per cui non ha smesso nonostante la paura dei talebani e le molestie sociali.

“Guidare non è un compito difficile per le donne e le ragazze, e attualmente molte donne possiedono un’auto. In assenza di scuole guida a Herat, insegno guida alle donne e loro possono guidare senza problemi, anche senza avere la patente.

“Mentre guido, spesso trovo il sostegno delle donne e delle ragazze di Herat che mi dicono con desiderio: ‘Vorrei saper guidare come te’.

“A volte, quando vedo una donna anziana ferma per strada senza un risciò o altri mezzi di trasporto disponibili, la lascio salire in macchina e la porto dove deve andare.”

Laila Habibi*, 28 anni, guida da otto anni. Si riprende mentre guida per andare al lavoro presso un’agenzia di stampa di Herat e condivide il filmato sui social media.

“Credo che mostrare una donna alla guida possa convincere altre donne a capere che una donna può avere il controllo della propria vita e la propria indipendenza. Può guidare e perseguire il lavoro che desidera, e svolgerlo con successo”, afferma Laila.

“Quando guido, spesso mi imbatto in sguardi strani da parte delle persone e, secondo me, questo sguardo è inquietante per qualsiasi donna che guida a Herat.”

Un segno di forza

Poiché le donne che imparano a guidare non hanno più la possibilità di ottenere una patente valida, circolare per strada comporta alcuni rischi.

Lida* è rimasta coinvolta in un incidente stradale con un veicolo a tre ruote e il conducente ha cercato di ricattarla, sapendo che non aveva la patente.

“Ha cercato di estorcermi 20.000 afghani (285 dollari) e ha minacciato di contattare il Dipartimento del traffico dei talebani. Tuttavia, dopo aver incontrato la resistenza della gente, ha fatto marcia indietro ma sono stata costretta a pagargli 400 afghani (5,50 dollari)”, racconta.

Tuttavia, le insegnanti di guida ritengono che valga la pena correre il rischio. Laila incoraggia donne e ragazze a non complicare ulteriormente la loro situazione restando a casa. Le esorta a sfruttare ogni opportunità che riduca le restrizioni che devono affrontare.

“La nostra presenza nella società è un segno della nostra forza. Nella situazione attuale, in cui le restrizioni hanno creato sofferenze per le donne, non dovremmo peggiorare le cose restando a casa”, afferma.

“Invece, dovremmo concentrarci sui nostri obiettivi in ​​modo da non perdere le opportunità di progresso. Secondo me, anche un piccolo sforzo può motivarci a lavorare di più e a creare un futuro migliore per noi stessi”.

Nota*: i nomi sono stati cambiati per motivi di sicurezza.

L’Afghanistan è il peggior paese al mondo per nascere donna

Intervista a Graziella Mascheroni, presidente del Cisda, associazione che lotta contro l’apartheid di genere nel paese dei talebani

Silvia Cegalin, Micro Mega,  14 gennaio 2024

In Afghanistan le donne possono solo respirare. Segregate tra le mura domestiche o coperte con i loro burqa quando si espongono alla minima luce del sole, le donne afghane non devono essere visibili, neanche attraverso una finestra o una fessura di un cortile. Private della parola e del canto, non possono far udire il suono della loro voce in pubblico, nemmeno quando pregano.

La volontà dei talebani è seppellire le donne, imprigionarle dentro case che si stanno trasformando sempre più in prigioni, renderle invisibili alla società, al mondo. In Afghanistan, da quando sono ritornati al potere (agosto 2021), le donne sono state progressivamente cancellate dagli spazi pubblici, private dei loro diritti fondamentali e poste in una condizione di violenta oppressione, tant’è che in Afghanistan non si parla più di discriminazione di genere, bensì di apartheid di genere.

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L’intervista integrale si trova su MicroMega il 14 gennaio 2025 a firma di Silvia Cegalin

Quelle radici patriarcali e fondamentaliste

«Femminicidi d’onore. Dal “processo Saman” ai diritti negati delle donne migranti», a cura di Ilaria Boiano e Isabella Peretti per Futura Editrice

Giuliana Sgrena, Il Manifesto, 16 gennaio 2025

Il femminicidio di Saman Abbas, la ragazza pachistana uccisa dai familiari, ha colpito l’opinione pubblica italiana e ha aperto gli occhi sulla realtà di giovani donne – nate in Italia o arrivate da piccole – la cui libertà è repressa con violenza inaudita da parte dei maschi della famiglia. Nonostante le denunce Saman era stata abbandonata alla sua malasorte, vittima di un rapporto padre-figlia esiziale, basato sul «possesso-dominio», come viene definito da Teresa Manente e Rossella Benedetti, le avvocate di parte civile nel processo per l’omicidio e l’occultamento di cadavere di Saman. Il caso della giovane pachistana è sviscerato nei diversi aspetti in Femminicidi d’onore, dal «processo Saman» ai diritti negati delle donne migranti a cura di Ilaria Boiano e Isabella Peretti (Futura Editrice, pp. 164, euro 15).

SICCOME SAMAN si ribellava alle angherie cui era sottoposta – segregata in casa, divieto di studiare e promessa in sposa a un cugino più vecchio – veniva definita la «pazza» dalla madre. Proprio della madre, Nazia, condannata all’ergastolo insieme al padre Shabbar, colpisce la complicità, dovuta forse al fatto che anche lei era vittima di una segregazione totale, che non le aveva permesso di alzare lo sguardo sul mondo che la circondava. Quindi, «non vi è dubbio alcuno che con l’uccisione della figlia, Nazia uccida anche una parte di sé», secondo Giovanna Fava, anche lei avvocata nel processo.

Ma quante Saman ci sono? Quante le vittime di femminicidio d’onore? Abbiamo sentito parlare di Hina Saleem la prima ragazza pachistana vittima di femminicidio in Italia, di Sana Cheema, altre sono morte nell’indifferenza, come Begun Shahnaz, lapidata, Kaur Balwinder, uccisa e buttata nel fiume.

È Tiziana Dal Pra, fondatrice dell’associazione Trama di Terre, a ricordarcele. Tutte vittime del controllo della sessualità da parte della famiglia ma anche della comunità di appartenenza, all’interno della quale un ruolo importante è spesso giocato dai fondamentalismi religiosi. Ma, come giustamente sostiene Tiziana Dal Pra, quando si trattano questi temi non dobbiamo autocensurarci per paura di essere accusate di islamofobia.

I diritti delle donne sono universali e non si può rinunciare a difenderli per una sorta di relativismo culturale che, questo sì, le condanna a essere sottomesse. Le forze reazionarie che sostengono che le altre «culture» sono barbare e violente lo fanno per difendere l’Occidente, come sostiene Isabella Peretti, e, in Europa, per difendere l’identità cristiana. Tuttavia, non si può negare il ruolo dei fondamentalismi religiosi, tutti, nell’oppressione della donna, anche nell’imposizione di un velo ideologico.

LA RIVOLUZIONE delle donne iraniane contro la teocrazia – che ha fatto del ciador l’identità della donna musulmana – è partita proprio dalla lotta contro l’obbligo del velo. Naturalmente il controllo delle «Saman», non si esercita solo con il velo, però basta guardare le foto di Saman velata o con la fascia rossa tra i capelli per vedere due donne completamente diverse. Quale è stata uccisa? Sicuramente la seconda. Le donne afghane sono quelle che, soprattutto con il ritorno dei taleban al potere – complici gli Usa negli accordi di Doha – soffrono le peggiori condizioni costrette a vivere in un sistema di inflessibile apartheid di genere. Private anche della possibilità di parlare, «la voce è la nudità della donna», non solo nell’islam.
Per eliminare giustificazioni culturali o religiose, le afghane con l’appoggio del Cisda e di una rete europea, hanno avviato una campagna per il riconoscimento del crimine di apartheid di genere intollerabile anche per il diritto internazionale.

Nel libro si richiama la responsabilità di chi dovrebbe proteggere le donne in pericolo. Innanzitutto, rendendole visibili, dando loro la parola – come nel Tribunale delle donne migranti – per individuare i problemi e i bisogni. Dalle testimonianze risulta un sistema legale e istituzionale inadeguato a riconoscere e affrontare le violenze – sfruttamento, tratta, prostituzione, matrimoni combinati, pregiudizi – che subiscono le donne migranti lasciate in una condizione di estrema vulnerabilità per il mancato riconoscimento dei loro diritti.

Le ONG che impiegano donne afghane saranno chiuse

Le Nazioni Unite hanno affermato che lo spazio per le donne in Afghanistan si è ridotto drasticamente negli ultimi due anni

The Associated Press, Rawa, 4 gennaio 2024

I talebani affermano che chiuderanno tutti i gruppi non governativi nazionali e stranieri in Afghanistan che impiegano donne, si tratta dell’ultima repressione dei diritti delle donne da quando hanno preso il potere nell’agosto 2021.

L’annuncio arriva due anni dopo che avevano chiesto alle ONG di sospendere l’impiego di donne afghane, presumibilmente perché non indossavano correttamente il velo islamico.

In una lettera pubblicata domenica sera, il Ministero dell’Economia ha avvertito che il mancato rispetto dell’ultima ordinanza avrebbe comportato per le ONG la perdita della licenza per operare in Afghanistan.

Le NU chiedono l’annullamento delle restrizioni

Le Nazioni Unite hanno affermato che negli ultimi due anni lo spazio riservato alle donne in Afghanistan si è ridotto drasticamente e hanno ribadito il loro appello ai talebani affinché annullino le restrizioni.

“Questo ha un impatto reale su come possiamo fornire assistenza umanitaria salvavita a tutte le persone in Afghanistan”, ha affermato la portavoce associata delle Nazioni Unite Florencia Soto Nino-Martinez. “E ovviamente siamo molto preoccupati dal fatto che stiamo parlando di un paese in cui metà della popolazione è privata dei propri diritti e vive in povertà, e molti di loro, non solo le donne, stanno affrontando una crisi umanitaria”.

Il Ministero dell’Economia ha affermato di essere responsabile della registrazione, del coordinamento, della guida e della supervisione di tutte le attività svolte dalle organizzazioni nazionali e straniere.

Secondo la lettera, il governo ha nuovamente ordinato la sospensione di tutti i lavori femminili nelle istituzioni non controllate dai talebani.

“In caso di mancata collaborazione, tutte le attività di tale istituzione saranno annullate e verrà annullata anche la licenza di attività di tale istituzione, concessa dal ministero.”

È l’ultimo tentativo dei talebani di controllare o intervenire nelle attività delle ONG.

All’inizio di questo mese, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha appreso che a un numero crescente di operatrici umanitarie afghane è stato impedito di svolgere il proprio lavoro, nonostante gli aiuti umanitari restino essenziali.

Secondo Tom Fletcher, alto funzionario delle Nazioni Unite, è aumentata anche la percentuale di organizzazioni umanitarie che segnalano che il loro personale, femminile o maschile, è stato fermato dalla polizia morale dei talebani.

I talebani negano di impedire alle agenzie umanitarie di svolgere il loro lavoro o di interferire con le loro attività.

Hanno già escluso le donne da molti lavori e dalla maggior parte degli spazi pubblici, escludendole anche dall’istruzione oltre la sesta elementare.

Da un divieto all’altro

In un altro decreto, il leader talebano Hibatullah Akhundzada ha ordinato che gli edifici non debbano avere finestre che diano su luoghi in cui una donna potrebbe sedersi o stare in piedi.

Secondo un decreto composto da quattro clausole pubblicato su X sabato sera, l’ordinanza si applica sia ai nuovi edifici che a quelli esistenti.

Anche le Nazioni Unite hanno chiesto l’abolizione di questa restrizione, ha affermato Soto Nino-Martinez.

Il decreto affermava che le finestre non dovevano affacciarsi o guardare in aree come cortili o cucine. Quando una finestra guarda in uno spazio del genere, la persona responsabile di quella proprietà deve trovare un modo per oscurare questa vista per “rimuovere il danno”, installando un muro, una recinzione o una zanzariera.

I comuni e le altre autorità devono supervisionare la costruzione di nuovi edifici per evitare di installare finestre che si affacciano su proprietà residenziali o al di sopra di esse, aggiunge il decreto.

Un portavoce del Ministero dello sviluppo urbano e dell’edilizia abitativa non ha voluto commentare le istruzioni di Akhundzada.